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porta girarono dietro la casa verso un enorme capannone bruno, del quale era impossibile indovinare l’uso. A Loris sembrò che le voci crescessero; poi entrarono per una porticina, al buio, in una specie di andito pieno di un forte odore di terriccio. Adesso non poteva più dubitare, il capannone era pieno di gente ed illuminato; la luce filtrava dalle fessure dell’assito. Più innanzi v’era un uscio a vetri.
— Mettiti lì, gli disse Topine e scomparve.
L’uscio, chiuso dal di dentro e bipartito, aveva nel mezzo di ogni battente un largo vetro tenuemente colorato in rosa.
Quel capannone era un’immensa sala, tutta parata di bianco in mussolina indiana sapientemente panneggiata e frangiata d’argento; la sua vôlta scompariva sotto un tulle candido e cilestro, come un cielo che si vedesse tra nuvole lattee. Egli n’ebbe una grande impressione di soavità, attraverso quel vetro rosa, che toglieva a tutto quel bianco la inevitabile crudezza dei toni opachi. Trenta o quaranta persone, vestite di lunghi accappatoi bianchi, strette nel mezzo a circolo intorno ad una lunga tinozza bianca, posta sopra un tripode acceso, giravano lentamente tenendosi per mano e salmodiando. Le loro teste gittate indietro, così che i colli ne divenivano gonfi violentemente, guardavano al cielo. Un alito leggero di vapore saliva dall’acqua bollente della tinozza, perdendosi nell’aria.