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rude operosità lo stancò presto. Percorse i conventi più celebri, fingendosi pellegrino, iniziandosi a più di una setta religiosa; stette coi cosacchi, guardiano di puledri, guidò le greggie dei pastori, che le contano a migliaia e migliaia.

Come i romei non possedeva che una scodella, una bisaccia e un bastone. I suoi abiti cadevano a lembi, parlava sempre in dialetto colla più aspra volgarità. I suoi capelli e la sua barba, incolti, gli davano un’aria strana e malgrado tutto signorile, che gli attirò spesso l’attenzione pericolosa della polizia: tre o quattro volte fu gettato nelle carceri con altri vagabondi, ma potè sempre uscirne grazie alla prontezza del suo spirito e all’arbitrio capriccioso della polizia stessa. Si serviva di un passaporto rubato nelle più tristi circostanze ad un vagabondo, che gli somigliava. Nei più rigidi inverni si arrestava dove poteva. In un convento, ove i frati lo accolsero ingannati dalla sua devozione e dal racconto fantastico della sua miseria, rimase tre mesi copiando antichi manoscritti greci. Poi fece parte di una banda di ladri da cavalli, che nascondevano i puledri rubati entro una foresta, e da essa li avviavano a mandre verso un altro governo. In questo esercizio pericolosissimo, perchè i mugiks si associano in truppa per dare la caccia ai rapitori, e li uccidono senza pietà ovunque li sorprendono, il suo coraggio e il suo ingegno gli assicurarono presto un’autorità indiscussa sui compagni. Egli rubava