L'incendio nell'oliveto/Capitolo IV
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IV.
La prima a sentire lo spiro di zia Paschedda Mura fu la nonna; sette rintocchi lenti, gravi e profondi come colpi di martello, suonati dopo lo squillo lieve fresco della prima messa. E a lei, che già da tempo era sveglia e si sentiva stanca di tutte le notti insonni e di tutto il peso della sua vita, parve che con quei sette colpi il tempo inchiodasse una porta dietro la donna che se ne andava. Ma subito salutò la partente.
— Va in buon’ora, Paschedda; adesso sarà la mia volta, appena figlio tuo si sarà deciso a domandare Annarosa.
E provò un senso di gioia, come se Annarosa fosse lei e la sua vita dovesse ricominciare; poi si inquietò un poco pensando al disordine che in quel momento doveva regnare in casa dei Mura. Vedeva Nina sua lavare e comporre il cadavere: e gli occhi di Paschedda Mura si ostinavano a riaprirsi, come per fissare ancora le casse e gli armadi della sua camera. Certo, doveva esserle dispiaciuto molto lasciare così la sua roba, senza altre donne in casa. Gli uomini son buoni a custodire la roba di fuori, non quella di dentro. Le sembrava di vedere zio Predu seduto smarrito accanto al fuoco spento, con le mani abbandonate con desolazione sulle ginocchia, e Stefano che andava e veniva e spiava ancora un segno di vita sul viso della madre, ostinandosi a non crederla morta.
Ma ecco Mikedda, che stava già nel cortile a spezzare legna con la scure, precipitarsi nella camera.
— Padrona mia, sentito avete? Zia Paschedda se n’è andata.
— Andata!
— E il padroncino Agostino che è già partito! Adesso sarà a metà strada verso l’oliveto. E anche zio Taneddu è già andato laggiù. Come si fa, adesso?
— Lascia, — disse con pazienza la vecchia padrona. — Quando tornerà, Agostineddu saprà la notizia e farà a tempo ad andare ai funerali. Tu, intanto, chiama la tua padroncina e prepara il caffè da portare in casa della morta.
Mikedda ritornò nel cortile a prendere le legna. Giorno di morte, davvero, tutto di un grigio basso cattivo, con un forte vento di levante che portava dalla valle un mugghio sinistro come di mare burrascoso. Gli spruzzi di pioggia che di tanto in tanto si sbattevano sul lastrico fangoso parevano d’inchiostro; è nero anche il velo di lacrime che il dolore e il freddo stendono sugli occhi di Mikedda. Sa anche lei che una nuova vita ricomincia per tutti; che bisogna filar dritti, adesso, ciascuno nel solco scavatogli dalla sorte; i padroni coi padroni, i servi coi servi. Rivede il padroncino Agostino rigido sul suo cavallo, mentre lei gli apre il portone e lo guarda timida e trepida dal basso nella speranza che egli le lasci cadere uno sguardo luminoso come un raggio di sole. Altre volte egli la salutava, almeno, come si salutano anche i viandanti sconosciuti; da qualche tempo, dopo il progetto di matrimonio fra Annarosa e Stefano, egli non si accorge di lei che per dirle parole aspre, umilianti.
— Ma anch’io me ne andrò; me ne voglio andare, — disse al ramo che teneva dritto davanti a sè, battendolo rabbiosamente con la scure; — i padroni coi padroni, i servi coi servi. Me ne andrò, me ne andrò!
Il ramo si lasciava battere, sulla sua ferita gialla, mentre ella brontolava a mezza voce come la vecchia padrona:
— Voglio anch’io maritarmi; in coscienza, se lo voglio, un uomo non lo trovo? Vorrei trovarlo ricco, però, per far dispetto a qualcuno. Se guardassi zio Predu? Bello! Quello mi mette dentro la sua pipa!
Arrossì e si mise a ridere, bevendosi le sue lagrime; sollevò il ramo scricchiolante e lo finì di spezzare sul suo ginocchio; poi rientrò e mise la caffettiera sul fuoco, indugiandosi a pensare chi poteva scegliere per marito. Ma le venivano in mente gli uomini più ridicoli del mondo. D’un tratto si mise a ridere così forte che dovette chiudersi la bocca con la mano perchè la padrona non sentisse.
Pensava al padrone Juanniccu.
La vecchia la sollecitava.
— Ma va a chiamare Annarosa. Non capisco perchè tu non debba mai obbedire. Sai che bisogna anche preparare la colazione da portare là. E questo caffè, che sia forte e abbondante; versalo nella caffettiera di rame, perchè caffettiere d’argento noi non ne abbiamo come ne hanno loro. E tu, anima mia; cammina per la via giusta; vedi come ce ne andiamo sul più bello, e tutto lasciamo nel mondo. E sta attenta a non chiacchierare, in casa della morta; tieni un contegno rispettoso, perchè quella gente osserva tutto e se vede che sono insolenti i servi pensa che lo sono anche i padroni. E adesso va a chiamare Annarosa. E senti ancora una cosa, prima che scenda lei: se Juanniccu è in casa dei Mura, come mi dicono ci sia spesso, avvicinati a lui con prudenza, e da parte mia gli dici, sta attenta, gli dici che stia in contegno, almeno oggi.
★
Rientrando dall’aver portato il caffè in casa della morta e fatto la spesa per la colazione funebre, Mikedda raccontò che il padrone Juanniccu stava appunto dai Mura seduto in cucina accanto a zio Predu.
— Zio Predu Mura sta lì, davanti al focolare spento; sta lì, con le mani sul bastone; non piange, ma guarda per terra. E già vestito di nero, coi vestiti prestati da zio Farranca. Gli sono stretti, però, sebbene zio Farranca sia grosso come un tronco. Il dottor Stefano, invece, sta nella camera in un angolo buio, e non gli si vedono che gli occhi gonfi come due fichi acerbi. La signora Nina, la padrona mia, è quella che fa tutto; va di qua e di là, leggera come una farfalla, e rimette tutto in ordine, lei. Ci sono le parenti della morta, sedute per terra, in cucina, e mi pare che guardino con gelosia la mia padrona. Specialmente le due vecchie cugine di zia Paschedda, le due sorelle Carta, non fanno altro che osservare, pure asciugandosi le lagrime. Un momentino che il dottor Stefano si è alzato dal suo angolo, una delle sorelle Carta si è alzata anche lei e lo ha ricondotto al suo posto come un ragazzino in castigo. Lo so io il perchè. Perchè nella camera c’è la cassa, e nella cassa i denari della morta. Dicevano, nella strada, che lei forse ha accumulato, dentro la cassa, trentamila lire o forse scudi. Lì dentro si possono attingere denari come acqua dal pozzo. Mi ci vorrei io, a frugare: mi farei subito due palazzi, tutti per me. Bella cosa, il denaro, cuor mio. Forse troverei anche un marito di buona famiglia. Ma se fossi ricca, no, non mi sposerei. Rifiuterei anche i giovani di buona famiglia!
Intanto s’era inginocchiata davanti alla vecchia padrona per farle vedere la carne e la pasta per la colazione funebre.
La carne era bella, rossa e bianca di grasso, fresca come appena tagliata dal vitello vivo; ma i maccheroni furono dalla padrona respinti con tale sdegno che caddero sul focolare.
— Quando c’è farina in casa e donne con braccia sane, non si deve comperare nè il pane, né la pasta nelle botteghe. Alzati, poltrona.
Pazientemente Mikedda raccolse i maccheroni frantumati, e Annarosa andò a prendere la farina per rifarli in casa; ed entrambe la impastarono e cominciarono a gramolare la pasta con tutte le loro forze, sulla tavola di cucina, parlando basso per non farsi sentire dalla nonna.
La pioggia sferzava il vetro dello sportello, tutto appariva bituminoso, di fuori, come in un quadro annerito dal tempo: e anche dentro, tranne negli angoli rischiarati dal fuoco, tutto era bigio senza vita.
La serva raccontava ancora della sua visita in casa della morta, rifacendo i gesti e la voce delle vecchie parenti. Annarosa sorrideva suo malgrado, riscaldata dalla fatica e sollevata, in fondo, dal pensiero che tutto era finito. D’un tratto però si rifece pensierosa.
— Mikedda, ho avuto come un sogno, ieri notte, nel chiudere la finestra; m’è parso di veder passare Gioele.
— Può darsi: com’è mezzo matto, quello lì, se sa che lei si sposa, farà pazzie. Ma è meglio che non le faccia. Perchè lei ormai è come sposata. Anzi, bisogna che lei sia prudente, adesso, perchè le parenti della morta sorveglieranno ogni suo gesto. E bisogna farli bene, dunque, questi maccheroni, e condirli bene; se no le parenti diranno che lei è una cattiva massaia.
— Taci, taci; mi soffochi.
Mikedda osservò che bisognava comprare anche la frutta perchè in casa non c’erano che mandorle e fichi secchi; e andò da un Milese che aveva delle arancie e le pagò come fossero d’oro. Non bisogna guardare alla spesa in certe occasioni. Al ritorno, nel passare davanti alla porta di zio Taneddu le parve di sentire il lamento della malata ed entrò per vedere.
Nel cortiletto che precedeva la casupola, recinto di alti muri, la pioggia aveva formato uno stagno sul quale galleggiavano stoppie e immondezze: l’acqua penetrava anche nella piccola cucina desolata. Mikedda pensò alla sua padrona Nina, che rimetteva in ordine la casa dei Mura, e volle imitarla: — i padroni coi padroni, i servi coi servi: — cacciò via l’acqua con la scopa, mise gli sgabelli lungo la parete; poi salì una scaletta di legno che c’era in fondo alla cucina, e per una botola aperta penetrò nella camera nuziale dei contadini.
La malata, stesa sull’alto letto di legno che quasi sfiorava il basso soffitto di canne, rantolava lievemente, ma con un rantolo stanco, rassegnato. E una rassegnazione triste era in tutto il suo aspetto maschio, nel viso scarno, legnoso, nelle grandi mani nere abbandonate una di qua una di là sul lenzuolo grigio.
Nel vedere Mikedda che si protendeva sul letto e le offriva un’arancia, spalancò gli occhi, duri, come di pietra verdognola.
— Acqua, — mormorò.
E Mikedda, sebbene sapesse che era proibito di darle da bere, versò in una scodella l’acqua della brocca, presto presto, perchè si sentiva un passo che saliva su per la scaletta. Entrò subito dopo infatti una vicina di casa che di tanto in tanto dava un’occhiata alla malata.
— Malanno alle tue viscere! tu la vuoi uccidere! — gridò togliendo di mano a Mikedda la scodella già vuota; poi la spinse per le spalle e la cacciò giù per la botola. E la ragazza andò giù stordita, pensando che tutti, facesse bene o male, tutti la maltrattavano. Le venne da piangere. Stette un momento presso il focolare, movendo coi piede i tizzoni spenti; e le pareva che anche di lì fosse già passata la morte. Adesso zio Taneddu rientrerà, coi buoi bagnati, col cappotto bagnato, e non troverà neppure fuoco da asciugarsi. E la povera malata, adesso che ha bevuto l’acqua, morrà. Lui riprenderà certo moglie: un massaio non può stare così solo come una fiera nel bosco.
— E se lo sposassi io? I padroni coi padroni, i servi coi servi....
Sollevò il viso verso la botola, e ricominciò a ridere. Le pareva di beffarsi di zio Taneddu, che era già anziano, per lei, piccolo, con la barbetta rada, rossiccia, a punta come quella del diavolo; ma in fondo pensava che era il contadino che seminava più grano, di tutti i contadini del vicinato; e non beveva, non parlava molto, ed era l’unico che non bastonava la moglie. Eppoi si stava vicini alla casa dei padroni.
Piano piano, per non farsi sentire, rimise qualche altro oggetto in ordine: c’era di tutto, nella piccola cucina; pentole, taglieri, caffettiere; dentro il forno stava ancora ad essiccare un mucchio d’orzo per il pane che la povera malata non era riuscita in tempo a fare. Speriamo si alzi presto, la povera malata, se no, faccia il Signore la sua volontà. Attraversando in punta di piedi la pozzanghera del cortile Mikedda se ne andò; non rideva più, era pensierosa e distratta; urtò contro una donna che passava per la strada riparandosi dalla pioggia con un canestro, e non badò ai rimproveri della vecchia padrona.
— Proprio oggi te ne vai in ronda, cattiva cristiana, proprio oggi che si ha bisogno di te. Ma guardati almeno intorno, vedi almeno come lavora Annarosa.
Annarosa finiva di preparare la colazione funebre. Andò lei stessa nella dispensa, a scegliere un bel cestino entro il quale mettere i piatti con le vivande. Scelse un bel cestino di asfodelo, dorato, ornato di nastrini, che serviva per mandare presenti di nozze; lo tirò giù dalla parete ove era appeso, vi soffiò su per levarci la polvere; e con la polvere mandò via anche un piccolo ragno col suo filo; poi guardandolo contro la luce vide un granello di frumento rimastovi dell’ultimo regalo mandato ad una sposa; questo ve lo lasciò.
— Il granellino, dentro, porterà fortuna ai vivi, — disse Mikedda caricandosi il cestino sul capo; e appena fuori dal portone trasalì sembrandole che il granellino prima d’ogni altro portasse fortuna a lei. Vedeva infatti zio Taneddu arrivare col suo carro carico di olive, seguìto a poca distanza dal padroncino Agostino.
Allora si strinse contro il muro, tenendosi con ambe le mani il cestino fermo sul capo, e quando il contadino le passò davanti spingendo i suoi grossi buoi neri, gli sorrìse.
— Zio Taneddu mio! Sono stata da moglie vostra e le ho dato da bere. La vicina non voleva, ma vostra moglie aveva sete. Zio Taneddu mio!
Il contadino la guardò appena, coi piccoli occhi volpini, senza capire l’improvvisa tenerezza di lei, ed ella non insistè, perchè sopraggiungeva il padroncino Agostino.
Rigido sul suo cavallo baio, che aveva una faccia biancastra quasi umana e gli occhi pensierosi sotto i ciuffi della criniera bagnata, il padroncino Agostino volgeva qua e là lentamente i grandi occhi scuri e umidi che rassomigliavano a quelli del cavallo. Il viso bruno scarno, annerito dalla barba nascente, pareva, nel cerchio del cappuccio nero, quello di un pastore; ma di sotto le falde del lungo cappotto apparivano i calzoni scuri e le scarpe elastiche del proprietario borghese.
Si fermò un attimo davanti a Mikedda guardando il cestino, e aggrottò le sopracciglia perch’ella gli annunziava con voce troppo alta:
— Zia Paschedda Mura è morta!
— E tu t’indugi così nella strada? Va avanti, tarantola! — le gridò, agitando la ronda che gli serviva da frustino.
A lei parve di sentire il colpo sugli occhi: li chiuse e andò avanti, pensando che, certo, non bisognava gridare così nella strada una notizia che era quasi un segreto di famiglia per loro tutti che ne sapevano il significato.
Il contadino intanto, pur con la sua ansia nel cuore, dopo aver dato uno sguardo alla sua porta, spingeva dentro il cortile i buoi con la sua abilità di punzecchiarli senza che il pungolo li facesse soffrire.
Le ruote sobbalzarono sulla pietra della soglia, il carro fu dentro, coi sacchi delle olive intatti. Agostino entrò appresso; smontò agilmente, dritto ed alto dentro il suo cappotto, e diede un grido speciale per fare scostare il cavallo.
E tosto nella casa silenziosa passò un fremito di vita, Annarosa si affrettò a tirar su il paletto per spalancare la porta, curvandosi e mandando indietro sul fianco la frangia dello scialle; persino le galline starnazzavano, deste dal sopore del freddo, e il sole fra le nubi spaccate mandava un improvviso splendore fin dentro il pozzo melanconico. La nonna si volgeva a guardare, e fu quasi con gioia che disse al nipote, mentr’egli si toglieva il cappotto e lo attaccava al chiodo presso il camino:
— Paschedda Mura è morta!
Agostino era però un ragazzo serio: non si rallegrava, no, neppure nascostamente, della notizia; la morte è una cosa che bisogna rispettare.
Anzitutto si informò gravemente se la colazione mandata in casa di zio Predu Mura era buona e abbondante, e se c’era anche il vino.
— Tutto, tutto, Agostineddu mio!
La nonna lo guardava con tenerezza e ammirazione. Era Tunica persona del mondo, Agostineddu suo, davanti alla quale ella si toglieva la sua maschera di severità e di forza. Si trasformava, diventava bella, quasi civettuola. Il passo del cavallo, ch’ella sentiva di lontano, il rumore che Agostino faceva nello smontare di sella battendo la scarpa sul selciato del cortile, il suo grido per scostare il cavallo e infine il suo entrare in casa, le davano ogni volta un’emozione profonda; le ricordavano quando il suo giovane marito tornava così dal podere, nei primi anni di matrimonio, e lei lo aspettava con ansia d’amore. E la figura stessa di Agostino era, nella sua mente, associata agli olivi e ai noci in fondo alla valle, piantati da suo marito; le sembrava persino di sentire l’odore umido delle foglie nelle vesti di lui; forse perchè ogni volta egli frugava nelle sue tasche, traendone un pugno di olive secche, grosse e morbide come prugne, o di altre frutta, e gliele lasciava cadere in grembo; e pareva che i frutti cadessero dalle sue mani come dall’albero.
Anche questa volta le aveva portato le olive secche. Ella le palpava, sul suo grembo, invitando Agostino a sedere un po’ accanto a lei per parlare del grande avvenimento. Ma egli sembrava perplesso: restava in piedi davanti al camino, pensieroso, facendo dei calcoli con le dita. Finalmente parve aver risolto un problema.
— Nonna, per oggi dunque non è possibile mandare le olive al frantoio; voglio esserci io, quando si macina, perchè non mi fido di nessuno. Non che dubiti dell’onestà di nessuno, ma quando non c’è il padrone le cose non si fanno bene. E oggi dunque, bisogna andare ai funerali.
— Sì, sì, fa tu, Agostineddu mio; tutto quello che tu fai è ben fatto.
Egli si volse per guardare Annarosa che s’affaccendava in cucina. Parve volesse chiamarla, poi scosse più volte la testa, facendo a sè stesso dei cenni di sì e di no; infine sedette battendo piano la mano sulla mano della nonna, e come continuasse un discorso appena interrotto disse con voce quieta:
— Purchè a zio Predu non saltino strambe idee in mente. È forte ancora, l’uomo: e non si sa mai quello che un uomo pensa dopo la morte della moglie. Può darsi che voglia restare vedovo, ma può anche darsi di no. Io, ve lo dico francamente, ho fatto già bene i calcoli: il patrimonio è grosso, ma le rendite nei tempi che corriamo non sono mai adeguate al capitale. E Stefano, dalla sua professione, non guadagna niente: ragazzo buono è, Stefano, ma indolente. Se il padre non gli lascia intatto il patrimonio, lui poi per sè stesso non è un partito straordinario. E Annarosa nostra....
Tornò a guardarla, con lo stesso sguardo di tenera ammirazione che la nonna rivolgeva a lui: eccola laggiù, fra la luce del cortile e la penombra della cucina, che s’affaccenda a dar da bere al contadino e a indicargli dove scaricare il sacco delle olive dovute alla chiesa di Santa Croce per un canone gravante sull’oliveto. Umile, bella, laboriosa, ella era, per Agostino, la donna perfetta: quella che deve sposarsi presto e con un uomo per bene e ricco, e far dei figli e reggere per tutta la sua vita una casa ove non manchi niente: la donna forte della Bibbia.
Che Stefano Mura la domandasse per moglie non era, dunque, che una cosa naturale.
— E dove la trova un’altra ragazza così? — disse piano, rivolgendosi di nuovo alla nonna. — Ebbene, ditemi una cosa: è necessario che due che si sposano debbano essere tutti e due ricchi? Quando la donna è come Annarosa nostra, la roba si moltiplica ed è come se anche lei sia ricca. E così è, anche se una donna ricca sposa un uomo povero che sa badare alla sua roba.
— Come te, — disse la donna, che anche per lui sognava un buon matrimonio. Ma Agostino fece un gesto con la mano, indicando una cosa lontana.
— Oh, per me son già sposato! Ho la famiglia, io! Eppoi, vi dico francamente che una donna ricca, se non fosse del nostro grado, non la sposerei. Per adesso non abbiamo bisogno di donne, in casa: pensiamo piuttosto a collocarne qualcuna. E dunque bisogna andare a questi funerali.
— Dimmi una cosa, Agostineddu mio: non ti pare conveniente che sorella tua venga anche lei, a far riga con le parenti della morta, al momento del funerale?
— Ma che! — egli disse con orgoglio. — Non diamo poi loro troppa importanza. Eppoi, anche a mandarla, non ci andrebbe.
E d’un tratto fece un cenno di saluto alla sorella, quasi la vedesse solo allora.
— A che pensi, Annarò?
Annarosa era entrata nella stanza e apparecchiava la tavola; nonostante la sua tristezza, il viso e il modo di parlare del fratello la fecero ridere.
— E tu a che pensi, Agostì?
Ma Agostino non glielo disse: anzi cambiò discorso, parlando con la nonna dei tre vecchi olivi davanti alla casetta del podere, il cui frutto era dovuto alla chiesa di Santa Croce. Da secoli i proprietari dell’oliveto osservavano il canone, ripiantando gli olivi quando minacciavano di seccarsi. I ladri d’olive potevano spogliare tutti gli olivi della valle, ma rispettavano quelli.
— Eppure questa mattina anche là sotto ho trovato l’orma di zio Saba. Finora io l’ho rispettato perchè vecchio, perchè è stato alla guerra e perchè mio vicino. Ma adesso bisogna che mi decida a rompergli la gamba sana col bastone che sostituisce l’altra.
Lo disse serio, senza vanteria, come un uomo che è convinto di poter fare quello che minaccia.
Poi mangiò in fretta e uscì; e passarono delle ore prima che nessuno si facesse più vivo. Tutti erano andati ai funerali: solo Annarosa faceva compagnia alla nonna, nella stanza silenziosa. Si sentivano le campane battere i rintocchi funebri e pareva che tutto il mondo fosse morto, di là del cortile.
Il tempo s’era rimesso: ma che tristezza in quel cielo freddo pallido come un viso dopo che ha cessato di piangere!
La nonna sonnecchiava: si accorse però che Annarosa leggeva un libro che aveva tratto di sotto al cestino da lavoro, e si scosse per dirle che non era giorno da leggere, quello.
Pazientemente Annarosa depose il libro e si mise a cucire; ma ogni volta che allungava la mano per prendere il refe mentiva il tepore molle del gatto aggomitolato nel cestino, e s’indugiava ad accarezzare la bestia, guardando il cielo sopra i vetri. Una smania di uscire, di correre giù almeno per l’orto l’agitava; ma ad ogni suo movimento vedeva la nonna socchiudere gli occhi e spiarla. Finalmente qualcuno picchiò alla porta. Era la vicina di casa che badava alla moglie malata del contadino.
— Signora Annarosa, — disse sottovoce, — per carità, non lasci più venire da zio Taneddu la sua serva. È già la terza volta che viene e dà da bere alla malata. E il dottore non vuole. Poi mi dia un cero, per carità; la malata muore.
— E allora perchè non la lasciate bere, se ha sete?
— Perchè il dottore non vuole.
« Ecco — pensò Annarosa andando a prendere il cero — fino all’estremo bisogna rinunciare anche all’acqua ».
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Al cader della sera uno dopo l’altro rientrarono tutti. Prima Mikedda, che fu subito mandata di nuovo fuori in cerca di Gavino; poi questo, che sgattaiolò lungo la parete e andò a nascondersi per non essere sgridato; infine Agostino con la matrigna. Egli le andava accosto accosto e il suo cappotto di orbace, rigido e aspro, pareva proteggere lo scialle molle e stanco della donna.
Quando fu in mezzo alla stanza, ella guardò di qua e di là, con gli occhi vaghi, come non riconoscesse i luoghi dai quali le pareva di mancare da tanti anni. Lentamente si tolse lo scialle, lo piegò con cura, lisciandolo per fargli andar via le rughe di quelle lunghe giornate di strapazzo; infine andò a sedersi accanto alla suocera, e dalle domande di questa e dagli sguardi dei figliastri capì che tutti aspettavano da lei il racconto degli avvenimenti. Ma lei aveva una grande confusione in mente, si sentiva stanca come dopo un viaggio, e il calore del fuoco le dava un invincibile sopore.
— Scommetto che tu non hai toccato cibo in tutta la giornata, Nina mia. Ebbene?
— Ebbene....
Cercò di raccogliere le sue idee; si strinse due volte la fronte tra le dita, trovò il filo dei suoi ricordi.
— Ebbene, se ne andata. Tutto è riuscito bene. L’abbiamo lavata con aceto odoroso e pettinata, io e la serva Lukia: era ancora bianca e con tanti capelli come una ragazza. Le abbiamo messo il corpetto verde a palme d’oro, quello di broccato antico col quale s’era sposata. Tutto è andato bene. Al momento di cercare i ceri pareva non ce ne fossero: cerca cerca in un sottocassetto ne abbiamo trovato cento, bianchi, lucidi come canne d’organo. La roba che c’è in quella casa! In ogni angolo un tesoro: neppure i suoi padroni lo sanno, quello che c’è.
— Hai chiuso bene tutto? — domandò la nonna frugando con la sua canna nel fuoco. E nei mucchi di brage le pareva di vedere le cose preziose di casa Mura.
— Ho chiuso, sì. Le chiavi le ho date al vecchio, perchè Stefene le aveva messe sul davanzale della finestra. Anche il vecchio le teneva sul ginocchio e non sapeva che farsene.
— Sì, se quel ragazzo non si sposa presto chi sa cosa succede.
Tutti ascoltavano; Agostino seduto rigido, col grosso pugno chiuso sulla tavola, Annarosa in piedi presso la matrigna, Gavino dietro l’uscio, la servetta nel suo angolo fra la scranna e la parete; e fu lei a dire con ironia provocante:
— Si sposerà quel lupo di zio Predu, prima del figlio!
Ma la padrona vecchia sì volse e la guardò terribile, battendole la canna calda sul piede nudo, e Agostino le domandò:
— Che ti salta il grillo di sposarlo tu?
— Chi lo sa! — gridò lei con voce stridula.
— Dio mio! — esclamò Annarosa, irritata, — la morta è ancora calda nella sua fossa e voi già parlate di queste cose!
La matrigna riprese a raccontare i particolari dei funerali, e chi c’era stato per le condoglianze; tutte le persone più importanti del paese, proprietari, impiegati, avvocati.
— Il vecchio però è furbo. Nonostante il suo dolore guardava uno ad uno tutti quelli che gli sfilavano davanti, poi a volte guardava verso Juanniccu nostro e mi pare avesse un’aria di beffe.
— Di chi si beffava? Di zio nostro, forse? — domandò energicamente Agostino. — Io non mi sono accorto di nulla. Con me zio Predu è stato serio.
La matrigna riprese, con voce stanca:
— No, che dici? Guardava Juanniccu come per dirgli: guarda quanta gente che non mi ama e pure viene a condolersi con me. Stefene invece piangeva, e i suoi amici lo baciavano. È buono, Stefene, se uomo buono c’è. Senza vanità, senza attaccamento alle cose del mondo. Vi ho già detto che aveva messo le chiavi sul davanzale. Prima però.... — esitò un attimo, poi continuò più rapida: — prima le aveva portate sul letto, come se la madre ci fosse ancora: così è; le mise sotto il guanciale, poi le riprese e mi disse: Nina, ecco come si finisce, si va via senza le chiavi. Non parlò più. Sì, anche le sue vecchie zie mi dissero; bisogna che adesso prenda moglie.
Agostino apriva lentamente il suo pugno, stendendo una ad una le dita sulla tavola. Contava fra sè, facendo di nuovo il calcolo della rendita dei Mura. Ce n’era per tutte le dita delle due mani. Case, orti, oliveti, una vigna in pianura, un’altra nella valle; seminerio e sughereto; infine una tanca, famosa per una sorgente perenne d’acqua purissima. La chiamavano la tanca de sa turre perchè fra le roccie d’una sua altura sorgeva un avanzo di torre che i proprietari avevano adattato ad abitazione dei pastori. E in questo rifugio era morto il nonno di Stefano, vigilato dai servi e dal figlio, perchè negli ultimi anni della sua vita si era rimbambito e commetteva stranezze.
Là si poteva far ritirare anche zio Juanniccu, quando la tanca fosse di Annarosa; c’era di tutto, nella torre, sedie, letti, tavole; come nelle case di città. Là dunque si poteva far ritirare anche zio Juanniccu, poichè anche lui cominciava a rimbambirsi e sragionava continuamente.
Fatti bene i suoi calcoli, Agostino chiuse il pugno e sentì che la matrigna continuava a parlare di Stefene:
— Buono è, buono molto.
— È come una femmina, — egli disse allora, sollevando e lasciando cadere la sua mano sulla tavola. — Tu ne farai quel che vorrai, sorella.
Allora vi fu un momento di silenzio, quasi di stupore. Finalmente la cosa da tutti pensata era stata detta: e tutti si stupivano di non aver avuto il coraggio di dirla prima. Agostino aggiunse, per metter le cose a posto:
— Ricco anche è, Stefene, ma la razza della sua famiglia non è poi delle più buone. Ce ne sono di migliori. Il nonno, poi, è morto in campagna come un pastore; e pastore era. Ma non importa; adesso non si bada più a queste cose. Quello che conta è il talento e l’onestà.
— Oh, e il denaro no? — osò osservare Mikedda.
Ma il padroncino Agostino si volse a lei inferocito.
— Sta nel tuo angolo, tu, tarantola!
— I padroni coi padroni, i servi coi servi, — pensò lei, abbassando la testa.
E subito, quasi il destino volesse premiarla della sua rassegnazione, si sentì battere alla porta. Ella balzò lunga dal suo angolo, con gli occhi ingranditi nel viso pallido.
— Deve esser morta anche la moglie di zio Taneddu! — gridò.
Infatti chi picchiava era la vicina di casa che veniva a domandare un altro cero perchè era morta anche la moglie di zio Taneddu.