Il nemico (Oriani)/Parte seconda/III
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III.
Per tre anni Loris condusse la vita più vagabonda.
Egli stesso più tardi non avrebbe osato raccontarla tutta, malgrado la crudità dell’orgoglio, col quale metteva come una sfida in ognuno dei propri eccessi; ma pellegrinando dai toundras gelati del nord ai deserti ardenti del mar Caspio, dai laghi a vasche di granito della Finlandia alle tepenti terrazze di Crimea, dalle steppe immense come il pensiero alle foreste più lunghe di ogni pazienza, e nelle quali i tronchi bianchi delle be- tulle e le colonne ramee dei pini sembravano soffrire quanto gli uomini per la inclemenza del cielo; discendendo i fiumi, pei quali la storia passò come per una grande strada, e che alimentano ancora colla propria pesca tanta parte del vasto impero; mescolandosi ai pellegrinaggi dei mugiks verso le catacombe dei santi più gloriosi, o associandosi ai banditi percorrenti malgrado la sorveglianza spietata della polizia ogni provincia colla falsità di tutti i mestieri e la facilità di qualunque delitto, viaggiò come Rakhmetof, l’eroe prediletto di Tchernicewsky, attraverso tutta l’anima russa.
La sua cultura aiutata da una meditazione, che quell’esilio spirituale rendeva più intensa, gli scopri molti segreti della vita e della storia nazionale. Indovinò dall’opposizione delle steppe colle foreste la lotta secolare fra le due metà della Russia, il nord sedentario e il sud nomade, tra il russo ed il tartaro; sentì la fatalità del primo stato moscovita, cinto da una barriera naturale di selve e di là straripante sulla steppa, ove pastori ed agricoltori vagavano nel primo inconscio atomismo sociale; comprese il lento procedere della civiltà per questo impero, di cui ogni provincia è un regno, e nel quale le città sorgono ad immense distanze sulle campagne sommerse dalla propria immensità, ma sopratutto sofferse e vide soffrire ogni varietà di miseria con quella rassegnazione russa, che nè il clima potè mai vincere, nè il dispotismo stancare. Il popolo, preoccupato solo di vivere, accettava qualunque condizione naturale e politica; il suo socialismo agricolo, anzi che da un’idea sociale, derivava dal sentimento del primo gruppo domestico reso inscindibile dalla necessità della guerra incessante alla natura; la sua religione, bizzarro miscuglio di tutti i paganesimi, aveva tuttavia una idealità inestinguibile di giustizia terrena. Il popolo viveva mestamente. Le sue canzoni cadevano come lagrime sonore lungi per le steppe nel silenzio dei tramonti, quando il sole invece di sparire sembrava allontanarsi per l’infinito della pianura, come la lucerna di un pellegrino, e le ombre della notte precipitavano compatte dal cielo. Il popolo non aveva nè un’idea politica, nè un presentimento sociale. La facile isba fabbricata colla scure, e che il fuoco deve divorare inevitabilmente dopo pochi anni, era come una tenda piantata nella steppa, dalla quale gli giungevano sul soffio silenzioso del vento gl’inviti di un viaggio senza meta e senza scopo. Perchè restare come un punto immobile nello spazio? Ma lo Czar delle foreste moscovite aveva con un ordine incatenati i mugiks alla gleba, servendosi delle loro abitudini socialiste nel comune per ribadire loro la catena. Adesso solo i cosacchi erano nomadi, mentre i contadini attendevano colla pazienza dei prigionieri di essere vecchi, e quindi liberi da tutti i debiti comunali, per abbandonare il villaggio e partire pellegrini col bordone e la bisaccia magari verso Terra Santa, ove era morto un redentore senza poterli redimere. Liberi come il vento sui prati ed instabili del pari, i cosacchi vivevano in piccole repubbliche senz’altro statuto che il cavallo; questo era per loro l’ozio e la libertà, il coraggio nella battaglia e l’ebbrezza continua nella pace. Correre, sfuggire persino a sè stesso, sul piano ove il verde è infinito come l’azzurro del cielo, non avendo altro padrone che il capriccio e altra virtù che l’indipendenza, ecco la vita! Essi accettavano lo Czar come il maggiore degli Etmani, il generalissimo della loro cavalleria. Ma nemmeno essi pensavano. Perchè diventerebbero civili, se la civiltà costringe l’uomo a sedersi per sempre, lavorando colle mani o colla testa, per crearsi prima un bisogno e poi un comodo, sino a soccombere sotto uno sciame di problemi pungenti e velenosi quanto i calabroni della steppa? Nell’immenso impero russo i cosacchi erano adesso l’estrema poesia selvaggia, mutata dalla raffinata barbarie del dispotismo czaristico in una bestiale prosodia, giacchè gli ultimi manipoli della loro orda antica, ridotti nelle città a gendarmeria, riscattavano dal governo il privilegio della propria indipendenza col servire agli abusi della sua forza.
Oggi i cosacchi, una volta così efficaci nella storia russa, non sono più che una varietà della sua vita; altri popoli più selvatici di loro furono aggregati all’impero, e vi accampano come prigionieri, che l’impossibilità della rivincita mutò gradatamente in servi o in coloni. Interi regni turchi sono ora provincie russe; Kirghiz Mussulmani e Kalmouks buddisti macchiano della propria presenza l’ortodossia russa, conglomerati nel governo imperiale, di cui sentono solamente la forza. E l’impero dilaga nell’Asia. Tutte le religioni, le civiltà, le barbarie e i climi hanno la propria zona nell’impero russo; gli ebrei addensati nella Polonia vi soffrono di una schiavitù più atroce della polacca; sulle altezze impervie del Caucaso, ove l’umanità trovò la sua massima bellezza, gli antichi villaggi indipendenti ripensano ancora nel silenzio dell’oppressione le gesta di Schiamil, il loro ultimo eroe; sulle sponde del mar Bianco, nel regno eterno dell’inverno, gli uomini passano come fantasmi, e vivono sotterra come animali. La Russia è più che metà dell’Europa, la Siberia è quasi metà dell’Asia.
Loris errò tre anni senza scopo e senza meta: voleva tutto vedere e conoscere.
Coll’invidiabile facilità della propria razza potè adattarsi rapidamente a tutti gli ambienti, associandosi alle carovane, unendosi ai pellegrinaggi, o errando solo e fermandosi ovunque era possibile, colla curiosità di un dotto e la passione indefinibile di un predestinato, che credesse così di compiere la propria preparazione. Era diventato più alto e più robusto. In quella vita, dalla quale bisognava conquistare giorno per giorno il pane, egli si era fatto a tutti i rischi e a tutti gli usi; poteva soffrire lungamente la fame, e dormire sulla steppa o nei boschi, mendicare o rubare secondo i compagni del momento.
La terribile empietà della sua prima educazione gli era scoppiata nell’anima, polverizzando la fragile crosta dei sentimenti più civili assorbiti in quella vita al castello. Una sinistra poesia raddoppiava l’energia della sua volontà in quella lotta insensata di un’esistenza, concepita oltre ogni ordine legale; nessuna morale inceppava la logica implacabile del suo pensiero. Attraverso le sofferenze di tutti quegli oppressi, egli non raccoglieva che il grido soffocato della vendetta o il rantolo dell’odio impotente, e quando capitava tra una festa di popolo, quella allegria in tanta abbiezione di miseria gli faceva male.
I suoi compagni, quasi sempre malandrini o mendicanti, non gl’ispiravano che disprezzo; i più vivevano così, perchè preferivano quell’ozio avventuroso alla fatica di una qualunque altra esistenza regolata.
La sua prima compagnia fu una banda di zingari, che traversavano la steppa verso l’Asia; visse a lungo con essi, imparandone il gergo e i mestieri, ma senza innamorarsi di quella loro libertà fraudolenta, che li rende così enigmatici nella storia e seducenti nella poesia. Poi dai pescatori del Volga, l’immenso fiume, apprese a reggere una barca e a frequentare i mercati. Quella rude operosità lo stancò presto. Percorse i conventi più celebri, fingendosi pellegrino, iniziandosi a più di una setta religiosa; stette coi cosacchi, guardiano di puledri, guidò le greggie dei pastori, che le contano a migliaia e migliaia.
Come i romei non possedeva che una scodella, una bisaccia e un bastone. I suoi abiti cadevano a lembi, parlava sempre in dialetto colla più aspra volgarità. I suoi capelli e la sua barba, incolti, gli davano un’aria strana e malgrado tutto signorile, che gli attirò spesso l’attenzione pericolosa della polizia: tre o quattro volte fu gettato nelle carceri con altri vagabondi, ma potè sempre uscirne grazie alla prontezza del suo spirito e all’arbitrio capriccioso della polizia stessa. Si serviva di un passaporto rubato nelle più tristi circostanze ad un vagabondo, che gli somigliava. Nei più rigidi inverni si arrestava dove poteva. In un convento, ove i frati lo accolsero ingannati dalla sua devozione e dal racconto fantastico della sua miseria, rimase tre mesi copiando antichi manoscritti greci. Poi fece parte di una banda di ladri da cavalli, che nascondevano i puledri rubati entro una foresta, e da essa li avviavano a mandre verso un altro governo. In questo esercizio pericolosissimo, perchè i mugiks si associano in truppa per dare la caccia ai rapitori, e li uccidono senza pietà ovunque li sorprendono, il suo coraggio e il suo ingegno gli assicurarono presto un’autorità indiscussa sui compagni. Egli rubava indifferentemente ai mugiks e ai signori, ma divideva il guadagno colla banda largheggiando verso di essa con modi da capitano. Però una volta furono colti; egli e due altri solamente poterono salvarsi nel bosco.
Era stata la stagione più bella della sua vita, dopo la quale si mise in un’associazione di giuocatori di frodo, che si recavano alle fiere suonando varî istrumenti. Avendo accumulato qualche danaro in tutti questi mestieri, lo portava cucito nelle vesti, ma viveva sempre colla più avara frugalità.
Alla grande fiera di Ninhny Nowgord s’incontrò con uno strannik, un errante, personaggio bizzarro di una fra le più stravaganti sette russe. Era un ometto di bassa statura, tarchiato, di una incredibile forza muscolare. Sebbene non avesse più di quarant’anni ne mostrava cinquanta, e vestiva di pelli di montone anche nell’estate, coi sandali ai piedi, fasciandosi le gambe di cenci immondi. I capelli lunghi e crespi, di un colore incerto fra il rosso ed il castano, gli crescevano a cespuglio dalla testa, sulla quale non portava berretto di sorta. Sotto la barba lunga un lupus gli divorava l’angolo sinistro della bocca. I suoi occhi piccoli e bianchi sotto la fronte bassa, quasi sorretta da due enormi sopracigli villosi, parevano spenti: e rideva spesso scoprendo una rastrelliera di denti corrosi, attraverso i quali passava un alito fetido. Si chiamava Topine.
Loris l’incontrò col proprio gruppo sull’imbrunire a non molta distanza dalla città. Cadeva il tramonto, dalla campagna venivano soffii profumati, che ammollivano l’aria troppo calda. Loris, che aveva fatto anche lo stregone e sapeva dire la buona ventura, lasciò andare innanzi i compagni per strologare un crocchio di ragazze tornanti dalla falciatura dei prati. In quella passò Topine a passo rapido, trascinando faticosamente una gamba, che gli doleva. Le ragazze se lo mostrarono con un grido di orrore, egli rispose loro con un gesto osceno.
Quando Loris le ebbe contentate, ricevendone pochi kopeks per le solite fandonie profetiche, allungò indarno il passo per raggiungere gli altri; ma conoscendo la bettola, ove andrebbero ad alloggiare, cedette insensibilmente alla blandizie della sera. D’un tratto, alla svolta della strada, udì uno strepito di voci, e scoperse un gruppo di mugiks schiamazzanti intorno a qualcuno, che bestemmiava con voce più aspra. Quando fu loro presso, Loris s’accorse che avevano circuito Topine e, dileggiandolo, volevano costringerlo a ballare. Uno fra essi aveva già cominciato a scuoterlo, ma Topine rivoltandosi ferocemente lo aveva atterrato con un pugno. Naturalmente s’impegnò una rissa. Topine faceva sforzi sovrumani per saltare fuori dal loro gruppo, ma stretto da ogni parte, malgrado tutta la sua robustezza, non poteva riuscirvi. Un pugno gli aveva scrostato i grumi del lupus, così che un sangue giallastro gli colava per la barba. Loris, ubbidendo ad un irriflessivo istinto generoso, si slanciò al suo soccorso, rovesciò un mugik, pervenne nella sorpresa sino a Topine e lo liberò dalle mani, che lo tenevano avvinghiato. Quindi si postò fieramente dinanzi a lui, senza parlare, brandendo un lungo coltello.
L’effetto ne fu irresistibile, gli altri arretrarono. Loris ordinò a Topine di andare innanzi, e rimase in faccia a tutti, guardandoli così terribilmente che non osarono attaccarlo. Ma Topine si era fermato a poca distanza per sostenerlo in un nuovo assalto.
Quando ripresero la via insieme erano già amici.
Loris gli confessò di andare a Ninhny con una compagnia di suonatori ambulanti, l’altro gli rivelò la propria setta. Era un errante, di coloro che come gli antichi profeti si erano ritirati nella solitudine, in fondo alle foreste, nelle quali non penetravano ancora i servitori dell’Anticristo, lo Czar. Aveva abbandonato moglie, figli e comune per non avere più alcun rapporto colla società legale; portava al collo una croce benedetta a Gerusalemme sul sepolcro del Redentore, e la mostrava ai gendarmi dicendo loro: Ecco il mio passaporto vidimato dal Re dei Cieli. Naturalmente i gendarmi lo arrestavano, ma egli s’ingegnava per evitarli. Nel suo delirio settario affermava che l’epoca dell’Anticristo era già incominciata, e che lo Czar era il nemico di Dio, come i ricchi lo erano dei poveri, mentre egli non voleva aver nulla di comune con essi. Vivendo solo nel pensiero di Dio, girava da dieci anni per tutto l’impero russo, alloggiato e nutrito segretamente da quei correligionari, che imperfetti nella fede restavano ancora nel mondo comunicando di nascosto coi perfetti, gli erranti. Loris conosceva già confusamente quella setta. Poi Topine gli chiese con accento cupo:
— Sei tu un credente?
Loris alzò le spalle.
Presso la città si separarono.
— Giacchè rimarrai parecchi giorni a Ninhny, ti rivedrò, disse Topine.
Due giorni dopo, sull’imbrunire, Loris fu fermato da Topine in un vicolo già oscuro della città.
— Vuoi venire con me? gli mormorò misteriosamente: ti condurrò da Ouliana, la Boghiniia.
— Boghiniia, una madre di Dio! esclamò Loris meravigliato.
— Sì, la Boghiniia, replicò Topine con accento ispirato: essa è l’ultima nipote di Ivan Timofewich Souslof. Sotto il regno di Pietro I, Dio Padre discese frammezzo a nuvole di fuoco sul monte Gorodine, nel governo di Vladimir, e vi si fece uomo sotto la forma di Daniele Philippovich. Quindi generò da una donna vecchia di cento anni un contadino per nome Ivan Timofewich Souslof, e lo riconobbe per proprio Cristo prima di risalire al cielo. Iwan Timofewich Souslof scelse dodici apostoli, coi quali predicò sulle rive dell’Oka i dodici comandamenti del suo padre Sabaoth; poi lo Czar lo fece imprigionare, flagellare, torturare, e finalmente crocifiggere presso la porta santa del Kremlino. Fu seppellito il Venerdì, ma risuscitò a confusione degli infedeli nella notte dal sabato alla domenica. Allora lo arrestarono di nuovo e lo crocifissero. Questa volta lo scorticarono e, perchè non potesse più risorgere, la sua pelle fu ridotta in cenere. Ma una donna avendo ottenuto di gettare un lenzuolo sul suo cadavere, Ivan Timofewich Souslof risuscitò ancora. Adesso la sua pelle è formata di quel lenzuolo, e Ivan Timofewich si è ritirato sul monte Gorodine, dal quale ritornerà nella pienezza dei tempi.
La sua voce gutturale si era fatta a mano a mano più stridente durante la lunga filastrocca. Loris lo ascoltava curiosamente.
— Vuoi tu venire dalla Boghiniia? Io sono un suo servo; le porto l’elemosina dei credenti di Jaroslavt, disse traendo di sotto la pelle di montone un sacchetto, e battendovi colle dita orgogliosamente.
— Oro?
— Tutto.
— E perchè non te lo tieni?
— E scritto nei dodici comandamenti «non rubare. Se qualcuno ha rubato solamente un kopek, gli si metterà nel giorno del giudizio finale quel kopek sulla testa, e il peccato non gli sarà rimesso, che quando il kopek si sarà fuso al calore del fuoco.»
— È bella la Boghiniia?
— Più di te, e Topine lo guardò con ammirazione.
Loris sapeva qualche cosa della setta dei Klysty e sulla loro adorazione della donna, ma non aveva mai potuto accertarsi della verità dei loro riti pazzi e licenziosi. Quell’incontro con Topine cominciava a divertirlo. Quindi tentò d’interrogarlo, ma Topine rispondeva di ignorare i loro segreti, tradendo involontariamente un grande terrore.
— La Boghiniia è bella ma terribile, una sua parola basta a dare la morte.
— Perchè dunque mi conduci da lei?
— Tu sei bello, rispose sottovoce; se ella vuole, può farti diventare come lei. Non mi hai tu salvato la vita? esclamò con orgoglio selvaggio, sentendo di rendergli un beneficio anche maggiore.
Erano usciti dalla città, annottava.
Loris, all’idea di un abboccamento con una donna bella e potente, aveva sentito rinfocolarsi tutto il suo odio ripensando a Tatiana. Da tre anni la ferita del suo cuore sanguinava come il primo giorno, sebbene non amasse più quella fanciulla, della quale l’immagine gli stava confitta nella memoria come una placca rovente. Ma da tre anni ruminava la propria vendetta, preparandosi in quella peregrinazione ad impadronirsi dell’anima popolare. Sotto i suoi cenci qualche volta si sentiva più potente dello Czar prigioniero dei propri funzionari, in fondo ad un palazzo di marmo, nel quale non giungeva dal di fuori alcuna voce. Ma prima di scendere nella lotta dovrebbe ancora entrare nel mondo dei signori per impararne i segreti come di quello dei poveri. Quindi a forza di meditare la propria vita si era convinto di essere un predestinato. Tutto era stato strano e terribile nella sua fanciullezza; la sua educazione, la morte del padre, il suicidio della madre, l’accoglienza e poi la cacciata dal castello. Egli aveva dovuto amare Tatiana per spremersi dal cuore l’unica goccia d’amore, diventando invulnerabile a questo sentimento, che perde tutti gl’individui.
Chi era quest’altra donna, contro la quale lo gettava il destino?
Con rapidità spaventevole concepì tosto il disegno di sopraffarla. Il fanatismo istintivo di Topine non poteva ingannarsi se, malgrado il terrore che di lei provava solo nominandola, osava così senza preparazione alcuna condurre lui vagabondo e cencioso da una boghiniia. L’anima semplice di quello strannik aveva dunque sentito che egli era un predestinato?
Camminavano in silenzio, la strada era deserta.
Si fermarono davanti ad una casa in muratura, chiusa da un altissimo stecconato nero interrotto da un cancello a grosse sbarre di ferro foderate da lamiera per togliere ogni vista ai curiosi; pareva una fortezza. Alti pini le coprivano quasi interamente il tetto coi rami; si distingueva poco più lungi un altro caseggiato.
Topine rattenne Loris per una mano, poi improvvisamente, a più riprese, imitò il fischio della vaporiera.
Il cancello si aperse, e comparve un vecchio in caffetano rosso, tutto raso. Topine gli pronunciò all’orecchio una parola, quegli squadrò Loris, e li accompagnò fino alla porta. La casa aveva i muri a scarpa, colle finestre piccole e nere.
Topine disse a Loris:
— Resta qui.
— Alla porta? E invece lo spinse avanti così vivamente che l’altro non osò resistere.
Il servo accese una piccola lanterna, quindi li condusse per una scala di legno attraverso alcune stanze sino ad un gabinetto tutto giallo. I suoi mobili erano dorati, le pareti rivestite di damasco.
Loris si guardava attorno meravigliato, Topine tremava.
Poco dopo entrò una donna vestita di rosso, con una lunga veste a coda: era alta, bianchissima, con un’immensa capellatura nera. Topine le si gettò ai piedi, baciandole le pantofole rosse ricamate d’oro, e senza far motto, le pose innanzi sul tappeto il sacchetto.
Ma ella esaminava Loris, rimasto ritto col berretto spelacchiato sulla testa; in quella camera, così stracciato ed altero, pareva anche più bello.
— Chi è il tuo compagno? chiese a Topine, percuotendogli con una pantofola la fronte per farlo alzare; ma egli rimase nullameno bocconi.
— Il mio salvatore: senza di lui mi avrebbero ucciso e rubato il sacchetto.
Ella pareva perplessa; la sua fisonomia diventò terribilmente severa. Tornò a guardare Loris, poi riabbassando su Topine un’occhiata d’un disprezzo infinito si torse verso l’uscio, donde era entrata.
Allora Loris s’avanzò.
— Grazie! mormorò Topine con voce soffocata.
— Alzati, Topine, gli disse Loris: la commedia è più breve di quanto supponevo. Per sdebitarti della vita, che mi devi, bai creduto nella tua semplicità di farmi conoscere una Boghiniia! L’ho vista, è abbastanza bella per fare da madre di Dio.
E il suo accento aveva una ironia così signorile, che la donna si voltò.
— Perchè, fu pronto Loris a seguitare, componendosi nell’eleganza di un gentiluomo, non potrei io stesso quantunque così vestito essere un personaggio come voi? Se il mio presentatore, aggiunse con fine sorriso, non mi ha presentato, la colpa è ancora più mia che sua, giacchè non gli ho ancora detto il mio nome. Ma nemmeno vi chiederò il vostro. Chiunque io mi sia....
— Ma, signore, riprese la donna, che cominciava a subire l’ascendente di quella disinvoltura, la vostra presenza in questa casa....
— La casa non è dunque vostra? Che cosa potete temere da me? Quel sacchetto è pieno d’oro, non avrei potuto prenderlo a Topine? Forse consentiste a divenire pei vostri credenti una madre di Dio per l’oro? Topine mi disse che eravate bella con accento di così mistico terrore che desiderai di vedervi. Volevo giudicare le facoltà estetiche del nostro popolo. La Russia ha ancora abbastanza fede, se può adorare Dio nella manifestazione della vostra bellezza.
L’imbarazzo della donna cresceva visibilmente; l’alterigia fredda del suo classico viso di statua era scomparsa. Loris si accorse che la signorilità di quella conversazione gli dava un vantaggio enorme.
— Voi non saprete mai chi io mi sia. Se mi supponete un funzionario del governo, così travestito per sorprendere i riti della vostra setta, stimereste troppo il governo. Chi può ancora servirlo e per uno scopo così basso, per impedire a uomini, che nulla più consola, l’estasi di adorare una bellezza di donna, che pare loro un anticipo sul paradiso? Voi, che non credete in Dio, giacchè rappresentate la parte di sua madre, potete comprendere come non tutti gli erranti debbano somigliare a Topine, e la bellezza non sia il solo sintomo di un’altra predestinazione. La vostra è una setta di deboli, i quali obliano il proprio dolore nella contemplazione della bellezza; ma il loro dolore, passando nella vostra vita, vi ha reso così tragicamente bella. Il dolore, seguitò con accento cupo, è presso a trionfare nella Russia; presto avrà il suo eroe. Vi pensaste mai nella solitudine divina, che i vostri adoratori vi hanno fatto?
Loris aveva parlato con modi aristocratici, ma il suo sguardo sfavillava.
— Chi siete voi, signore? ella esclamò finalmente.
— Quando una donna è curiosa, il suo cuore è ancora muto, altrimenti ella avrebbe già indovinato. Andiamo, Topine.
E si voltò verso di lui tuttora ginocchioni, cogli occhi spalancati, senza intendere verbo. Topine ubbidì macchinalmente.
Ella era sempre così incerta. Topine le si rigettò ai piedi baciandoli.
— Andiamo, ripetè Loris con voce imperiosa. L’altro lo seguì.
Quando furono nella strada, Loris gli disse:
— Domani tornerai dalla Boghiniia, e se ti dice di cercarmi, mi troverai alla stalla dei tre Magi tutta la giornata.
La bellezza della Boghiniia aveva riacceso gli ardori del suo sangue giovane, mutandogli quel disegno di conquistarla nella necessità di un trionfo improvviso. Con quella donna sperimenterebbe per la prima volta la propria potenza. Ella doveva essere senza dubbio un forte carattere per imporsi così all’adorazione di numerosi fanatici. L’imponenza del suo volto, lo splendore ardente de’ suoi grandi occhi, e sopratutto quella indefinibile alterigia, che nullameno si era scomposta sotto la fredda lusingatrice violenza del suo attacco, rivelavano una natura superiore. In quella setta misteriosa dei Klysty, derivata da un ritorno puerile al vangelo primitivo, e discesa grado grado nel più demente e lascivo misticismo, l’adorazione della donna non poteva essere che l’ultima sconfitta della virilità. Come la loro ragione si era prima smarrita sulla traccia di Dio per chiedergli la spiegazione della vita, il loro sentimento si perdeva nel senso dinnanzi alla donna. L’estasi della rivelazione, ottenuta coll’ebbrezza dell’amore sensuale, era per quei fanatici la soluzione del problema umano e divino; quindi la donna, nella quale si elabora la generazione, questo mistero dei misteri, doveva essere per loro il maggiore dei simboli.
Loris si domandava per quale strano processo quella donna aveva potuto elevarsi tanto alto. Evidentemente la Boghiniia era ricca, e poichè Topine lo aveva condotto da lei, giudicandolo bello, questa vivente divinità si permetteva i capricci di tutte le altre donne. Diventando l’amante della Boghiniia arriverebbe dunque alla ricchezza. Loris sapeva che i capi di tutte le sette religiose nella Russia sfruttavano con pari destrezza la credulità dei loro adepti.
I suoi compagni erano ritornati malconci alla stalla dopo aver giuocato in una stamberga, ove erano stati scoperti e bastonati così da dover scampare, abbandonando anche quel poco danaro, che possedevano prima.
Quindi destarono Loris per chiedergli qualche rublo.
Egli rispose con male parole di non averne, e si riaddormentò. L’indomani non uscì di casa aspettando Topine, che venne solo a sera.
Pareva più misterioso, ma Loris s’accorse che era anche più allegro.
— Ella stessa m’invita? Che cosa ti ha detto di me quando ti ha richiamato?
— La Borghiniia non confida i propri segreti ad un povero verme come me, ma può fare di un verme un angelo.
L’appuntamento era alle dieci della notte.
— E tu dove abiti?
— Nel suo canile. Verrai solo, io stesso ti aprirò il cancello.
— Ma chi è la Borghiniia? chiese Loris con impazienza.
Topine se ne andò senza rispondere.
Alle dieci Loris si fermava dinanzi al cancello di quella casa, e Topine lo introduceva nello steccato. Appena dentro gli parve d’intendere uno strano ronzio di voci. Invece di dirigersi alla porta girarono dietro la casa verso un enorme capannone bruno, del quale era impossibile indovinare l’uso. A Loris sembrò che le voci crescessero; poi entrarono per una porticina, al buio, in una specie di andito pieno di un forte odore di terriccio. Adesso non poteva più dubitare, il capannone era pieno di gente ed illuminato; la luce filtrava dalle fessure dell’assito. Più innanzi v’era un uscio a vetri.
— Mettiti lì, gli disse Topine e scomparve.
L’uscio, chiuso dal di dentro e bipartito, aveva nel mezzo di ogni battente un largo vetro tenuemente colorato in rosa.
Quel capannone era un’immensa sala, tutta parata di bianco in mussolina indiana sapientemente panneggiata e frangiata d’argento; la sua vôlta scompariva sotto un tulle candido e cilestro, come un cielo che si vedesse tra nuvole lattee. Egli n’ebbe una grande impressione di soavità, attraverso quel vetro rosa, che toglieva a tutto quel bianco la inevitabile crudezza dei toni opachi. Trenta o quaranta persone, vestite di lunghi accappatoi bianchi, strette nel mezzo a circolo intorno ad una lunga tinozza bianca, posta sopra un tripode acceso, giravano lentamente tenendosi per mano e salmodiando. Le loro teste gittate indietro, così che i colli ne divenivano gonfi violentemente, guardavano al cielo. Un alito leggero di vapore saliva dall’acqua bollente della tinozza, perdendosi nell’aria.
Loris osservava estatico. Tra quella gente v’erano fanciulli e vecchi, donne dai capelli bianchi spioventi sulle faccie grinzose, e giovinette dal viso fresco di primavera, che parevano impallidite per una dolorosa emozione. Tutti gli accappatoi erano uguali, tutte le teste e i piedi nudi; un tappeto bruno sul pavimento imitava la terra. Molte lampade dorate, sospese a cordoni bianchi, penzolavano dalla vôlta, spandendo colle incerte fiammelle una luce misteriosa; dinnanzi alla tinozza, coperto di un drappo nero, saliva per tre gradini una specie di trono, agli angoli del quale ardevano quattro alti candelabri. E il circolo girava sempre lentamente, mormorando, strisciando sul tappeto i lunghi accappatoi; si sentiva già lo sforzo di qualche respiro, alcuni si portavano le mani al collo come per sottrarsi allo spasimo di una soffocazione. Poi si fermarono, e una voce declamò questo versetto:
«E accadrà negli ultimi giorni, dice il Signore, che spanderò il mio spirito in ogni carne, e i vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, e i vostri giovani vedranno delle visioni e i vostri vecchi sogneranno dei sogni.»
Il circolo ricominciò a girare, prima adagio alternando ritmicamente i piedi e scuotendo le teste, poi crescendo a grado a grado di velocità. Era la danza sacra dei dervischi, la ronda stordente, che prelude alla frenesia della rivelazione. Cominciavano i rantoli e le grida. Quindi d’un tratto il circolo si spezzò; gli uomini scaraventarono lungi le donne per restringersi in un cerchio più piccolo e più rapido, ma esse si riattaccarono fra loro a grandi urla, e si scagliarono in una ridda inversa circuendoli. Allora la visione s’intorbidò; non si distinsero più che due pareti bianche, formate dagli accappatoi, sui quali ondeggiavano penzoloni le teste coi capelli svolazzanti, due pareti circolari, aggirantisi come sopra un perno segreto, rapite da una bufera insensibile. Non si poteva sorprendere una fisonomia, afferrare una forma, nel volo di quel bianco abbacinante. Loris ne risenti l’impressione angosciosa.
Essi giravano sempre più rapidi, trasportati dal reciproco impulso, nell’impossibilità di arrestarsi. Si udiva il fischio rantoloso del loro respiro, s’indovinavano nei tremiti di una impossibile caduta gli spasimi di un deliquio, che l’energia dei più forti ritardava.
Loris si tolse da quel vetro per ritornare nel buio dell’andito. Una collera profonda ruggiva nel suo spirito allo spettacolo di quell’ultima degradazione della preghiera umana. Avrebbe voluto essere già fuori da quel corridoio, ma nelle tenebre non trovava più la porta, per la quale era entrato. Perchè dunque era venuto a questa suprema imbecillità religiosa? Attraverso l’assito gli giungeva ancora il rumore turbinoso della danza come un sordo murmure di acqua, che s’inabissi nelle bocche di un molino. Involontariamente tornò ad ascoltare. Così nell’ombra contemplava ancora quelle due pareti umane, bianche e rigirantisi sopra sè stesse, colle teste che trabalzavano cadavericamente; vedeva certi sorrisi tormentati, certe occhiate livide, certi denti balenanti dalle bocche spalancate, come gli era parso di osservare dianzi. Ma essi turbinavano sempre; se li sentiva intorno, quasi al di dentro, colla vertigine di un vortice. Poi un urlo immenso, lacerante, lo colpì.
Tornò a spiare dal vetro. La ronda era finita, tutti giacevano in un alto mucchio bianco, palpitante e semivivo, come sepolti sotto la neve negli ultimi conati dell’agonia. Le lampade sacre agitavano leggermente gli azzurri lucignoli come stelle tremolanti nel cielo lontano; dalla tinozza il vapore dell’acqua s’alzava in una nuvola sempre più densa, ondeggiante nell’aria al pari di un incenso.
Loris tentò di aprire l’uscio per accostarsi a quell’ammasso di caduti, che subitamente si rialzarono come sferzati da uno scudiscio invisibile, mettendosi a saltare soli, dimenandosi nelle più incredibili contorsioni. Dopo la preparazione collettiva di quella ridda cominciava il tormento singolo dell’attesa in ognuno, l’estremo sforzo verso l’estasi col sommovimento di tutte le fibre. Qualcuno preso da un tremito convulsivo sembrava oscillare come una canna, colle ginocchia piegate e la faccia cinerea; altri balzava furioso come un cavallo slanciandosi nell’aria, chi si dondolava in una specie di valtzer; un vecchio roteava sopra sè stesso, colle mani in croce e gli occhi chiusi, insensibile a tutto. Loris vide una giovinetta bella, dal volto marmoreo, che colle braccia abbandonate e la bocca aperta protendeva il ventre in un conato mostruoso, che le spezzava le reni e la faceva singhiozzare. Poi coppie di uomini e di donne saltellavano prendendosi per le mani, urtandosi rabbiosamente coi petti, e cantavano. Una donna, coll’accappatoio rigettato sui lombi sino alla cintura, scopriva un seno grasso, dondolante, di una carne stanca; verso di lei veniva un’altra donna colle braccia tese e l’occhio fisso come dietro un fantasma, che si fosse involato dal vapore ondulante sulla tinozza. Molti caduti in ginocchio si percuotevano le mammelle, o si rotolavano sul tappeto.
Uno gridava monotonamente: oh! oh! spiccando balzi prodigiosi per ghermire una lampada sospesa troppo in alto; una vecchia, dopo aver corso pazzamente intorno alla sala, venne a cadere moribonda sul primo gradino del trono.
Quello scoppio di demenze individuali era anche più insopportabile della prima ridda. Invano Loris si richiamava alla memoria quanto aveva letto su questi riti orientali, e le spiegazioni nevropatiche che ne dava la scienza moderna; la scomparsa totale della personalità umana in quei bianchi fantasmi, grottescamente saltellanti come per forza magnetica, sconvolgeva la sua stessa ragione. Non solo non poteva comprendere quale stato intellettuale si formasse in essi con quella voluta agonia di tutte le forze fisiche, ma egli stesso si sentiva cogliere da qualcuno di quegli spasimi così intensi, che nessuna crisi della vita vera, malgrado tutte le sue tragedie, avrebbe potuto provocare.
Essi saltavano sempre con una energia inesauribile. Le loro faccie, sudicie di sudore e bianche come la calce, esprimevano un tormento senza nome; dai loro occhi, nei quali lo sguardo si era spento, uscivano lampi vitrei, mentre le loro bocche incapaci di formulare più una parola si stiravano nell’avidità febbrile della sete.
— Oh! oh! oh!
Qualcuno mormorava ancora torcendosi nelle ultime convulsioni; quella vecchia caduta sui gradini del trono li saliva leccandovi come delle orme invisibili, e colle mani incrociate dietro la schiena chiamava tutti gli altri.
Allora da una porta laterale apparve un’alta figura di donna.
Loris palpitò.
La Borghiniia aveva i capelli sciolti come un immenso manto nero, che toccava quasi il terreno; sulla fronte le tremolava una grossa stella di brillanti. Era vestita di un accappatoio azzurro, stellato d’argento. Si fermò sull’uscio colle braccia alte, guardando al cielo. Il suo volto statuario, insopportabilmente bianco, pareva quello di una Niobe, tanto era il dolore che ne gelava i lineamenti; ma le sue labbra erano più rosse di una ferita, e i suoi occhi ingranditi dalle occhiaie livide nuotavano in una fiamma azzurrognola. Lentamente salì al trono. Tutti erano caduti ginocchioni, colle mani tese; alcuni piangevano.
Ella li guardò con una inesprimibile passione d’amore, incrociandosi le braccia dietro la nuca, e arrovesciando la testa così che i capelli le si confusero sul velluto nero del trono. Nel largo manto aperto si scoprì nuda alla adorazione dei credenti.
Loris dal proprio uscio la vedeva di fronte, atteggiata scultoriamente sul fondo turchino dell’accappatoio come dentro una nuvola; il suo seno pareva di vergine, coi capezzoli rosei, e il suo ventre di madre. La linea ondulante delle anche si piegava ai ginocchi di un’estrema finezza, interrompendosi agli stinchi, chiusi da due monili di brillanti; mentre le coscie, leggermente divaricate in quella violenza del ventre proteso, mostravano ai fedeli la gloria della sua maternità in un divino impudore.
Sorrideva. Brividi luminosi le scendevano dalla fronte per tutte le carni, spegnendosi sul velluto del tappeto.
L’adorazione cominciava.
Tutti i volti di quei fanatici s’illuminavano della sua bellezza come fiori ai primi raggi del sole. La tinozza le innalzava ai piedi una nuvola molle e vorticosa, e le lampade intorno al trono impallidivano ai bagliori della stella brillantata, che le tremolava sul capo.
Quella vecchia, rannicchiata sui gradini del trono, le si nascose sotto il manto accovacciandovisi come una scimia e salendole colle lunghe mani grinzose lungo le reni, mentre il viso incartapecorito le sorrideva animalescamente al contatto aromatico di quelle carni brinate e marmoree. Poi una giovinetta montò tremando gli scalini per abbandonarsi sul corpo della dea, e cadde colla bocca sulla sua bocca. Ambedue oscillarono; ma la dea si scosse rovesciando la giovinetta svenuta ai propri piedi. Allora un hurrà fece palpitare i veli della vôlta. Tutti i fedeli si rialzarono stringendo un’altra ronda furiosa intorno al trono. La diva, insensibile, con quel cadavere ai piedi e quella bestia fra le gambe, quasi sostenuta da quel manto azzurro, e pura come il marmo, pareva sfidare coll’enigma del proprio sorriso dolentemente voluttuoso la loro passione. Un fascino divino emanava dal suo corpo potente di tutte le forze della maternità e fulgido di tutti gli splendori virginei; il suo ventre palpitava più del suo seno, il sorriso le errava come una fiamma sulla bocca rossa. Essi cantavano, urlavano sgambettando, stirandosi, stracciandosi quasi le membra, mentre i loro accappatoi sollevati dal vento li nascondevano quasi, e la frenesia del loro entusiasmo scoppiava in gesti e grida cannibalesche.
Quindi la catena si spezzò in tanti anelli, che rotolarono sul pavimento, rimbalzando intorno al trono.
La dea si raddrizzò. La sua testa olimpicamente altera conservò sulla bocca quell’espressione dolorosa, le mani le caddero lungo i fianchi, e le sue coscie le si allargarono ancora, mentre il ventre palpitando più violentemente sembrava soffrire quasi le angoscie del parto.
Tutti si avventarono simultaneamente al trono per salirne i gradini, schiacciandosi con trasporto frenetico. Erano grida rauche, urli e lotte disperate, nelle quali l’oblìo del sesso e dell’età permetteva ogni trionfo della forza. Ma sulla piattaforma, presso la dea, ridiventavano improvvisamente immobili. Poi s’inginocchiavano, la baciavano ai piedi, sui ginocchi, sotto al ventre; quindi si rialzavano barcollando, gli uomini le baciavano il seno per memoria del latte succhiato alla nutrice, e le donne invece si stendevano sulla sua bocca.
Ella rimaneva immota. I suoi occhi fisi sopra una lampada non avevano un tremito, il suo ventre solo tremava sempre. Un effluvio di amore e di terrore saliva intorno a lei coll’alito ardente di tutti i fedeli; qualcuno dimentico delle prescrizioni terribili le errava un istante colle mani tremule sulle carni, altri stringeva il suo manto. Una fanciulla le era caduta bocconi ai piedi, e si lasciava schiacciare dai sorvenienti, piuttosto che muoversi. Solo la vecchia accovacciata, sotto il manto, sorrideva nell’orgoglio del proprio privilegio, e sfidando il loro riserbo spaventato accarezzava colle dita il dorso della dea.
Loris si era obliato nell’incanto.
Improvvisamente la dea vibrò, tutti si ritrassero; ella, spiccando un salto, giunse all’uscio di Loris, l’aperse e scomparve.
Loris si trovò stretto fra le sue braccia prima di aver tempo di muoversi.
Ella lo aveva sollevato e lo portava correndo; traversarono il prato, salirono nella casa, al buio, sino a quel gabinetto. Loris si sentì gettato sul divano.
Poco dopo ella ritornava vestita modestamente di bruno, e si metteva ai suoi piedi guardandolo.
Quindi gli abbandonò la testa sui ginocchi.
Loris rimase in quella casa oltre un mese. Ouliana, innamorata sino alla sommissione, avrebbe voluto abdicare al grado di Boghiniia per andare a vivere con lui a Mosca; ma non era abbastanza ricca per questo. In danaro contante non possedeva allora che trentamila rubli, il resto lo aveva profuso in gioielli e nel lusso dell’appartamento. Loris non le aveva nemmeno detto il proprio nome, contentandosi di cangiare i vecchi cenci in un modesto abbigliamento di gentiluomo campagnuolo.
Topine rintanato nel canile, con due grossi veltri, che lo amavano, viveva inorgoglito di quel trionfo di Loris come di un successo personale. Nella demenza delle proprie idee settarie egli ammetteva solamente l’amore vagabondo per non riconoscere nel matrimonio un patto sociale; e non diversa era l’opinione dei Klysty e della Boghiniia, che ogni tanto prescieglieva qualcuno fra i propri adoratori. Però in quella casa, malgrado l’intimità di una vecchia serva, colla quale s’amavano nel più sozzo libertinaggio, Topine fu presto ripreso dal proprio umore randagio. Una mattina ne parlò a Loris, che passeggiava meditabondo entro lo steccato.
— Dove vai? questi gli chiese.
— A Voronege.
— Conosci il villaggio di Kourlak?
— Ho vissuto molti mesi nelle tane della sua foresta. Nel villaggio vicino di Twer vi sono quattro imperfetti.
Loris si oscurò nel volto.
— Aspettami laggiù, nella foresta, fra un mese: lo voglio.
Allora Topine gli spiegò in quale tana era solito ad abitare, ma Loris non la conosceva. Convennero quindi che Loris si sarebbe presentato a Sevastianucko, lo stregone di Twer.
Topine partì.
Venti giorni dopo Loris rientrando nella camera di Ouliana le disse freddamente:
— Mi occorrono ventimila rubli.
Ella balzò radiante dal letto: era la prima volta che Loris le chiedeva qualche cosa. Aprì uno stipetto e gli presentò in un pacco tutti i buoni di banca, che possedeva. Loris era sempre così cupo.
— Chiudili in una busta da lettera, e mettili sul tavolo da notte della mia camera.
Ma siccome la busta vi rimase intatta quindici giorni, Ouliana finì col credere che Loris avesse voluto fare un’esperienza su lei, domandandole quella somma.
Poi Loris scomparve lasciandole questo biglietto laconico:
«Un giorno sarete superba per l’impiego del vostro danaro».
Nessuna firma.
Loris era partito in ferrovia per Voronege; di là venne a Twer, e seppe da Sevastianucko che Topine doveva ritornare la sera stessa dal villaggio di Zeutko. Quindi si avviarono insieme verso la foresta per incontrarlo a mezza strada.
Era il plenilunio, una di quelle notti russe, quando il sole discende appena sotto l’orizzonte, delle quali nessuna parola e nessun pennello potrebbe esprimere la divina trasparenza e la delicatezza delle sfumature. La luce pallida aveva al tempo stesso qualche cosa di etereo e di vivente; si sarebbe detto che i due crepuscoli si fossero fusi nella stessa trepidazione. Traversando quei luoghi Loris non potè difendersi dalla tristezza delle memorie; camminava a testa bassa, in silenzio, senza avvertire la bellezza della sera. Quando entrarono nella foresta senza aver incontrato Topine, lo stregone prese un sentiero a destra; dopo quindici minuti si fermarono dinanzi ad un albero, intorno al quale densi ed alti cespugli facevano macchia. Lo stregone v’entrò. L’albero, vacuo al piede, dava accesso ad una grotta abbastanza ampia, nella quale Topine dormiva sopra un grosso mucchio di fieno. Riconoscendo Loris, diè un grido.
Lo stregone aveva acceso una piccola lanterna da tasca.
— Lascia questa e vattene, gli disse Loris.
L’altro parti senza rispondere. Allora Loris uscì dalla grotta per esaminare se la luce di quella lanternina fosse visibile fra i cespugli; s’accorse di no.
— Sono venuto a dormire con te, dammi metà del tuo fieno.
Il suo disegno, non ancora ben chiaro, era d’impadronirsi di Tatiana. L’indomani mandò Topine dallo stregone per sapere notizie del castello. Questi, che vi aveva qualche aderenza nel servidorame, fu largo d’informazioni: il vecchio principe, declinando sempre più, non usciva che di rado in carrozza con madama di Aubrivilliers e Andrea l’intendente. Tatiana era stata lungamente ammalata, e proprio uno stregone, non egli, l’aveva guarita. Ora brillava di salute e di bellezza. Dal principio della primavera si era data a percorrere le campagne con Vaska, cacciando e correndo sempre a cavallo. Era l’ammirazione di tutti. Qualche volta usciva sola sopra un alto baio, incredibilmente secco e leggero, un cavallo inglese, del quale lo stregone parlava con disprezzo.
Adesso erano in visita al castello le contessine Oglobine.
Lo stregone promise di andare al castello; tre giorni dopo recò altre notizie. L’indomani, nel pomeriggio, le signorine attraverserebbero la foresta per recarsi allo stagno di Asok; Tatiana monterebbe il suo cavallo inglese, le contessine la seguirebbero su due morelli russi. Ma Tatiana aveva detto segretamente con Vaska, che le perderebbe a mezzo la foresta, prendendo il sentiero degli androni per giungere prima allo stagno.
Loris da tre giorni nascosto in quella tana, ove Topine gli portava i viveri dal villaggio per mezzo di Sevastianucko, concepì tosto l’agguato. Era sicuro di Topine. Lo Strannik non aveva che due vizî, la vodka e le donne; pel resto si poteva fidarsene a tutta prova. La notte usciva spesso dalla tana per andare al villaggio di Twer, dove aveva più di un’amica, e ne ritornava quasi sempre ubbriaco. Loris l’interpellò bruscamente:
— Andrai subito a Kourlak da Elia Mitolka, il fabbro; comprerai dieci metri di filo di ferro del numero cinque. Se torni ubbriaco ti spacco la testa, gli disse mostrandogli una piccola rivoltella.
La faccia di Loris era fosca.
— Che c’è, barine?
— Domani tenteremo la prima vendetta; ne va della nostra vita.
Topine eseguì puntualmente la commissione.
In tutto il resto della giornata Loris studiò la foresta per indovinare da qual punto entrerebbe la comitiva, e come si dividerebbe pei sentieri. Quasi tutti conducevano allo stagno di Asok, famoso nei dintorni per la pesca delle anguille; ma il più breve ed insieme il più pericoloso era appunto quello degli androni, attraverso un’avvallamento del suolo dovuto ad antico lavorìo delle acque, abbastanza bello di selvaggia orridezza. Loris sapeva che fra quelle anfrattuosità v’era una caverna, nella quale più di una volta aveva riposato da fanciullo col babbo. La rinvenne. Un folto di pruni selvatici, fra cui i cani stessi avrebbero stentato a cacciarsi, la nascondeva ad ogni sguardo. Ordinò a Topine di portarvi la lucernina, provò se dal di fuori la sua luce si scorgesse, e vi fece disporre due grossi fasci di fieno. Uno avrebbe servito da letto, l’altro per otturare ermeticamente l’ingresso.
— Di chi ti vendicherai, barine?
— Di una principessa.
— Oh! esclamò Topine passandosi con atto goloso una mano sulla barba sempre impegolata di marcia: pane bianco! Come faremo?
— Te lo dirò domani.
Quella notte Loris avrebbe scommesso di avere la febbre. Gli pareva di vedere Tatiana in mille modi, ascoltava la sua voce fra un murmure lontano di applausi e di fischi per quest’opera di vendetta, nella quale una principessa bella e vergine avrebbe pagato per tutta l’aristocrazia. Poi, a certi momenti, temeva di venir meno nella stretta suprema, e si sferzava colle ingiurie per esasperare il proprio odio.
Prima ancora che l’alba sorgesse vagava già per la foresta. Tutto era incanto. Le macchie splendevano di fiori, l’erba mormorava; gli uccelli vagavano a stormi o cantavano solitari, gli insetti ronzavano a nuvole entro le pezze di sole distese fino a terra dai rami degli alberi. Una freschezza innocente saliva dagli antri più cupi della foresta, dove l’ombra ed il freddo, in altra stagione, soffiavano indefinibili terrori.
Ma Loris s’irritò di quella pace. Nella caverna trovò Topine attaccato al fiasco della vodka.
— Non voglio che t’ubbriachi quest’oggi, gli gridò strappandoglielo.
Poi uscirono assieme. Loris credeva di non ingannarsi sul punto, ove entrerebbe la comitiva: sarebbe nello spiazzo della grande betulla di Sant’Elia, perchè un’immagine del santo era confitta nel suo tronco biancastro. Topine sollevava difficoltà per ostentare la propria conoscenza della foresta; finalmente convennero di tutto.
— Ma se pigliano invece dallo sbocco della Cerva? obbiettò ancora Topine.
Loris gli rispose con una bestemmia, e andò a mettersi in agguato. Fumava. Topine, che non poteva ammettere questo per le proprie idee settarie, gli chiese un mozzicone di sigaro per farne una cicca.
Attesero lungamente. L’aria era snervante malgrado il vento odoroso, che susurrava fra gli alberi. Tratto tratto minimi rumori sembravano ingigantirsi e vanire; qualche animale invisibile passava stornendo fra i cespugli. Loris s’incantò a guardare un ramarro, che lo spiava. Poi udirono delle voci e dei passi frettolosi; erano due servi del castello, e due mugiks carichi di attrezzi da pesca, che si affrettavano verso lo stagno. Avevano preso per quel sentiero degli androni.
Passò ancora del tempo. Loris e Topine erano sdraiati a poca distanza, questi pareva sonnecchiare; sulla faccia di Loris passavano a quando a quando delle nuvole. Era vestito elegantemente di un panno cenerino, due stivali molli e giallognoli gli arrivavano alle ginocchia; una camicia di seta a fiorelli su fondo paglino, aperta sul collo e rattenuta da una cravatta svolazzante, gli scopriva la sommità del petto bianco come quello di una donna. La barba tagliata a punta dava un’aria marziale al suo viso, rimasto ancora delicato malgrado il sole e il freddo della steppa. Aveva gettato sull’erba il cappello bianco a larga tesa.
— Eccola! esclamò.
S’udiva da lungi il latrato di un cane. Loris e Topine s’alzarono a disporre l’agguato, nascondendosi reciprocamente dentro la macchia, per la quale passava il sentiero e tendendovi il filo. Ne avevano piegato i capi a cerchio, tenendoli stretti in pugno con un fazzoletto per non farsi tagliare le dita dallo strappo, quando il cavallo vi avrebbe urtato. Se non fosse stata Tatiana, bastava abbassare il filo sino a terra, che niuno se ne sarebbe accorto.
Loris si sentiva battere furiosamente il cuore, non poteva star fermo. Ogni tanto sporgeva la testa dai cespugli, non capiva quasi più, e si pentiva bestemmiando ferocemente per affrettare la catastrofe. Distinse il fremito di un uccello fra le fronde.
Poi un galoppo poderoso risuonò, le piante stormivano; una voce femminile gridò:
— Ohep!
Loris alzando imprudentemente il capo vide a poca distanza una figura di donna con un lungo velo bianco svolazzante dal cappello a cilindro, curva sul collo di un gran cavallo baio lanciato alla carriera.
— Topine! gridò.
Fu un attimo. Forse la donna aveva udito, ma non avrebbe potuto frenare il cavallo; poi un impeto come di valanga rovesciò tutto, e Loris e Topine si trovarono addosso al cavallo caduto, colla faccia graffiata dagli stecchi, travolti, quasi schiacciati, perchè il filo non si era rotto. Il cavallo pareva tramortito, la donna, sbalzata di sella a cinque passi, si rialzava. Ci fu un minuto d’incertezza.
Ella si rivolse.
— Topine! urlò Loris già in piedi. L’altro si levò pesantemente, ma scorta la donna si slanciò; parve un lupo, la rovesciò, le gettò le sottane sul capo, gliele fasciò strettamente, e con quel fardello, tutt’altro che leggero sulle braccia, si mise a correre rapidamente. Quel latrato si perdeva in lontananza.
Il cavallo, che si era rotta una gamba, gettò un nitrito doloroso tentando di rizzarsi.
Loris si voltò involontariamente a guardarlo dalla svolta del sentiero, precipitandosi dietro Topine.
Fu una corsa di pochi minuti, penetrarono nella macchia quasi contemporaneamente. Nella caverna la lanternina agitava una luce fioca. Topine gettò la donna sul mucchio di fieno, appoggiandosi per non cadere alla parete, e cercando cogli occhi il fiasco della vodka.
La donna balzò in piedi; le vesti le si abbassarono sugli stivali, si tastò istintivamente il cappellino a cilindro, di felpa nera, tutto ammaccato. Era rossa dalla soffocazione delle vesti. I suoi occhi gonfi sulle prime non discernerono nulla, poi vide Loris senza riconoscerlo; Topine restava dietro di lei. Tatiana travide la sua figura mostruosa, colla barba, così vestito di pelli, e rinculò guardando l’altro.
Allora le sfuggì un grido.
Loris spinse l’altro fascio di fieno all’imboccatura della caverna.
Quando si rivoltò, Tatiana non si era ancora riavuta. Adesso la poca luce della lucerna bastava a tutti e tre per esaminarsi minutamente. Nessuno parlava, si sentiva il rantolo di Topine diminuire a poco a poco.
Loris incrociò teatralmente le braccia. Gli era caduto il cappello, la sua bella testa aveva un’espressione satanica di trionfo, guardandola cogli occhi fissi.
Ella levò il capo.
— Un agguato! esclamò con voce tremula.
L’altro non rispose.
Tre persone erano troppe in quella caverna, nella quale si sarebbero toccate al più piccolo gesto. L’amazzone verde di Tatiana, diventata nera nella penombra, era rimasta colla coda sul fieno; ella se ne avvide e con un moto di pudore istintivo se la ravvicinò ai piedi. Il loro imbarazzo cresceva.
— Perchè mi avete rapita? gridò finalmente Tatiana con tutta l’alterigia del proprio carattere.
— Credo che vi sarà difficile indovinarlo.
— Infatti se avete sperato, che cederei così alla vostra violenza, vi siete ingannato grossolanamente.
— Meno di voi, principessa, che vi credete ancora tanto amata che vi si rubi per possedervi, ribattè Loris con gelida ironia.
Tatiana vacillò, non comprendeva più.
Egli parve contemplarla con ammirazione. Infatti così vestita, con quell’amazzone che le guantava mirabilmente il busto, un grande mazzo di capelli biondi rialzato sulla nuca sotto il cappellino, cui le ammaccature sembravano dare un’aria biricchina, pareva anche più bella. Il velo bianco le era caduto sul ventre come una falda di neve.
— Eppure, seguitò Loris lentamente, siete diventata più bella. Ti piace, Topine?
— Vieni qui, esclamò improvvisamente.
Topine gli si accostò.
— Ti piace? Guardala bene, è una principessa.
Topine aveva sbarrato gli occhi, e guatava estatico quell’incantevole figura di giovanetta tremante, col seno che le palpitava perdutamente. Ma guardandola un luccichìo gli si accendeva negli occhi bianchi, poi sbirciava il padrone come un cane.
— E bella, non è vero? Nella tua miseria non ne hai avuto mai un’altra come questa. Solo le donne dei signori sono così belle, ma sono anche più vili delle altre donne. Sono capaci di far frustare un povero che le ami, e di riderne.
Tatiana fremè; avrebbe voluto rispondere, ma un terrore inesplicabile la dominava. Le sue labbra tremavano, chiuse gli occhi. Loris attese che li riaprisse.
Tatiana si sentiva girare quella caverna intorno, un brivido freddo le scendeva lungo il dorso sino ai piedi. Un tremito della lucerna le parve l’ultimo incomprensibile schianto. Balzò indietro spaurita, urtando nel fieno, quasi vi cadde.
Loris ebbe ancora un sorriso.
— Ti piace? mormorò posando una mano sulla spalla di Topine e carezzandolo come un animale: da migliaia d’anni i pari tuoi soffrono tutte le fami.
Sulla faccia di Topine apparve un sogghigno bestiale.
— Mangia, disse Loris spingendolo violentemente su Tatiana.
Allora avvenne una scena orribile. Topine traballando cadde quasi su di lei, e l’abbracciò così che si rovesciarono entrambi sul fieno. Ella si dibatteva furiosamente, quasi soffocata dalla stretta erculea di quell’uomo, che non sapeva ancora tutto quanto voleva, e le pesava addosso con tutto il corpo. Topine le stava sopra alla bocca colla vasta ulcera del lupus, schiacciandole quasi il petto, mentre ella faceva sforzi prodigiosi per scostare la faccia, cercando cogli speroni di ferirgli le gambe.
— Ah! mordi, gridò ad una speronata, che gli ferì il polpaccio. Quindi sollevandola robustamente la conficcò con una mano nel fieno e le calcò un ginocchio sul ventre.
Tatiana rantolò.
Ma al contatto di quel corpo Topine si sentiva infiammare. Un calore spasmodico gli serpeggiava nelle vene e sulla pelle, facendogli come scottare i cenci che la coprivano. Era diventato scarlatto, cogli occhi bianchi pieni di sangue, la bocca aperta famelicamente; una riga di marcia gli colava adagio per la barba. Egli contemplava Tatiana, quasi svenuta sotto la sua mano, sentendo col ginocchio il palpito molle del suo ventre.
Un urlo sordo sfuggì al petto di Topine, che ritirò vivamente la mano dal collo di Tatiana per portarsela sotto la casacca. A quell’atto Loris si sentì come uno schiaffo sul volto. Ma fu un attimo. La mano di Topine era già scomparsa sotto le gonnelle di Tatiana, raspando ferocemente. Ella tentò ancora di sollevarsi, ma Topine più rapido le entrò tutto fra le ginocchia slargandole, e le traboccò sul collo.
La lotta ricominciò più atroce e più pazza. Ella si divincolava cercando di sfuggire sul fieno, egli le aveva messo un gomito sul collo e la soffocava tenendole sempre la mano sotto le sottane, oscillando alle scosse, che ella gli imprimeva, e perdendo spesso l’equilibrio.
Rantolavano. Il cappellino di Tatiana rotolò sul fieno e cadde dall’altro lato con suono sordo; ella si volse macchinalmente a guardarlo. Topine ne profittò per spingersi oltre, ritirando un istante la mano e ricacciandogliela subito dopo sotto il ventre.
Tatiana gettò un urlo insopportabile.
— Loris... Loris!...
Con una suprema convulsione di vergine fece arco della testa sul fieno e, puntando ambo i pugni al volto di Topine, lo respinse.
Loris vide Topine staccarsi dal suo grembo, ove le sottane lo nascondevano a mezzo. Tatiana rimase scoperta fino a mezzo le coscie; i suoi stivali alla scudiera parevano stravaganti in quel momento. Ma Topine le si riavventò addosso mormorando fra i denti, lottarono ancora; Loris intese un’altra volta il proprio nome, poi Topine furibondo scagliò un pugno sulla testa di Tatiana, che gettò un sordo gemito, e sollevandole tutte in pugno le sottane le si distese rabbiosamente sopra.
Ella tremava ancora. La sua testa semisvenuta si muoveva spasmodicamente sul fieno, mentre il petto le si sollevava spaventosamente.
— Ah! le sfuggi in un gridò straziante, cui ne segui un altro selvaggio di Topine, che si squassava su lei.
Loris incontrando lo sguardo agonizzante di Tatiana dovette abbassare il proprio.
Tatiana si senti morire.
Quando rinvenne, si trovò sotto Topine assopito sulla sua faccia; la marcia del lupus le aveva macchiato tutto il mento. Ebbe uno sguardo vago, poi vide Loris colle braccia incrociate, che la contemplava, pallido come un morto.
Allora con un balzo respinse Topine, e cadde dall’altro lato del fieno raggomitolata alle pareti. Si sentiva ferita, sanguinante. Tutto un mondo era crollato dentro di lei; Topine stava rovesciato per terra, laidamente sozzo di sangue e di bava.
Loris volse le spalle a Tatiana afferrando Topine per un braccio.
— Vattene.
L’altro si riassettava istintivamente con una mano, cercando Tatiana collo sguardo.
— Vattene, gli ripetè con voce piena di fremiti Loris, spingendolo verso rimboccatura, e spostandone con un piede il fascio, che l’otturava.
Topine esitava.
Ma Loris si cacciò vivamente la mano in tasca, ne trasse la rivoltella, e a denti stretti gli susurrò:
— Vattene o ti uccido.
Topine uscì.
Loris non si rivolse, voleva dar tempo a Tatiana di rimettersi. Quei minuti gli parvero un secolo. Non poteva più respirare in quella caverna, nè ritrovare il proprio equilibrio; finalmente intendendo un moto di Tatiana si voltò.
Ella aveva già raccolto il cappellino, era disfatta, incredibilmente più bella. Si vedeva che non poteva camminare; una vergogna inconsolabile trapelava dal suo stupore di ammalata.
Loris s’intese prendere alla gola da una pietà quasi egualmente desolata, ma facendo un ultimo sforzo raccolse il proprio cappello bianco a larga tesa, e si avanzò d’un passo.
Temeva quasi di non poter parlare: Tatiana lo guardava intontita, come interrogandolo sul perchè di quell’assassinio con tale tragica incoscienza che Loris indietreggiò.
Perchè aveva egli fatto così?
Allora Loris, che non voleva perdere dopo la vittoria, trovò nella perfidia della propria vanità una suprema ingiuria:
— Ora, principessa, vi sfido a denunziarmi.
Ed uscì.