L'incendio nell'oliveto/Capitolo VI
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VI.
Qui cominciò il dramma della nonna.
Nè quella sera, nè nei giorni seguenti ella parlò con nessuno del suo colloquio col figlio; ma alla notte non dormiva e di giorno vigilava.
Stefano veniva tutti i giorni, verso sera, come la prima volta; e come la prima volta sedeva davanti al camino, fra lei e Annarosa.
Non sempre la matrigna assisteva alla visita, o se entrava nella stanza si metteva in disparte, silenziosa, coi vivi occhi intenti nel viso pallido, un po’ china la testa incoronata dalla lucida treccia bruna.
Anche la nonna parlava poco: osservava tutto, però, immobile nel suo angolo, come dal fondo di una grotta: era come se lei stesse in ombra, ma vedesse gli altri muoversi nella luce. E non si lasciava sfuggire un solo dei loro gesti, pure tentando continuamente di convincersi che le parole di Juanniccu erano state parole d’ubriaco.
Tutto però le dava sospetto, e specialmente l’indifferenza ostentata fra Stefano e Nina.
Stefano veniva sempre alla stessa ora: arrivava fino al portone col suo passo calmo, col sigaro acceso che si toglieva di bocca e spegneva prima d’entrare: spesso aveva in mano un fascicolo di carte d’affari con la copertina arancione piegato in due e lo deponeva su una mensola in alto nell’angolo della stanza senza mai dimenticarsi di riprenderlo prima d’andarsene.
Portava giornali e libri ad Annarosa e a Gavino, e se questo era in casa lo attirava a sè e parlava e rideva con lui. Alla nonna raccontava gli avvenimenti del paese.
Il tempo, dopo Pasqua, si fece bello; sereno e calmo. Stefano arrivò un giorno senza soprabito, e apparve, nell’entrare, più svelto e più giovine. La nonna pensò che era primavera, che anche alle pecore si toglie la veste di lana, che anche lei era stata giovane e viva. Si volse e attraverso la porta aperta sul cortile vide la vite che già metteva i germogli e il muro del pozzo ancora dorato dal lungo tramonto. Non era più tempo che i giovani stessero accanto al fuoco.
— Andate fuori, andate un po’ dunque nell’orto, — disse agitando la canna verso la porta.
E i fidanzati s’alzarono, obbedienti. Stefano accomodò sul collo di Annarosa un lembo del risvolto di merletto; ed ella lasciò fare tranquilla; parevano tutti e due tranquilli, come già marito e moglie sposati da tanti anni; e la nonna con la sua canna in mano li guardava di sotto in su ricordando che al solo sentirsi toccare da un dito del suo fidanzato, in un tempo lontano, tremava tutta e stringeva i denti per non gemere.
— Andate: camminate un poco.
Appena essi furono usciti cercò con gli occhi la nuora. La vide che guardava i fidanzati dalla finestra della camera sull’orto; la sua figura nera si profilava dritta, rigida, sullo sfondo del cielo tutto coperto di nuvole d’oro che si spaccavano come la buccia di un’immensa arancia. Sembrava un crepuscolo estivo. Una gioia quasi carnale era nell’aria tiepida e fragrante, nella luce dorata che penetrava e rallegrava anche l’interno della casa. Giù nell’orto si sentiva la voce un po’ eccitata di Annarosa.
— Nina, — chiamò la nonna, — vieni qui. Lasciali un po’ in libertà, tanto possiamo essere sicure di loro. Stefano è serio e Annarosa ancora più di lui. Siedi qui, Nina.
La donna sedette, senza rispondere. Col viso proteso, il collo allungato, aveva l’espressione dolente e rigida della vera vedova. Solo le sue lunghe ciglia si sbattevano rapide sotto le palpebre ferme.
La vecchia frugava nella cenere con la canna; ne scavò una piccola brace rosea, la premette come volesse schiacciarla, poi tornò a seppellirla.
— Bisogna lasciarli un po’ in libertà, — ripetè. — Li teniamo sempre qui stretti fra noi, guardati a vista come due nemici che si vogliono sbranare. Secondo me, non è uso buono, questo: arriva che due si sposano senza conoscersi e di lì cominciano le questioni. Stefano dice che in Continente si usa lasciar liberi i fidanzati, i quali vanno soli anche a spasso. Questo non lo approvo, perchè non bisogna fidarsi troppo della natura dell’uomo, ma un po’ di libertà ci vuole.
— È già molto se vanno soli nell’orto, — rispose la nuora; — non per loro, ma per la gente. Tutti i vicini li stanno a spiare.
E accennò ad alzarsi; ma subito si accorse che la suocera la guardava in viso con diffidenza e senza cercare di nascondere questa diffidenza; e sentì il misterioso soffio della verità. Sentì che il triste suo segreto non era più suo. Lasciò cadere le mani aperte, giù, di qua e di là della sedia, come uno a cui è stata strappata per forza una cosa dal pugno, e anche le sue spalle parvero abbassarsi.
Ogni parola della suocera confermava il suo sospetto.
— E lasciali spiare! Chi spia invidia o vuole togliere qualche cosa a chi viene spiando. Questo è, il male nostro, figlia mia: noi vogliamo sempre togliere qualche cosa agli altri. Non ricordiamo che già noi abbiamo avuto la nostra parte e che siamo come le foglie: dobbiamo cadere a tempo, per far posto alle foglie nuove. Dio comanda così, e bisogna osservare la sua legge; tutto a suo tempo; ad ogni stagione il suo frutto.
La donna non rispondeva. Di tanto in tanto però volgeva il viso pallido verso la finestra, come ascoltando, più che le parole della vecchia, la voce di Annarosa che si mischiava allo stridìo delle rondini, al mormorio confuso e dolce della sera primaverile.
E si domandava come il suo triste segreto era in possesso della suocera. Nulla aveva da rimproverarsi, nulla da nascondere: fra lei e Stefano non era mai stata scambiata neppure una parola colpevole. E quello che cera dentro di lei era una cosa che riguardava lei sola, una cosa tutta sua, come il suo cuore, come il suo sangue. Tuttavia non osò protestare.
La suocera continuava:
— Ogni cosa a suo tempo, Nina mia. Ti voglio raccontare anch’io una storia, come Predu e come Stefano. C’era una donna, che io ho conosciuto, ma della quale è inutile fare il nome, una donna che si tingeva i capelli. No, aspetta, ti dirò da principio: Questa donna, dunque, cominciava a invecchiare e non voleva; eppure aveva dei figli grandi. Andò da una fattucchiera, per farsi dare una medicina per non invecchiare. E la fattucchiera, furba come tutte le sue pari, le diede una tintura per i capelli. I capelli della donna tornarono neri; e quando i capelli le tornarono neri, lei dunque si credette ancora giovine e rifece tutte le pazzie della gioventù; ma la gente rideva e mormorava di lei. E l’uomo che lei amò la maltrattò e la derise fino a farle perdere la ragione. Pazza diventò. I dottori le esaminarono la testa, e dissero che la tintura conteneva un veleno. Questo veleno, dunque, sfrega e sfrega, le era penetrato nella cute e l’aveva fatta impazzire. Buono per lei se fosse rimasta nella sua strada. Vedi, anche il sole, che è il sole, s’alza, arriva in mezzo al cielo, cade e tramonta; così deve essere la vita nostra, perchè così ha stabilito Dio.
La nuora taceva. Quest’inerzia irritava la vecchia più che un’aperta ribellione. Quando aveva parlato della tintura aveva veduto la donna portarsi una mano ai capelli come per sentirseli ancora neri; no, la nuora non parlava con la bocca, ma i suoi occhi, il suo viso, le sue mani parlavano.
— È giovane ancora, lei, — pensava la suocera. — Non ha bisogno di tinture, ha bisogno ancora di amore. Ma Stefano non lo puoi prendere, no, Nina mia, perchè è destinato ad Annarosa; lo sapevi che era destinato a lei; perchè lo hai guardato? Adesso bisogna che ti rassegni, per il bene della famiglia. Per il bene della famiglia ti parlo, Nina mia: e tu mi ascolti e mi intendi, appunto perchè non sei come la donna che andò dalla fattucchiera.
— E poi tanti altri esempi, — diceva intanto con la sua voce piana e sorda. — Del resto, prendi la Bibbia e leggi, tu che sai leggere. Mio marito, tuo suocero e zio, tu l’hai conosciuto da bambina, aveva sempre la Bibbia in tasca: diceva che era la pietra sotto cui era fermata la fune che lo legava al pascolo della vita. Senza questa pietra si sarebbe messo a scorrazzare come un puledro indomito; e allora così si finisce nel precipizio. Leggi la Bibbia, Nina mia, e vedrai. Lui sedeva lì, a volte, e me la leggeva ad alta voce. E quando io mi arrabbiavo per cose vane, lui la tirava fuori di saccoccia, e con essa in mano faceva verso di me il segno della croce come per esorcizzarmi; e l’ira cadeva dal mio cuore.
Dopo un momento di silenzio riprese:
— Quando morì, volle il libro con sè, nella fossa. Ma lo spirito del libro è rimasto qui. Mi sono io forse mai lamentata della mia sorte? Eppure non è stata bella; bella, come dicono, cioè tutta piena di allegria. Mio marito morto giovane, io rimasta coi due ragazzi, e uno andato bene, tuo marito, ma portato via presto anche lui dal vento della morte, e l’altro come tu sai. Anche tu sei rimasta presto sola, ma tu sei sana ed hai tre figli come tre fiori. Tutto andrà bene, per te, se tu vorrai. Annarosa nella sua casa come una regina. Agostino con noi, buono e nostro come il nostro pane; e Gavinuccio che sarà la gioia della famiglia. Studierà, andrà lontano Gavinuccio nostro. E adesso va a guardare quei due: chiamali dentro; l’aria si fa scura.
La predica era finita; ma la donna non si mosse. Non sentiva neppure la forza di rispondere; le pareva d’essere come la biscia a cui sono stati tolti i denti; giù, molle, abbandonata, senza dolore e senza forza.
E continuava a domandarsi come il suo segreto era stato violato. D’un tratto, come in uno sfondo nebbioso, tra figure che si muovevano incerte e lugubri, vide quella del cognato, accanto a quella di zio Predu; il viso morto di Juanniccu e gli occhi vaghi parevano affacciarsi da un mondo lontano, torbido; ma guardavano di qua, e osservavano le cose del mondo dei vivi.
Sì, egli era stato là, nei giorni della morte; nessun altro poteva averla osservata. E sentì in fondo al cuore un desiderio di vendetta. Pensò di nuovo che mai era venuta meno ai suoi doveri; non cercava nessuno, non faceva male che a sè stessa, uccidendo giorno per giorno la vita in lei. Perchè le frugavano il cuore?
Che colpa aveva lei se la sua carne era viva ancora? Ebbe voglia di buttarsi per terra, davanti alla suocera, di sciogliersi i capelli, di spogliarsi e urlare: che quei due di là accorressero, e l’uomo la vedesse nel suo martirio, e le tendesse una mano per salvarla.
Un attimo: ed ebbe vergogna e paura di questo suo primo impeto di ribellione pazza. Ma lei non lo aveva voluto. Erano gli altri che la prendevano per i capelli, la denudavano e la frustavano.
— Sì, — disse con voce assonnata, come svegliandosi da un sogno, — ragione avete, tutto va bene di fuori se tutto va bene di dentro. Così vi ascoltassero tutti!
— Chi tutti?
— Volevo dire figlio vostro Juanniccu.
Adesso fu la vecchia a non rispondere. La nuora incalzò:
— Marito vostro è morto giovane, come il mio: sole ci hanno lasciate nel più bel tempo dell’anno, quando c’è la messe da raccogliere, e nessuno ci ha aiutato a vivere. Marito vostro avrebbe fatto bene a lasciare la Bibbia in eredità a figlio vostro Juanniccu. Così egli non sarebbe andato in giro per i focolari altrui.
— Le sappiamo, queste cose! In tutte le case c’è la croce; è necessario, — ribattè la vecchia con asprezza. — Ma se Dio permette che uno cada è per insegnare agli altri di camminare dritti e di badare dove mettere i piedi. Si muore, Nina mia, — concluse con voce meno aspra, — e bisogna presentarsi a Dio con la veste pulita.
— E allora tutto andrà bene lo stesso dal momento che si muore.
La suocera non insistè. Sentiva di aver colpito nel segno, poichè la nuora diventava amara e pungente. Per quel giorno bastava.
D’altronde rientravano i fidanzati e subito ella si accorse che la passeggiata nell’orto aveva loro fatto bene. Erano tutti e due un po’ eccitati, col viso rinfrescato dall’aria della sera, gli occhi brillanti. Stefano aveva fra le dita un ramoscello di salvia e parve volerlo porgere a Nina, poi lo diede a lei, mentre Annarosa riprendeva il suo posto posandole la mano sulla mano e guardandola con tenerezza. E la matrigna si scostava, come respinta da quel fluido d’amore che i giovani avevano portato di fuori.
Stefano faceva il grazioso con la nonna. Dopo averle dato la salvia si rivolgeva a lei sola per raccontarle una storiella.
— Questa mattina il pretore ha discusso una causa per pascolo abusivo, condannando un cavallo, invece del padrone, a pagare la multa. La parte che sembra comica ed è seria è questa: il padrone tentò di provare che il cavallo gli era scappato, introducendosi a sua insaputa nel terreno altrui. Allora il pretore credette bene di condannare il cavallo.
La nonna disse:
— È giusto. Tutto va bene purchè giustizia sia fatta.
La nuora, dal fondo della stanza, guardava quei tre con occhi torbidi: fu per dire qualche cosa anche lei, poi scosse la testa con un moto di sdegno. Quando Stefano se ne andò lo accompagnò fino al portone, cosa che non faceva mai. Non lo guardò neppure, e neppure sapeva il perchè preciso dei suoi movimenti; solo sentiva un impeto di collera gonfiarle il cuore, un desiderio cupo di far dispetto alla suocera.
Questa infatti s’era voltata a guardarla, e fu più tranquilla solo quando la vide rientrare, e Annarosa disse:
— Domenica verrà il padre.
Se veniva il padre era per fissare il tempo delle nozze: bisognava quindi pensare al corredo e la nonna disse che era necessario vendere l’olio, per procurarsi denari, sebbene Agostino volesse aspettare che i prezzi dell’olio aumentassero.
Cominciarono a fare dei calcoli, come faceva lui. La matrigna osservò, con voce amara e beffarda, che in casa di Stefano le casse e gli armadi erano pieni di biancheria e Annarosa poteva andar là con le sue sole camicie.
— Miserabili a questo punto non siamo, — rispose la nonna; poi per punirla in qualche modo le ordinò di mandare a richiamare il figlio e la serva dalla strada.
Allora Nina si alzò, alta, quasi minacciosa, incalzata da un senso d’ira che non sapeva più dominare.
— Mikedda non è nella strada, — disse con la sua voce amara — è nella casa del vicino a divertirsi un poco con lui.
— Tanto meglio! E tu, da buona padrona, dovresti un po’ sorvegliarla.
— S’ella non dà ascolto a voi, come può dare ascolto a me?
— E tu dovevi riferirmelo prima.
— Se tutto vi si dovesse riferire ben meraviglia ne avreste e poco riparo potreste metterci.
Annarosa guardava la matrigna: mai l’aveva veduta così irritata; s’accorse che anche lei la guardava con occhi di sdegno e arrossì.
— Vado io, a chiamare Mikedda, — disse, come tentando di conciliare le due donne, ma la nonna la fermava con la sua mano e già la matrigna andava in cerca della serva, spinta anche da una rabbia gelosa che le faceva parere ingiusto che gli altri, anche i più miseri, vivessero e amassero, mentre lei sola era condannata alla rinunzia di tutto.
Trovò infatti Mikedda nel cortiletto del vedovo. Questi sedeva su una pietra, davanti alla porticina della casupola, accanto ai suoi grossi buoi neri che ruminavano l’erba togliendola da un cesto che serviva da mangiatoia; la serva s’era alzata all’apparire della padrona, e s’appoggiava al muro, ma aveva il viso rosso e gli occhi smarriti; e l’odore stesso del cortiletto, odore di erba, di stalla, di bestie calde, e l’aria dolce, complice, e la stella rosea ferma in alto sul cielo ancora azzurro, tutto raccontava d’amore.
— Mikedda, — disse con voce rauca la padrona, — va subito a cercare Gavino e poi torna a casa dove aggiusteremo i conti.
La ragazza le passò davanti rapida come un cane che ha paura d’essere bastonato.
— Taneddu, — l’altra riprese, quando fu sola col contadino, — noi ti abbiamo sempre considerato come uno di famiglia; e tua moglie è, si può dire, ancora calda sotto la terra. Quello che fai non è da onest’uomo.
Il contadino se ne stava tranquillamente seduto accanto ai suoi buoi come sotto un monumento; si palpava le dita della mano destra con quelle della sinistra e pensava che, dopo tutto, era in casa sua.
— È la ragazza, che viene qui a trovarmi.
— E tu mandala via: la coscienza ce l’hai.
Allora egli si alzò, come se avessero bussato alla sua porta.
— Penso giusto che posso sposare la ragazza. Sono solo e ho bisogno d’una donna in casa. Sa fare, vero? È tanto piccola, ma crescerà.
— Ebbene, — disse la donna sempre più irritata, — allora vieni a parlare con mia suocera.
E se ne tornò a casa, con l’impressione che tutti quelli che volevano amare, che volevano sposarsi, dovessero chiederne il permesso alla suocera.
Rientrando vide Agostino che era tornato dal podere e sedeva al solito posto, col pugno sulla tavola. Tutti erano al loro posto, tutto andava bene, intorno alla nonna, come i raggi della ruota intorno al pernio; si parlava del podere, dell’olio da vendere, di Stefano, di zio Predu che sarebbe venuto a fissare il giorno delle nozze.
In piedi, presso la tavola, la matrigna guardava Agostino: sentiva anche lei qualche cosa di vegetale, in quell’uomo rigido e fresco: sulle vesti di lui si notavano qua e là delle macchie verdi, come su un tronco d’albero. Le sue unghie erano piene di terra e tra i capelli pareva spuntassero dei fili d’erba. Ecco uno che poteva vivere senz’amore, che andava e veniva dalla valle portando negli occhi l’innocenza selvaggia della natura. Accanto a lui la donna inquieta sentì come il refrigerio del viandante stanco all’ombra di un albero: si calmò, disse sorridendo:
— E dunque avremo anche un altro sposalizio in famiglia.
Mikedda arrossì e chiuse gli occhi, con la speranza che il padroncino Agostino le dicesse almeno qualche parola insolente. Ma egli pareva non avesse neppure sentito le parole della matrigna, intento a scrivere dei numeri sul suo taccuino sporco, preoccupato al pensiero di dover vendere l’olio prima che i prezzi aumentassero.
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Ma quando tutto intorno fu vuoto e silenzio, Nina sedette al posto di Agostino, col pugno sulla tavola come lui, e parve a sua volta fare dei calcoli.
Aspettava il ritorno del cognato e si domandava come conveniva trattarlo.
Nel silenzio e nella solitudine la sua pena si rincrudiva. Tutti intorno a lei riposavano: Agostino dormiva nel suo lettuccio da soldato, con giù sul pavimento nudo le scarpe che puzzavano di sudore: Gavino nel suo lettino bianco, con un’arancia sotto il guanciale, sognando le martore e gli agnellini di zio Predu: Mikedda, nel suo, sognando i buoi neri e il campo di grano del suo vedovo: e anche Annarosa dormiva il sonno della giovinezza e della primavera, quel sonno che, se anche nel cuore c’è un dolore nascosto, avvolge il corpo con un velo morbido di voluttà, e durante il quale le quattro dita lunghe della mano raccolgono e stringono il pollice come nei sogni della primissima infanzia.
Solo lei vegliava senza riposo. Attraverso la porta socchiusa sentiva l’odore della notte primaverile e un grido lontano di assiuolo. Ma non si commoveva: non voleva commuoversi; solo, di tanto in tanto, un’ondata di sangue le balzava sino alla radice dei capelli, e le dava il desiderio folle di uscire nella strada, di andarsene per il mondo, nella notte tiepida, in cerca di libertà.
Poi tornava pallida e fredda e tendeva l’orecchio aspettando di sentire i passi del cognato.
Ma ancora non sapeva precisamente che cosa dirgli, e aveva paura d’approfondire il suo male col solo parlarne. Era uno di quei mali di cui non si pronunzia mai chiaro il nome.
E come il cognato tardava, ella si piegò un poco, chiuse gli occhi e le parve di scendere in un luogo oscuro, molle e misterioso, come nei sogni. Ma non dormiva.
Ricordi e immagini le passavano confusamente nel pensiero. Le pareva d’essere ancora ragazza, nei primi giorni ch’era venuta a stare presso i parenti in qualità di bambinaia non pagata. Durante la giornata stava coi bambini nell’orto, o li conduceva in chiesa e si divertiva con loro: ma alla sera le toccava di aspettare il padrone, perchè la vecchia non concedeva mai a nessuno la chiave di casa; e quest’attesa la stancava e la umiliava. Seduta a quel medesimo posto, s’addormentava del sonno facile della fanciullezza, ma con l’orecchio teso anche nel sonno ad ascoltare i passi nella strada. A volte si svegliava di soprassalto, sembrandole che avessero picchiato, e usciva al portone e vi si fermava ascoltando i canti lontani o l’assiuolo nelle notti di primavera. La strada era deserta: lei sapeva che la vecchia non voleva si tenesse la casa aperta, di notte; eppure si compiaceva a disobbedirle. E s’azzardava a camminare, lungo il muro, fino alla casa del fabbro; poi tornava indietro col batticuore per la paura che, in quell’attimo, un malfattore fosse entrato in casa. O si fermava sul portone aspettando che qualcuno passasse, nella strada illuminata dalla luna, e pensasse poi a lei, così sola e orfana, e la sposasse. Quante volte aveva atteso così, con un’ansia superstiziosa! Il primo che passa è lui. E il primo che passava era un vecchio contadino o Un mandriano o un ubriaco tentennante.
Prima di condurre i bambini fuori, in chiesa o a visitare qualche parente, la vecchia le faceva la solita predica. Non si fermasse per la strada, non guardasse gli uomini, non chiacchierasse troppo coi parenti. Ella usciva, tutta felice solo di poter camminare e vedere qualcuno, col buon proposito di ubbidire alla sua benefattrice; ma d’un tratto il demonio l’assaliva e così, solo per il gusto di disobbedire come facevano i bambini con lei, guardava fisso il primo uomo che incontrava: e gli occhi di quello rispondevano subito ai suoi. Allora aveva vergogna di sè, dei bambini che teneva per mano, e abbassava gli occhi, contenta solo di aver disobbedito.
Poi la vecchia le aveva fatto sposare il figlio. Era diventata padrona anche lei, non lasciava più la casa aperta, non sollevava più gli occhi nell’incontrare gli uomini. Ma rimasta vedova, dopo molti anni di clausura, qualche notte, nelle tiepide notti d’estate, si fermava sul portone, prima di chiuderlo, e le sembrava di essere ancora ragazza ad aspettare che passasse un uomo degno d’essere guardato. Non il primo nè il secondo, ma quello che poteva essere degno. E qualcuno passava, e la guardava anche senza essere guardato, ma andava oltre e non si volgeva nemmeno. Non si sposa facilmente una vedova povera con un figlio da mantenere.
Poi la vecchia l’aveva mandata ad assistere la parente malata....
Il passo di Juanniccu, il suo lieve tocco al portone la riscossero. Rapida balzò, chiuse l’uscio di comunicazione fra la stanza e la cucina, depose il lume sulla tavola.
Nel vedere che apriva lei, Juanniccu ebbe come un moto di spavento: stette, pesante e tremulo, sulla soglia, aspettando ch’ella si ritraesse, poi entrò, a testa bassa, lasciando a lei la cura di chiudere.
E lei chiudeva, con un lieve tremito nelle dita. Ancora non sapeva come cominciare il discorso, se fermare il cognato nella cucina o seguirlo nella sua camera, perchè gli altri non sentissero. Aveva paura che egli alzasse la voce. Meglio forse era lasciarlo andare, aspettare un momento più opportuno, tanto più che egli sembrava ubriaco, almeno a giudicarne dall’odore di vino che esalava.
Un senso di ripugnanza la prese. No, era meglio tacere; e s’indugiava a chiudere per lasciarlo andar su; ma d’un tratto sentì di nuovo che era la paura, non la repugnanza, a farla esitare. Allora, stringendosi le mani l’una con l’altra per fermarne il tremito, si affrettò per raggiungere il cognato nella cucina: e s’accorse ch’egli l’aspettava.
Stava fermo accanto all’uscio del corridoio: la lucerna lo illuminava di faccia proiettando la sua ombra sulla parete; il suo viso era pallido, con le palpebre abbassate: pareva si fosse addormentato in piedi, con la testa un po’ dondolante sul collo.
Ella si avvicinò, più alta di lui, investendolo con la sua ombra: non sapeva ancora come cominciare, ma non aveva più paura; si sentiva capace di schiacciarlo contro il muro se egli alzava la voce.
Ma egli aprì gli occhi e la guardò; e fu lei a sentirsi come buttata per terra da quello sguardo di infinito compatimento.
— Tu mi aspettavi, — egli disse; poi abbassò la voce: — che cosa c’è stato?
E pareva le offrisse il suo aiuto.
Allora la donna si turbò maggiormente; ma parlò senza sdegno, con una sorda tristezza.
— Che cosa hai detto tu di me a tua madre?
Egli rispose con prontezza insolita, quasi con vivacità.
— La verità, ho detto!
— No, non è la verità, Juanniccu! Tu mi hai accusato di un peccato che io non ho commesso.
— Io non ti ho accusato di peccato. Cos’è il peccato? E che colpa hai tu se le cose del mondo vanno così? Vanno così perchè devono andare così. A volte vogliamo metterci riparo, ma è come mettere la mano contro un fiume che straripa. E bisogna lasciarlo straripare. Così a te è piaciuto quell’uomo perchè eri donna, e ti sei trovata sola con lui, in momenti nei quali ti pareva ancora lecito di guardarlo; perchè ti pareva fosse un uomo libero e tu una donna libera. Invece non siamo mai liberi. E non lo siamo perchè non vogliamo esserlo. Se tu volevi esserlo, potevi prenderti quell’uomo; e Annarosa si prendeva il suo ragazzo e così stavate contente tutt’e due, almeno per un po’ di tempo. Ma è che qui in questa casa, poi, si è tutti come ragazzi: si cerca tutti di disobbedire ma non si può. Non si può, non si può, — ripetè più volte, dondolando la testa.
La donna l’ascoltava stupita; lo sdegno le svaniva dal cuore; sentiva bene di parlare con un ubriaco, eppure aveva desiderio di dirgli «hai ragione».
— Juanniccu, — ricominciò, — è questo che tu hai detto a tua madre? Tu sragioni; ma lei ti ha creduto, ed io.... ed io....
— Tu ti sei offesa; ma fai male: non c’è da offendersi, della verità. Mi offendo io, quando mi dite che sono pazzo? Sono pazzo perchè sono pazzo. E so adesso tutto quello che mi vuoi dire. Lo so, sì: tu mi hai aspettato per dirmi che farei meglio a pensare ai fatti miei e a non immischiarmi nei tuoi. Ti leggo nella faccia quello che vuoi dirmi; vuoi gridarmi che sei una donna onesta e che vuoi essere rispettata: e ti dò ragione. Ti rispetto, Caterina, cognata: nessuno ti rispetta più di me. Sei stata sempre la nostra serva, sempre paziente e silenziosa; non hai goduto la tua parte di vita, e noi abbiamo sfruttato la tua giovinezza come si sfrutta una pianta di susine. Ma cosa posso farti io, adesso? Dimmelo, tu, che posso farti?
Non sei stata buona tu, a prenderti quell’uomo: hai abbassato gli occhi, dopo averli alzati; hai lasciato che la madre desse le chiavi ad Annarosa, che non le voleva. Peggio per te. Anche lui è come un bambino: ha obbedito ai genitori. Che posso farci, io?
Ella lo ascoltava, torcendosi le mani. Era inutile parlare, con lui. Si pentiva di essersi abbassata a tanto: eppure lo ascoltava con la strana impressione di sentir dire davvero da lui le cose ch’ella stessa avrebbe detto.
— Ma io.... ma io.... — riprese, e tosto si lasciò di nuovo interrompere.
— Ma tu, ma tu? Che vuoi fare anche tu? Se non lo sai tu, quello da fare, come posso saperlo io? Tu farai il tuo dovere; questo mi vuoi dire. Ma qual è il tuo dovere? Startene lì nell’angolo ad occhi bassi rodendoti l’anima o guardare ancora quell’uomo e prendertelo, se fai ancora in tempo? Questo lo vedi tu, non devo dirtelo io.
— Juanniccu! — ella disse con voce stridente; e sollevò le mani come volesse graffiarlo; gli occhi le brillarono quasi feroci; poi d’un tratto abbassò e sbatto le palpebre, e le sue dita si rallentarono, le mani si abbandonarono sulle braccia di lui. E gli afferrò le maniche, come aveva fatto una notte la madre, quasi aggrappandosi a lui in cerca di aiuto.
Fu un momento grave. Juanniccu la vide abbassarsi, divenire più piccola, più debole di lui; sentiva sulle braccia le mani ardenti di lei; e quella pulsazione di vita, di dolore senza nome e senza fine, parve iniettarsi nelle sue vene morte e arrivargli fino al cuore.
— Donna, — disse con una voce ch’ella non gli conosceva ancora; poi tacque, perchè anche lui non trovava più le parole; poi d’improvviso la donna trasalì, si sollevò e si volse sembrandole di aver sentito come un lieve nitrito alle sue spalle.
Era l’uomo ubriaco che piangeva per lei.