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egli si era fatto a tutti i rischi e a tutti gli usi; poteva soffrire lungamente la fame, e dormire sulla steppa o nei boschi, mendicare o rubare secondo i compagni del momento.

La terribile empietà della sua prima educazione gli era scoppiata nell’anima, polverizzando la fragile crosta dei sentimenti più civili assorbiti in quella vita al castello. Una sinistra poesia raddoppiava l’energia della sua volontà in quella lotta insensata di un’esistenza, concepita oltre ogni ordine legale; nessuna morale inceppava la logica implacabile del suo pensiero. Attraverso le sofferenze di tutti quegli oppressi, egli non raccoglieva che il grido soffocato della vendetta o il rantolo dell’odio impotente, e quando capitava tra una festa di popolo, quella allegria in tanta abbiezione di miseria gli faceva male.

I suoi compagni, quasi sempre malandrini o mendicanti, non gl’ispiravano che disprezzo; i più vivevano così, perchè preferivano quell’ozio avventuroso alla fatica di una qualunque altra esistenza regolata.

La sua prima compagnia fu una banda di zingari, che traversavano la steppa verso l’Asia; visse a lungo con essi, imparandone il gergo e i mestieri, ma senza innamorarsi di quella loro libertà fraudolenta, che li rende così enigmatici nella storia e seducenti nella poesia. Poi dai pescatori del Volga, l’immenso fiume, apprese a reggere una barca e a frequentare i mercati. Quella