I principii scientifici del divisionismo/I
Questo testo è completo. |
II | ► |
CAPITOLO I
Visione oculare e visione soggettiva.
Infatti se si interpone fra un oggetto qualsiasi ed il nostro occhio una lastra di vetro e su questa si congiungono con delle linee i vari punti di intersecazione dei raggi che l’oggetto invia al nostro occhio, ne avremo delineato la sua esatta figura, come ponendo dei colori identici alle luci ed delle ombre che vediamo sul vetro, negli spazi compresi fra le linee di contorno, avremo riprodotta una immagine che sostituisce perfettamente, pel nostro occhio, l’oggetto vero. L’illusione di realtà destata dall’immagine dipinta non ha dunque altra base positiva che la sua corrispondenza ottica col vero, restando esclusa ogni altra idea di similitudine materiale, della qualità dei colori e dell’artificio che servono per erigere il dipinto.
Per ottenere questa illusione non è necessaria neppure la somiglianza di dimensione delle cose dipinte con quelle reali, come non è indispensabile che l’intensità delle luci e dei colori dipinti corrispondano esattamente alle intensità delle luci e dei colori del vero, ma ciò che occorre perché l’illusione raggiunga il massimo grado è la proporzionalità dei rapporti fra la grandezza degli oggetti raggruppati nel dipinto colle dimensioni rispettive degli oggetti reali riprodotti, quanto la proporzionale graduazione delle luci e dei colori che sì nel vero come nel dipinto competono a ciascun oggetto.
Questi rapporti sui quali poggia l’illusione ottica e dalla cui maggiore corrispondenza col vero prende efficacia l’immagine dipinta son accessibili al nostro occhio, dietro un conveniente esercizio, senza bisogno di procedere a misure per verificare la proporzionalità delle forme, o di repertori cromatici per accertare la proporzionalità dei colori offerti dall’arte, giacché nel fenomeno della visione le impressioni ricevute dalla esteriorità delle cose reali quanto da quelle simulate dalla pittura, passando per l’occhio, determinano su questo eccitamenti forzatamente analoghi, se analoghi sono i rapporti dell’arte con quelli del vero, e quindi analogia di sensi ed azioni intellettuali.
Ovviamente queste affermazioni inducono a considerare dapprima la relazione che passa fra la realtà e le percezioni visive, poiché il comportarsi proprio del nostro occhio dotato di un sistema nervoso, e nelle sue parti assomigliante ad un sistema lenticolare, costituito pur sempre di sostanze organiche che non hanno tutta la omogenea trasparenza delle lenti vitree, debba funzionare altrimenti che qualsiasi istrumento ottico preso come termine di confronto, o di sussidio istruttivo, per l’analisi del meccanismo della visione. A schiarire il quale, dal lato riguardante i colori, che è l’argomento diretto che impernia il presente studio, gioverà un rapido cenno sulla percezione delle forme, almeno nelle loro principali dimensioni: altezza, larghezza e profondità.
La percezione del rilievo, conseguenza delle enunciate dimensioni, è subordinata alla condizione di una distanza sufficente (circolo visuale) fra gli occhi dell’osservatore e gli oggetti riguardati, ed al concorso delle due immagini retiniche differenti che risultano dalla posizione diversa degli assi visuali, separati, come tutti sanno benissimo, dallo spazio che divide l’un occhio nostro dall’altro.
Raramente la situazione dei corpi compresi nel circolo visuale è tale da non presentare scorci od i corpi stessi non avere in sé parti minori che mostrino degli scorci, come avverrebbe di edifizi od altri oggetti di forme simmetriche posti sullo stesso piano in direzione normale agli assi visuali e veduti in grande distanza; casi nei quali, producendosi due immagini retiniche identiche, perché gli assi visuali sono paralleli, cessa la possibilità del giudizio sulla terza dimensione o profondità, come ci accade per le lontane catene di montagne o per una vicina ed estesa mu raglia, tutto ciò infine che all’occhio nostro si presenta per un solo piano o per una sola linea di contorno.
In condizioni normali di veduta del vero, per l’impicciolimento prospettico delle cose lontane, il nostro sguardo abbraccia un complesso di oggetti la cui posizione alterando il parallelismo degli assi visuali dà luogo a due immagini retiniche diverse l’una dall’altra, dotate più o meno di scorci che possiamo aumentare coi movimenti della testa o col trasporto della persona da destra a sinistra. È necessario insomma che gli assi visuali spostandosi dalla posizione parallela che li rende inetti a giudicare della profondità assumano un’inclinazione, che estendendosi fra i limiti della maggiore divergenza e della massima convergenza loro concessa dai muscoli motori del globo dell’occhio, risveglino in noi l’idea di distanza o profondità congiunta a tali inclinazioni per l’esercizio incosciente fattosi in noi di associare l’idea delle stesse distanze o profondità ad ogni consimile inclinazione degli assi visuali.
In difetto di questo sussidio, che cessa quando gli oggetti osservati sono a grande distanza, perché le inclinazioni degli assi visuali non hanno campo di manifestarsi, l’idea di rilievo allora non dipende più che da un apprezzamento tutt’affatto mentale, basato su ricordi di effetti di colori o di chiaro scuro che ci sembrano corrispondere ai piani che fissano la nostra attenzione, o relativo se l’idea di altezza, larghezza e profondità si viene formando dal rapporto che riteniamo esistere fra l’oggetto di dimensioni ignoti e la prossimità di un oggetto conosciuto. Così, ad esempio: la piccolezza apparente di una casa vista in distanza non modifica l’idea di dimensione che abbiamo di una casa comune, vedendola noi appunto, anche in lontananza, mantenere il rapporto che ha cogli oggetti più prossimi quando l’osserviamo davvicino; e di una casa perciò possiamo servirci per intuire il piano diverso sul quale è posto un campanile, perché conosciamo i rapporti usuali che passano fra questi differenti edifici, onde dall’altezza dell’uno rispetto all’altro siamo accertati che non possono essere in realtà collocati sullo stesso piano, l’estrema picciolezza del campanile rispetto alla casa non potendosi associare nel nostro spirito che con una idea di maggiore lontananza, ed una certa altezza con quella di una prossimità relativa, d’onde evidentemente l’impressione del rilievo.
Da quanto si è detto emerge che un organo visivo anatomicamente perfetto e fisiologicamente dotato della più squisita sensibilità non completa la visione normale, che ancora dipende da una qualità estranea all’occhio, la memoria, funzione tutt’affatto intellettiva, bastante di per sé a modificare le impressioni del reale da individuo a individuo, ma che in ogni modo, ammettendo pure che agisca in guisa simile per tutti, è più o meno attiva secondo determinati stati d’animo. Spiegandosi così il carattere speciale che il lavoro pittorico invariabilmente assume quando deriva dall’artista ricercatore non delle forme inespressive ma di quelle che meglio inducono alla emozione; spiegandosi pure perché il disegno artistico non corrisponda al meccanico lavoro di copia dell’istrumento passivo cui manca, per conseguenza, la facoltà di raggiungere la verità dell’arte.
La facilità colla quale il nostro giudizio può essere tratto in errore dalla osservazione superficiale delle forme, dalle condizioni particolari nelle quali le forme possono presentarsi al nostro sguardo e l’attenzione incessante che occorre per afferrare i rapporti fra oggetti ed oggetti perché dalla veduta delle cose non venga un apprezzamento erroneo e non rimanga un ricordo inesatto, cagione di continui errori di giudizio e sul vero e sull’arte, possono essere adombrate da qualcuna di quelle dimostrazioni grafiche che a tutta prima possono sembrare giuochi artifiziosi per trarre in inganno, mentre non sono che frutto di investigazione più acuta del mondo esteriore e del suo modo di riflettersi per via dei sensi nell’intelletto.
La regolarità di un quadrato, per esempio, può sembrare alterata in vario senso dalla semplice inscrizione di linee orizzontali o verticali, come si vede nella fig. 1, nella quale i due quadrati, quantunque eguali, l’uno sembra più largo e l’altro più alto.
Un inganno simile avviene per l’influsso che la direzione di tratti paralleli può esercitare su linee pure parallele.
Nella fig. 2 è visibilissimo il convergere od il divergere apparente di linee, che sono esattamente parallele, per causa delle diverse inclinazioni dei piccoli tratti posti su ciascuna coppia di linee.
Così notevole ancora è la differenza di grandezza dei due settori A B della fig. 3, che mai più si direbbero eguali, come effettivamente sono, e si prova misurandoli: quello a destra sembrando assai più grande di quello a sinistra, e ciò pel contrasto del piccolo arco del settore A posto così vicino al grande arco del settore B.
Da queste illusioni ed altre più o meno curiose che si mostrano sparse nei trattati di ottica si arguisce che in generale il giudizio sulle forme dipende da un atto psichico molto complesso, nel quale partecipa l’occhio più col sistema nervoso che non per l’apparato diottrico: d’onde le illusioni che possono talvolta far credere ad una vera imperfezione fisica dell’occhio stesso.
Ma la sensazione della distanza, ossia del rilievo, che è data anzitutto dalle due immagini diverse che si formano negli occhi, specialmente per gli oggetti vicini, richiede qualche esame.
Leonardo da Vinci dette per il primo la spiegazione del perché l ’ immagine dipinta dal pittore non possa spiccare in modo eguale a quella del vero, salvo che questo si osservi con un occhio solo, preannunciando le stesse leggi sulle quali Wheastone costrusse lo stereoscopio, il noto strumento ottico dimostrativo del congegno della visione bioculare. Però finché dalla spiegazione del Vinci e dagli esempi positivi dello stereoscopio si deduce che l’immagine un occhio solo, simile per ciò a quella che si forma nella camera chiara o in una macchina del vero osservata con fotografica, il principio che questa immagine se abbraccia oggetti entro limitato raggio non corrisponde alla visione bioculare è esatto, ma non altrettanto giusto sarebbe trarne la conseguenza che l’immagine ricavata dal pittore perché unica non può sostituire la risultante dell’incrocio delle due immagini retiniche, giacché il pittore non copia guardando con un occhio solo ma fa ogni sforzo per utilizzare tutti e due i suoi occhi ad un tempo per afferrare appunto questa terza immagine che si forma in noi senza incertezza o duplicità di sorta ed è in sè tanto differente da quella che si scorgerebbe chiudendo l’uno o l’altro occhio.
Il problema del rappresentare il contorno dei corpi secondo l’impressione che ci producono non è certamente risolto neanche dalla prospettiva, come non lo può risolvere nessun metodo che non tenga calcolo delle condizioni fisiologiche che accompagnano la visione. Il cattivo effetto ed anche l’opposto effetto che si otterrebbe tentando di rappresentare certe forme vicine, sebbene comprese nell’angolo visuale, anche considerandole come vedute da un occhio solo, cioè secondo le regole prospettiche, si dimostra facilmente ponendo avanti a sé, ad esempio, un libro chiuso di piccola mole, diritto, e in modo da vederne il dorso.
In tale posizione si vede coll’occhio sinistro lo scorcio del cartone di sinistra e coll’occhio destro lo scorcio del cartone di destra. Volendo disegnare il libro quale si presenta, le linee fuggenti superiori ed inferiori dei due cartoni evidentemente divergerebbero dalla mezzaria del disegno a due punti uno a destra e l’altro a sinistra sull’orizzonte in modo che il libro anziché parere chiuso sembrerebbe aperto, come risulta chiaramente dalla fig. 4.
Nemmeno rappresentando questo libro col seguire le regole prospettiche, cioè disegnandone i contorni come li potremo vedere osservandolo o per il solo occhio destro o per il solo occhio sinistro, giungeremmo in questo caso speciale a dare l’idea del libro come effettivamente lo vediamo, perché tracciando su di una superficie piana le linee scorte dall’occhio sinistro, avremo il disegno corrispondente alla figura 5;
nel quale libro sembra tutto inclinato verso il lato sinistro, e tracciando i contorni che vediamo coll’occhio destro avremo il disegno che corrisponde alla fig. 6; Fig. 6. vale a dire il libro che figura tutto volto dal lato destro, mentre si è già detto, essere disposto normalmente al riguardante, senza inclinazione di sorta nè a destra nè a sinistra.
Si accerta in modo facile come siano due le immagini che riceviamo dagli occhi, e l’una sia molto differente dall’altra, per mezzo del traguardo, o più semplicemente stando dietro un vetro di una finestra e cercando con tutti e due gli occhi aperti di delineare sul vetro il contorno degli oggetti che si vedono al di là. In tale condizione dello sguardo non si sa, specialmente per gli oggetti più vicini, come incominciare il segno che poi non si veda essere la traccia di uno solo degli occhi, e chiudendo finalmente l’un occhio e segnando sul vetro la linea del contorno visibile allora senza incertezze di sorta, poi chiudendo l’altro e seguendone pure il nuovo andamento, si finirà per aver fatto sul vetro due disegni oltrechè diversi, separati l’uno dall’altro in maniera quasi incredibile per gli oggetti vicini; conferma irrefutabile della differenza delle immagini percepite contemporaneamente da ciascuno dei nostri occhi per ogni sguardo e indice nello stesso tempo di quali movimenti impercettibili sia dotato il nostro occhio per procedere in un istante solo alla percezione complessiva del rilievo di tutto lo spazio abbracciato dal circolo visuale. Perchè in noi l’atto della visione, e ciò indubbiamente per l’esercizio, diventa istantaneo, come ne abbiamo prova chiudendo gli occhi poi aprendoli improvvisamente per richiuderli subito, che per quanto sia rapido tale movimento delle palpebre noi avremo già scorto la scena esterna ed infinite accidentalità del rilievo e delle forme che vi sono incluse.
Dalla possibilità di tracciare, guardando con un occhio solo, l’esatto contorno dei corpi, discende come è noto la prospettiva, la quale, come la visione per un occhio solo, permette di godere di un certo effetto di rilievo, ma non certamente quale viene dato dalle due immagini retiniche sovrapposte che costituiscono il nostro modo di vedere le cose esterne; e che l’immagine unica non sia così viva come il prodotto della visione bioculare è appunto dimostrato dallo stereoscopio, mezzo di riproduzione che si deve ritenere molto conforme al congegno di percezione che avviene nel nostro cervello se gli effetti si possono dire identici.
Lo stereoscopio è un istrumento tanto semplice che permette una dimostrazione grafica altrettanto semplice. Esso è composto di due mezze lenti biconvesse, che servono per ingrandire e nello stesso tempo spostare le immagini trasmesse sino a sovrapporle, applicate ad una delle pareti di una cassetta rettangolare, divisa in modo che l’occhio destro non invada il campo di visione dell’occhio sinistro. Nella parete dicontro alle due lenti, vi è l’incastro per ricevere le due immagini retiniche condotte secondo sono vedute l’una dall’occhio destro, l’altra dall’occhio sinistro (fig. 7).
Sia ad esempio, l’oggetto da esaminare una piramide rettangolare tronca e le immagini A e B le prospettive dedotte dall’occhio destro e dal sinistro; i punti L e L’ le due lenti Fig. 7. ed O ed O’ gli occhi che osservano nello stereoscopio. Per l’incrocio prodotto dalle lenti le due basi della piramide perfettamente eguali si sovrappongono in g con una inclina zione molto minore degli assi visuali che non per le due parti tronche, che non concordando sul centro della base richiederanno, per essere visibili in r come un’immagine sola, una inclinazione molto maggiore dei detti assi. Ma, come si è già detto, corrispondendo per una forte convergenza degli assi dell’occhio una vicinanza maggiore degli oggetti, il quadrato r verrà a figurare in avanti di g, e quindi a parere rilevato. Condizione questa che non si verifica se si pone nel posto delle due immagini prospettiche quella duplicata di un dipinto della stessa piramide tronca (fig. 8) P P’, la quale presentando tutti i suoi punti e linee simmetrici sotto lo stesso angolo ci darà la perfetta sovrapposizione delle due immagini, cioè, nel punto I d’incrocio, una terza riproduzione del dipinto collo stesso senso di piatto che avrà il dipinto, giacché non ne siano, l’una e l’altra immagine, che la riproduzione esatta.
Quando noi presentiamo ai nostri occhi un’immagine unica come quella di un dipinto non facciamo che sottoporre alle nostre facoltà visive degli elementi di illusione Fig. 8.
o di risveglio per la sola memoria, una forma d’immagine simile a quella che si forma nel nostro occhio oltre quella distanza nella quale funzionano le due immagini retini che, nulla cioè per la percezione del rilievo secondo il processo della visione bioculare, giacché le due immagini precise che si formano nei due occhi che guardano lo stesso dipinto non provocano nessuna delle contrazioni muscolari cui seguono corrispondenti inclinazioni degli assi visuali che sono necessarie nella visione del vero per sovrapporre debbano immagini dissimili. Cosicché mancando la causa perché gli uscire dallo stato d’inerzia che li rende inadatti al senso del rilievo, non rimane per l’illusione se non quanto è dovuto di effetto all'illusione prospettica se nel dipinto vi sono linee convergenti ai punti di vista e di distanza, il resto dipendendo da quello che può avere raggiunto il pittore dalla più o meno indovinata prospettiva aerea. Essenzialmente poi manca sempre al dipinto quel soccorso di conferma di rilievo che nel vero ci è dato di procurarci appena che si sposti la persona o l’occhio a destra od a sinistra, moti che nel vero sono seguiti da uno spostamento apparente degli oggetti più lontani rispetto a quelli più vicini, ciò che non può avvenire guardando il dipinto, davanti al quale per quanto ci moviamo a destra od a sinistra tutto rimane allo stesso posto.
Ogni volta che si penetri nella essenza delle cose reali e si confrontino col prodotto dell’arte non può che risultarne un accertamento immediato della diversità di essere delle immagini dell’arte da quella delle cose reali.
Se il rilievo di un dipinto non può corrispondere a quello del vero perché le immagini occorrenti per produrlo uguale sono due, anche per la forma si potrà sempre obbiettare che quella costretta su di una superficie piana non potrà mai rispondere a quella dell’oggetto reale, perché nel vero esiste la materialità delle linee sfuggenti e la sostanzialità diversa di ogni parte da cui nasce la loro forma e la varietà stessa che presentano. Così è pel colorito e tutti gli effetti luminosi, d’onde un argomento ancora di conferma che l’impressione soggettiva non può venire dall’arte per la somma delle analogie effettive che nell’opera d’arte si possono riscontrare col vero, ma esclusivamente dipende dal l’accentuazione di quei rapporti fra gli aspetti delle cose reali che si sono stabiliti in noi, dopo la comunicazione fattaci dall’apparato visivo e che fedelmente tradotti dall’arte trasfondono le stesse impressioni.
Per ciò, quando nel dipinto manca il rilievo o la forma od il colore, non si deve imputare questo difetto ai mezzi materiali dell’arte, ma alla mancata intelligenza del congegno per cui questi mezzi diventano efficenti di sensazioni, di rilievo, di forma, di colore, di luce, talché se l’artista preoccupato in modo singolare di dare rilievo alle sue immagini pittoriche non vi perviene, l’attribuire tale insuccesso alla visione bioculare ed alle due immagini retiniche è perfettamente erroneo dal punto di veduta dell’arte, quanto sarebbe erroneo affermare che il pittore non potrà mai raggiungere potenti impressioni di forma, di colore e di luce, perché la tela è una superfice piana e perché egli ha sulla tavolozza dei colori materiali.
Se così non fosse, se lo scopo dell’arte non dovesse essere che quello di ricercare nelle proprietà dell’occhio e della tavolozza altro che i mezzi per giungere alla imitazione delle cose reali per ciò che sono in loro stesse o per il senso che destano dipendentemente dalla loro costituzione materiale e dal modo di esistere effettivo nel vero, l’artista potrebbe deporre il pennello ed averlo deposto già sin da quando si costruì la camera oscura, lo stereoscopio e la macchina fotografica, preparandosi anche a disperare di potere mai uguagliare gli effetti di colori che si potranno riprodurre un qualche giorno dai mezzi scientifici indirizzati a tale fine.
Da tutte queste considerazioni risulta chiaramente che l’arte è soltanto quella che procede alla imitazione delle cose naturali con mezzi che le sono propri e lontani da ogni condizione effettiva delle cose reali, conseguendone, che se il pittore potesse connestare due immagini in una sola, andrebbe piuttosto verso la contraffazione del vero che non alla impressione di verità che è scopo dell’arte ed unica mira dell’artista, in quanto che, se per ottenere il rilievo, come si riproduce in noi, occorrono due immagini, anche per dare realità vera ad una stoffa, ad un sasso, ad un oggetto qualsivoglia, non basterebbero ancora due immagini dipinte, che si dovrebbe ricorrere a tessuti, pietre ed oggetti esistenti nelle stesse condizioni di quelli che si vogliono copiare, non potendo essere eguali che cose eguali. Quindi l’inutilità per non dire l’errore di simili preoccupazioni dal punto di vista dell’arte di dipingere, la quale non può tenere in considerazione altri sussidi che non siano consentanei alla superfice piana, unico suo campo d’operazione, ed i colori che sono i soli mezzi materiali dai quali il pittore deve ricavare tutte le apparenze più significative del mondo esteriore che si è prefisso di imitare.
Contrasti se non simili certamente molto analoghi, fra la realtà e l’impressione, si ritraggono dall’esaminare il meccanismo della percezione del colore, come quello delle forme dipendente dall’accomunarsi quasi sempre gli effetti rispettivamente dovuti al sistema ottico ed a quello nervoso dell’occhio. Soltanto che l’esplicazione di tale congegno esige ben più largo studio della conformazione dell’apparato visivo nella sua struttura anatomica, sebbene non ancora conosciuta in tutte le sue parti ed in alcuna delle sue funzioni più importanti, quanto dei fenomeni luminosi che sono dovuti alle proprietà speciali dell’energia raggiante e di quelli che si determinano nel nostro sensorio pel tramite singolare della retina e dei nervi ottici.
*
* *
L’organo della vista, come è noto, è essenzialmente costituito da un duplice sistema diottrico disposto orizzontalmente nel centro delle orbite, trattenutovi da legami fibrosi
(fig. 9) che gli impediscono ogni movimento di locomozione ma che gli permettono di girare liberamente intorno
ai suoi assi.
La parte fondamentale dell’apparato visivo è il globo dell’occhio: corpo di forma sferoide irregolare e cava, costituito nelle parti spettanti alle proprietà ottiche da un involucro esterno di tre membrane, che secondo l’ordine della loro sovrapposizione sono: 1° la sclerotica e la cornea; 2° la coroidea e l’iride; 3° la retina; e dalla cavità interna riempita completamente da tre liquidi contenuti in rispettive capsule, che sono l’umore acqueo, il cristallino e l’umore vitreo.
La sclerotica è la più esterna, la più grossa e la più resistente delle membrane del globo dell’occhio e serve anche a dare attacco a tutti i muscoli motori dell’occhio. Sul davanti in corrispondenza dell’iride è sostituita da altra membrana trasparente detta cornea, e all’indietro è forata pel passaggio del nervo ottico. La sclerotica, che gli antichi dicevano cornea opaca, è bianco-azzurra nei bambini, ma ingiallisce coll’età. Nell’interno è notevole il suo colore scuro, meno accentuato verso la cornea o porzione trasparente che completa all’esterno l’involucro del globo dell’occhio.
La cornea ha l’aspetto di un segmento di sfera colla parte convessa volta all’esterno. È di un tessuto fibroso perfettamente trasparente nell’adulto, ma che nei vecchi diventa opaco e forma un anello bianco al confine della sclerotica, detto cerchio o anello senile. Aderente internamente alla sclerotica segue la membrana coroidea, perforata pure alla parte anteriore per l’inserzione dell’iride, in corrispondenza della cornea, e posteriormente per dar passaggio al nervo ottico. L’orificio anteriore della coroidea è fornito di un legamento o corpo cigliare che abbraccia il cristallino a guisa di calice e serve colle proprie contrazioni a modificarne il grado di sfericità.
Internamente la coroidea si presenta quasi nera per una pigmentazione che varia nelle diverse età: più scura nei bambini, color tabacco dai 30 ai 40 anni, e bruno chiara nei vecchi.
L’iride, continuazione esterna della coroidea, è un sepimento membranoso, circolare, contrattile, forato nel centro dall’apertura che dicesi pupilla. Presenta una colorazione di consueto corrispondente con quella dei capelli e delle sopracciglie, cioè bruna ed oscura nei negri, bruna negli individui dai capelli neri o castagni oscuri, cilestre nei biondi e rossa negli albini. I suoi movimenti di contrazione, che allargano o restringono la pupilla, sono dovuti a fibre raggiate, distese quando la pupilla è ristretta (fig. 10), ripiegate in due o tre punti, che formano due o tre cerchi di increspature, quando la pupilla è allargata (fig. 11).
Fig. 10. | Fig. 11. |
L’iride per questa sua mobilità funziona come i diaframmi negli strumenti ottici, servendo oltre che a moderare la quantità di luce che entra nell’occhio, anche a correggere le aberrazioni di sfericità coll’impedire che i raggi luminosi attraversino i lembi del cristallino.
La retina è la terza tonaca interna del globo dell’occhio. Essa è formata da un’espansione del nervo ottico, che non si estende però oltre una certa zona della superfice interna della membrana coroidea, assumendo così la forma di un segmento di sfera dai margini frastagliati, e colla parte concava volta verso la pupilla. Su questa superfice che ricopre il corpo vitreo, pure restando indipendente, si stende quel meraviglioso strato di nervi che ha il privilegio di farci conoscere la forma, il colore, il volume, la posizione, lo stato di moto o di quiete di tutti i corpi che sono attorno di noi. È una lamella sottilissima, delicata e trasparente: composta di una quantità innumerevole di piccoli cilindri sei o sette volte più larghi che lunghi, tutti paralleli e diretti verticalmente, detti bastoncini, e fra essi qua e là seminati altri corpi meno lunghi e d’aspetto piriforme, detti coni, che non differiscono dai bastoncini che per la forma e la dimensione.
Questi bastoncini e coni sono più numerosi in un punto assai prossimo al nervo ottico, dove scorgesi una macchia gialla ovale diretta trasversalmente, riconosciuta come la regione più sensibile della retina e per essere alquanto depressa detta fovea centralis.
Sulla retina si nota ancora il punto d’inserzione del nervo ottico perchè privo di sensibilità pei raggi luminosi e perciò detto punto cieco od anche punto di Mariotte, dal fisico che sperimentalmente dimostrò l’esistenza dell’insensibilità di questa piccola plaga della retina. Segnando infatti due punti neri distanti pochi centimetri l’uno dall’altro (fig. 12) Fig. 12. sopra di un foglio di carta bianca, se si guardano dapprima molto davvicino coll’occhio sinistro chiuso e il destro che fissi il punto a sinistra, il che si può fare senza che sia impedito di vedere anche l’altro punto, allontanandosi allora gradatamente dal foglio si trova una posizione nella quale l’uno dei punti scompare completamente; e questo avviene nel momento in cui l’immagine formatasi entro l’occhio tocca l’inserzione del nervo ottico nella retina.
Nell’interno del globo dell’occhio le tre capsule contenenti i liquidi, o mezzi rifrangenti dell’occhio, si succedono coll’ordine progressivo del volume liquido: l’umore acqueo che occupa le due camere dell’occhio segnate in a della fig. 13, il cristallino b e l’umore vitreo c.
La capsula contenente l’umore acqueo è accertata solo nella parte che segue la superfice interna della cornea, ed il liquido è incoloro, limpido e fluido, rinnovandovisi a quanto pare continuamente.
Il cristallino si compone di due parti: la capsula che involge il liquido ed il cristallino propriamente detto che è l’umore contenuto nella capsula. Il cristallino forma una lente biconvessa posta verticalmente fra l’umore acqueo ed il corpo vitreo, nel quale si innicchia in modo che il corpo vitreo risulta una lente concavo-convessa. La capsula è di un tessuto perfettamente trasparente, ma nel liquido cristallino sono da notarsi le fibre che danno origine a delle lamine di figura triangolare colla base corrispondente alla periferia e l’apice al centro, per le quali la lente cristallina viene divisa in tre segmenti nel bambino e in 6-8 e sino a 12 nell’adulto. Questi segmenti hanno la fibra centrale che si dirige in linea retta all’estremo dell’asse minore del cristallino, ma le altre a destra e sinistra della fibra media sono più corte e sembrano inflettersi e perdersi nella linea di separazione di un segmento dall’altro (fig. 14).
Il corpo vitreo è il più voluminoso dei mezzi rifrangenti dell’occhio, occupando i due terzi posteriori della cavità del globo dell’occhio. Di forma sferica irregolare, compresso fortemente per fare posto al cristallino nella sua parte anteriore ed appoggiato alla retina posteriormente, prende l’aspetto generale di una lente concavo-convessa.
Le parti essenziali del corpo vitreo sono la membrana o capsula che lo involge, detta membrana gialloidea, e l’umore rinchiuso o umor vitreo.
La membrana gialloidea, di una trasparenza perfetta, è così sottile che molti anatomici ne negarono l’esistenza o dubitarono che esistesse. Essa è tersa all’esterno come un vetro e nell’interno mostra una quantità di prolungamenti che partono dalla periferia muovendo verso il centro in modo irregolare e formano una rete che circoscrive aureole d’ogni dimensione.
L’umor vitreo è un liquido pure di trasparenza perfetta, di consistenza sciropposa finchè è contenuto nella membrana gialloidea, ma che, estratto, si mostra scorrevole a somiglianza dell’acqua.
Il corpo vitreo è tenuto saldo nella sua normale posizione dal legamento, o corpo cigliare, che lo abbraccia per certa zona avvincendolo al cristallino ed alla membrana coroidea. A questo legame si attribuisce una proprietà contrattile che dovrebbe servire a modificare la curva del cristallino per l’accomodamento dell’occhio alla visione distinta, ciò che non esclude il concorso ed il probabile predominio dei muscoli motori del globo dell’occhio già detto.
I tre liquidi descritti, per la forma delle capsule in cui sono contenuti, vengono a funzionare come un sistema di lenti convergenti applicato ad una camera oscura, che tale si può considerare la cavità interna del globo dell’occhio tappezzata in nero dalla membrana coroidea: la pupilla ne è l’apertura d’accesso ai raggi luminosi ed ha l’iride come diaframma moderatore, mentre il cristallino agisce come obbiettivo e la retina come schermo di ricevimento dell’immagine degli oggetti esterni.
Si dimostra che l’occhio risponde teoricamente e sperimentalmente ad un istrumento ottico di lenti convergenti e che le immagini vi si riproducono sulla retina a guisa della camera oscura col cosidetto occhio ridotto, semplificazione derivata dal conoscersi l’indice di rifrazione dell’umore acqueo, del cristallino e dell’umore vitreo, il centro di curvatura della cornea e delle due superfice curve del cristallino e la distanza del centro dell’occhio dalla retina. Sia infatti A B, fig. 15, un oggetto esterno, il cui raggio luminoso che parte dal centro o posto sulla direzione dell’asse visuale non subisce deviazione veruna.
Ma il punto A convergerà il suo foco coniugato cadendo sulla retina in a allo stesso modo che il punto B troverà il suo corrispondente in b, riescendo così l’oggetto capovolto come sono capovolte tutte le immagini che si formano sullo schermo della camera Oscura.
Né che altrimenti avvenga nell’occhio si accerta in un occhio di bue, posto su conveniente supporto emisferico, e forato nella parte superiore degli integumenti esterni per potervi guardare dentro. Osservando l’immagine che si forma sulla retina di quest’occhio pei raggi mandativi da qualche oggetto esterno, attraverso la pupilla, l’oggetto si vede riprodotto capovolto. Altrettanto deve accadere nell’occhio vivo. Però sul come l’arrovesciamento delle immagini sull’occhio ci passi inavvertito è diviso il parere dei fisici e dei fisiologi, chi ammettendo che l’abitudine ci faccia vedere gli oggetti diritti, altri ritenendo che noi riferiamo gli oggetti alla direzione dei raggi ricevuti e quindi gli oggetti sembrino diritti: ma il problema non pare risolto soddisfacentemente, sebbene la versione dell’abitudine e della mancanza di un raffronto abbia maggior credito.
Dalla descrizione fatta dell’occhio sembrerebbe che la distanza della retina dal centro dell’occhio fosse immutabile, ma una posizione fissa di quest’organo non risponderebbe alle condizioni necessarie per ricevere nella macchia gialla tutte le immagini proiettate entro l’occhio dai corpi esterni nella varietà infinita delle loro distanze. La visione distinta non avviene tanto se la convergenza dei raggi luminosi accade al di là della retina quanto più avanti ed inoltre occorre che l’immagine abbia una sufficiente estensione la cui ultima misura si ritiene il diametro dei coni valutata all’incirca 0,005 mm. Perché dunque avvenga l’immagine distinta fa d’uopo che la curvatura delle lenti dell’occhio si possa modificare in modo da stabilire, secondo la distanza dell’oggetto guardato, la convergenza necessaria perché i raggi abbiano da cadere sulla retina. Ed una delle proprietà distintive dell’occhio da qualsiasi strumento ottico è la convergenza delle immagini sulla retina qualunque sia la distanza cui sono posti gli oggetti che noi guardiamo; proprietà dovuta alla elasticità delle capsule contenenti l’umore acqueo ed il cristallino quanto degli involucri esterni del bulbo dell’occhio, sul quale si attaccano i muscoli retti ed obbliqui del sistema muscolare adatto ai movimenti dell’occhio stesso. Per la trazione simultanea dei quattro muscoli retti si aumenta la convessità della cornea, mentre l’azione separata di ciaschedun paio di muscoli si svolge in una depressione parziale.
Il movimento di questi muscoli, che passa inavvertito come inavvertita è la contrazione dell’iride, non giunge però a modificare le curve proprie di ciascun occhio quando siano per natura troppo piatte o troppo elittiche come succede nei presbiti e nei miopi, talché a condurre le immagini proiettate da questi occhi difettosi al di là della retina o che non la raggiungono necessita l’uso di lenti opportune.
Per le aberrazioni di sfericità (quella deformazione o incertezza d’immagini che si formano sui margini delle lenti molto convesse o molto concave) che sarebbero notevoli nell’occhio stante la curva rilevante delle facce del cristallino, provvede l’iride col coprirne i lembi, impedendo così il penetrare dei raggi sui margini. Però in alcuni occhi la superficie della cornea e del cristallino, allontanandosi dalla forma di porzioni di sfera e dalla simmetria sull’asse comune, tolgono parzialmente la visione distinta per certe direzioni.
Questo difetto, che si dice astigmatismo, è variabilissimo da individuo ad individuo, variabile anche per ciascun occhio e forse comune a tutti perché insito con la irregolare curvatura del globo dell’occhio e delle capsule dell’umore acqueo, del cristallino e dell’umor vitreo; ma si può correggere per mezzo di lenti apposite, che compensino con curvature diverse, nei diversi meridiani, i difetti delle curve del cristallino.
Per verificare se vi ha difetto di accomodamento alla visione distinta nel proprio occhio si traccia col compasso una serie di cerchi concentrici ed equidistanti, come nella fig. 16, ed osservandoli con un occhio solo, od anche con tutti e due ad un tempo, si noteranno dei settori come oscurati da una tinta diffusa ed altri perfettamente nitidi.
La posizione dei settori confusi indica i punti di curvatura difettosa del cristallino, pei quali l’immagine non ha campo di formarsi con precisione sulla retina.
A complemento di dimostrazione della delicatezza estrema del congegno dell’occhio nella semplice trasmissione della direzione dei raggi luminosi si deve pure accennare alla diplopia, che è il raddoppiamento degli oggetti o piuttosto la sovrapposizione imperfetta di due immagini retiniche una meno visibile dell’altra, che si può artificiosamente procurare premendo con un dito lateralmente uno degli occhi, ma che nei casi del difetto organico di cui si tratta dipende dalla conformazione del cristallino, quella irregolarità di superficie sferica che è nella natura stessa dei mezzi rifrangenti dell’occhio e segnatamente del cristallino, che, secondo Sturm, non si può considerare in nessun modo come una lente sferica ordinaria.
Un organo così complesso come è l’occhio è ben lontano dal poter funzionare a somiglianza di cristalli fissi in cerniere metalliche e mossi per manovelle e viti. Ma assai più malagevole riesce il penetrare nel più complicato laberinto delle sensazioni che l’occhio ci trasmette dopo che i raggi luminosi, attraversato l’ordine dei mezzi rifrangenti, vengono a toccare colla retina il sistema nervoso.
La descrizione anatomica e la topografia dei nervi ottici a nulla servono per dare un’idea del meccanismo mediante il quale l’occhio percepisce la varietà dei colori. Dei nervi ottici non è nota che la singolarissima proprietà di essere atti soltanto alla trasmissione delle impressioni luminose, essendo inerti per ogni altro ufficio. Infatti i nervi ottici possono venire, sull’essere vivente, compressi, cauterizzati, tagliati, distrutti, senza dar luogo ad alcun senso di dolore, le irritazioni meccaniche traducendosi esclusivamente in soggettive sensazioni luminose.
Queste sensazioni, che la luce ha la virtù di destare e coordinare secondo leggi costanti, dettero origine a teorie che non essendo contradette dai fatti servono di soddisfacente spiegazione aiutando alle deduzioni pratiche che importa ricavare all’artista, non certamente per la critica delle teorie, ma per l’importanza dei fatti stessi raggruppati dai teorici, e di una utilità decisiva, per quanto si riferisce alla luce ed ai colori, sia alla intelligenza del vero che a. distinguere le impressioni soggettive per le quali gli si aprono le vie dell’arte.*
* *
La luce che proviene direttamente dalle sorgenti luminose o ripercossa dagli oggetti che incontra lungo il suo tragitto penetra nel nostro occhio, vi eccita la retina e determina la visione.
Questa causa esterna per la quale i nervi ottici si di mostrano così sensibili ed alla quale dobbiamo la rivelazione del mondo esterno non è conosciuta che per le ipotesi fatte intorno alla sua natura e principalmente da Newton ed Huyghens, concordi nell'ammettere l’intervento di un agente speciale perché la visione degli oggetti ci possa essere comunicata anche attraverso il vuoto, ma fondamentalmente differenti nella concezione del mezzo di propagazione nello spazio ed al nostro organo visivo.
Secondo Newton la luce non sarebbe che la emissione di una infinità di atomi lanciati in tutte le direzioni, in linea retta e con una velocità grandissima dalla sorgente luminosa; e per la diversa grandezza di quelle minuscole particelle luminose si sarebbero destate nell’occhio le diverse sensazioni dei colori: ipotesi, come si sa definitivamente sostituita presso gli scienziati dalla teoria dell’ondulazione di Huyghens, che fa consistere la luce in rapidissime vibrazioni delle molecole della sorgente luminosa che si propagano con estrema velocità all’etere (materia imponderabile che occupa tutto lo spazio esistente), vibrazioni che l’etere trasmette alla retina eccitandovi le sensazioni della luce e dei colori.
Della mobilità della luce, che percorré 300 milioni di metri al minuto secondo, l’occhio non è stimolato che dalle vibrazioni che stanno fra gli 800 ed i 400 bilioni al minuto secondo; e si è potuto misurare anche la lunghezza delle onde luminose, nell’aria di 76 milionesimi di centimetro per il rosso e di 38 milionesimi per il violetto. Fra questi limiti, che non suggeriscono alcun’idea concreta di spazio e tempo al nostro spirito all’infuori che di una vertiginosa rapidità di moti ed incommensurabilità di dimensioni, oscillano i movimenti dell’etere, cagione dei colori intermedi fra il rosso ed il violetto, cioè l’aranciato, il giallo, il verde, l’azzurro e l’indaco; la luce bianca risultando dalla promiscuità di onde di tutte le lunghezze atte ad eccitare l’occhio.
Spiegato come la luce agisca sulla retina bisognava ancora conciliare il modo di eccitazione esteriore colla natura propria del sistema nervoso, perché la struttura apparentemente uniforme dei nervi ottici, per quello che si conosce, costituiti di fibre che senza differenza apprezzabile passano nella retina diramandosi agli elementi sensibili descritti, indurrebbe a supporre che tutti i filamenti dei nervi ottici, destinati alla trasmissione della eccitazione luminosa, fossero equivalenti, passibili cioè di comunicare soltanto la sensazione di colore composta di movimenti dell’etere a vibrazioni e lunghezze d’onde eguali.
Ma le complesse impressioni percepite nello stesso tempo dall’occhio per fatto di onde luminose di varia lunghezza e la diversa provenienza da cui può essere originata la stessa impressione, come un azzurro ad esempio che non è sempre provocato da una luce monocromatica ma può derivare dal concorso simultaneo di una luce violetta e di una luce verde oppure da una luce bianca privata del giallo, vale a dire appunto da onde e vibrazioni assolutamente differenti, parvero contraddire alla legge meccanica della trasmissione del moto e al funzionare di altri nervi, talché l’idea di una costituzione identica dei filamenti dei nervi ottici fu abbandonata adottandosi l’ipotesi di Thomas Young, della esistenza di tre fibre ottiche per ogni elemento sensibile della retina e quindi per ogni filamento del nervo ottico, presiedenti rispettivamente alla trasmissione del rosso, del verde e del violetto.
Queste tre sorta di fibre, distinte per la qualità dei raggi colorati che trasmettono al nostro occhio, sarebbero eccitabili da qualunque sorta di luce: ma prevalentemente per quella cui ciascuna fibra è particolarmente adatta a trasmettere, cioè le fibre del rosso per la luce semplice rossa, quelle del verde per la luce semplice verde e quelle del violetto per la luce semplice violetta.
Per spiegare, ad esempio, come avvenga la sensazione dei diversi gialli, Young suppone che la luce gialla provochi egualmente le fibre del rosso e quelle del verde senza prevalenza di nessuno dei due sistemi di fibre, e da ciò la sensazione del giallo puro, mentre questo stesso giallo propenderà verso il rosso od il violetto se le fibre corrispondenti a questi colori saranno state in qualche modo sufficentemente eccitate. Così accadrebbe per gli altri colori intensi più o meno secondo il prevalere dell’azione nervosa dell’uno o dell’altro ordine di fibre. Dall’eccitazione simultanea di tutti e tre i sistemi di fibre risulterebbe la sensazione della luce bianca.
La teoria di Young spiega pure come avvenga la perdita di intensità colorante quando aumenti la luce influente su di un colore sino a renderlo bianco, ed è d’uopo convenire, ammesso questo sistema di tre fibre, che se sotto l’in flusso di una luce verde di media intensità l’eccitamento delle fibre del rosso e del violetto può passare inavvertito, man mano che la luce aumenti di intensità la loro azione si renderà più sensibile a scapito della saturazione del verde, finché, crescendo la luce e manifestandosi il concorso di tutte e tre le specie di fibre, dalle quali nasce la sensazione del bianco, tale verde passerà per conseguenza al bianco.
Certamente, come osserva Bruke1, se nessun fatto è direttamente opposto alla teoria di Young, essa non si appoggia però sopra esperienze così positive che non si possa confutare in qualche punto.
Ed in vero questa teoria non sostenuta da alcuna base anatomica subì molti attacchi. Hering nel 1878 tentò sostituirla col supposto di una sostanza della retina il cui consumo desterebbe la sensazione del bianco, del giallo e del rosso originando nella rinnovazione il verde, l’azzurro ed il nero. Scomposizione e ricomposizione di una sostanza fotochimica ipotetica che vale quanto le tre fibre nervose dello Young ed il rosso retinico scoperto da Boll che poi si verificò mancare nella macchia gialla, la plaga più semplice e centrale della retina dove la visione si effettua colla maggiore attività e precisione; colla differenza però che la teoria di Young non è in contradizione con nessun fatto anatomico, poichè nulla si conosce delle funzioni degli elementi sensibili della retina, ma esprime semplicemente che le sensazioni colorate sono il risultato di tre azioni distinte, che si producono nella sostanza nervosa2.
Da quanto si è sommariamente esposto sulla complicatissima costituzione dell’occhio, risulta evidente che le immagini esteriori vengono assoggettate alle leggi che reggono il senso della vista. Alcune alterazioni sono dovute alla disposizione retico lata o concentrica delle fibre dei tessuti trasparenti dell’occhio, come quelli della cornea e del cristallino. L’umore acqueo, che bagna costantemente l’occhio all’esterno per difenderlo dall’attrito delle palpebre, contribuisce pure a queste alterazioni, che prendono il nome di fenomeno dell’irradiazione.
Per tale condizione del sistema lenticolare dell’occhio i raggi luminosi che lo attraversano si estendono oltre i contorni che la regolare riflessione della luce porterebbe sulla retina, determinando in tal modo su questa un’immagine che non ha più esatta corrispondenza coll’oggetto reale.
La rappresentazione del sole in forma raggiante è una delle più antiche testimonianze della sensazione interiore sostituita alla immagine reale della maggiore sorgente luminosa del creato. Anche la caratteristica forma stellata invalsa nell’arte come figurazione grafica degli astri, che la oscura costantemente riproduce con un piccolo camera circolo luminoso, deriva dalla forma raggiata impressa dai segmenti concentrici del cristallino a tutte le forme luminose di grande intensità fissate dal nostro occhio.
Da questo espandersi della luce nelle immagini retiniche consegue ancora quella deformazione ben nota dei margini di qualsiasi linea seguente, opaca, che si interponga fra l’occhio e la sorgente luminosa, senza nasconderla interamente, e deriva pure da questo soverchiare delle forti luci dal loro contorno naturale sulla retina, la maggiore ampiezza apparente di tutte le superficie chiare a spese dei contorni degli oggetti circostanti, come lo dimostra lo scacchiere, nel quale gli scacchi bianchi sembrano più grandi di quelli neri, che pure sappiamo avere le stesse dimensioni.
L’irradiazione è ancora un grande coefficiente di morbidezza nell’aspetto dei corpi, poiché l’espansione che essa produce nelle parti luminose non si può intendere come un aumento reciso di contorno, essendo ogni effetto di luce meno intenso man mano che si allontana dal centro di propagazione.
Tale fenomeno, bastante per portare una notevole differenza sul modo di interpretare coll’arte certe apparenze del vero, non adduce che alla soglia del complicato organismo dell’occhio, come in fatto esso non si compie che per la cornea affatto esterna ed il cristallino che la segue immediatamente.
Le cause dell’irradiazione si possono quasi scorgere esaminando dall’esterno l’occhio stesso. Helmholtz avverte come «osservando di fianco un occhio sano rischiarato da forte luce concentrata per mezzo di una lente si vede come la cornea ed il cristallino non siano perfettamente limpidi. Tutti e due sembrano un po’ biancastri, come adombrati da una leggera nebbia. Ed invero essi sono dei tessuti fibrosi la cui struttura non è omogenea come quella di un liquido o di un cristallo puro. Ora la più piccola disuguaglianza nella struttura di un corpo trasparente è capace di rifrangere una parte della luce ricevuta e disperderla in tutte le direzioni»3.
Ma la sede vera di tutte le impressioni visive è la retina, la parte più profonda dell’occhio la cui costituzione intima è ancora un mistero per la scienza. Sulla retina le luci da movimenti dell’etere vengono trasformate in sensazioni colorate che l’apparato nervoso elabora secondo i processi fisiologici del nostro organismo, onde non è facile concepire senza una spiegazione relativa come nell’occhio la sensazione nervosa possa modificare apparentemente le proprietà fisiche della luce e sulla retina persistano delle immagini anche quando sul vero queste siano scomparse e la vista possa adattarsi a tanti diversi gradi di illuminazione e come avvenga che i colori provochino immagini apparenti d’altri colori che non esistono sugli oggetti riguardati.
Così, se le impressioni sono il risultato evidente del complesso congegno del nostro sensorio, che influenza ogni comunicazione esteriore, e se l’arte è effettivamente la riproduzione delle cose vere, non per quello che sono nella materialità loro, ma per l’impressione che ne risente la sensibilità nostra, la guida più sicura per arrivare all’arte sarà quella fondata sulla più esatta cognizione del mondo reale e le condizioni proprie del nostro essere senziente.
- ↑ E. Bruke, Des couleurs au point de vue physique, physiolo gique, artistique et industriel. — Paris, J. B. Baillière et fils, 1866, pag. 88.
- ↑ Helmholtz, Optique physiologique, traduite par Juval et Klein. Paris, 1867, pag. 383.
- ↑ Hhelmholtz, L'optique et la peinture, Paris, Felix Alcan, 1891, pag. 209.