I Caratteri/Il filosofo Teofrasto/Capo terzo

Il filosofo Teofrasto - Capo terzo

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Teofrasto - I Caratteri (Antichità)
Traduzione dal greco di Goffredo Coppola (1945)
Il filosofo Teofrasto - Capo secondo I caratteri morali

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CAPO TERZO


LA FORTUNA DI UN LIBRO

Che Teofrasto molto si adoperasse in commentar le opere del maestro resulta dalle sue tre opere sulle leggi e sui legislatori che facevano accompagnamento al trattato di Aristotele sullo stato politico, e dalle altre di fisiologia vegetale e minerale che sono complemento delle opere di Aristotele sulla zoologia. Avido di apprender sempre nuove cose e di sempre nuove ricercarne, come lo definisce Plutarco, il filosofo Teofrasto è stato maestro nel senso più umano e moderno della parola, e la contribuito in trentaquattro anni di insegnamento alla nascita, dirò cosí, di tutta la metodologia scientifica e delle singole scienze.

Noi abbiamo già dimostrato piú innanzi com’egli fosse puntuto e garbato a lezione, e come vivacemente sedesse in cattedra. Stobeo racconta che una volta, richiesto di definir l’amore, Teofrasto rispondesse pronto che l’amore è patimento di anima oziosa, e soggiungesse che è l’esasperazione di un desiderio il cui inizio è improvviso, ma la soluzione assai lenta. O non aveva detto il maestro suo Aristotele che «la bellezza si raccomanda da sé, piú e meglio di ogni lettera commendatizia»; e non aveva Teofrasto commentato pur troppo bene che «la bellezza è tacito inganno», volendo riferirsi alla seduzione che la bellezza fa sopra altrui? Immaginate, dunque, come di buon grado accorressero ad ascoltarne la parola i discepoli, e spiegatevi per ciò solo come debb’essere credibile che intorno a lui si raccogliessero non soltanto [p. 46 modifica]filosofi, ma oratori e scienziati, e poeti e commediografi e politici. Cicerone poteva ben dire che Demetrio di Faléro era uscito al sole e alla polvere degli accampamenti non dalla tenda dei soldati, ma dalla scuola di Teofrasto: processerat enim in solem et pulverem non ut e militari tabernaculo, set ut e Theophrasto doctissimi hominis umbraculis; e che da Teofrasto aveva appreso ad essere disputator subtilis, orator parum vehemens dulcis tamen, così che, pur parlando pacatamente, il suo discorso ei lo costellava di traslati e di parole trasportate di senso, cuius oratio dum sedate placidegue labitur, tum illustrant cam, quasi stellae quaedam, trastata verba alque immutata. E infatti da un suo frammento risulta che in un’orazione egli aggrediva Cràtero di Macedonia, rappresentandolo «seduto sur una seggiola d’oro in alto e avvolto in una preziosa veste di porpora ricevere con alterigia le ambascerie dei Greci».

Chi cita nell’originale greco il frammento aggiunge a commento che Demetrio descriveva il carattere altezzoso di Critero, e però ci fa correre alla memoria le orazioni che un altro discepolo di Teofrasto pronunziò contro Demostene e contro Aristogitone e Filocle: quel Dinarco di Corinto, il quale si stabilì in Atene nel tempo che Alessandro partiva per l’Asia, e vi divenne uno dei capi del partito macedonico. Se notizie di ragguardevole origine lo dimostrano scolaro assai caro a Teofrasto, le sue tre orazioni ce lo rivelano lettore e imitatore dei «Caratteri» a tal punto che più volte ripeterà frasi e immagini dell’operetta teofrastea, o che descriva Demostene come un avaro, e ce lo rappresenti mentre «andando attorno per la piazza contava frottole», e dica di lui che «ordina agli altri di prender l’armi, mentr’egli poi abbandona il suo posto» proprio così come in Teofrasto agisce il codardo; o che racconti di Aristogitone le medesime turpitudini che Teofrasto attribuisce allo spudorato, che cioè «egli ha passato più tempo in galera che fuori», e che «non ebbe pietà neppur di suo padre il quale pativa la fame».

Evidement il libriccino di Teofrasto era stato letto da Dinarco, a meno che non si voglia immaginare che Dinarco prendesse a lezione appunti così precisi da poter ripetere più tardi [p. 47 modifica]alla lettera, parola su parola, espressioni teofrastee. Del resto, pochi anni dopo, il filosofo Licone, successore del successore di Teofrasto nella direzione del Peripato, scriverà anche lui qualche cosa di simile ai «Caratteri», e permetterà di credere che anche lui debba aver letto l’opuscolo teofrasteo, non già perché il suo stile pesante e ampolloso ed enfatico sia lo stile di Teofrasto, ma perché, da pessimo imitatore, egli ha cercato di far cosa piú elegante di Teofrasto, ed è invece caduto nelle sottigliezze leziose della cosiddetta prosa d’arte isocratea. Egli elaborava i suoi corsi per intero, e un frammento di una sua opera oggi perduta ci è stato conservato nella traduzione latina del retore Rutilio Lupo. Questo Rutilio Lupo è vissuto negli anni di Augusto e di Tiberio, e si raccomanda ancora oggi a noi col suo nome per un riassunto ch’egli fece in un unico libro dei quattro che tal Gorgia aveva scritto in greco sugli schemi dell’elocuzione, De figuris sententiarum et elocutionis. Chi poi fosse il rétore Gorgia, è facile argomentarlo da una lettera del figlio di Cicerone al segretario del padre, Tirone, in che l’avverte che per obbedire all’ingiunzione paterna egli ha cessato di frequentare le lezioni di Gorgia: De Gorgia autem quod mihi scribis, crat quidem ille in quotidiana declamattone utilis, sed omnia postposui dummodo praeceptis patris parerem, «per quel che mi scrivi di Gorgia, ebbene, egli mi era assai utile negli esercizi di giornaliera declamazione, ma io, pur di obbedire agli ordini di mio padre, ho messo da parte ogni altra considerazione». E Plutarco aggiunge a commento che questo Gorgia non andava troppo a genio a Cicerone padre, giacché molto indulgeva verso i piaceri delle donne e il vino, e trascinavasi dietro anche il ragazzo. Era bravo però; e Seneca ne lodava assai certe esercitazioncelle retoriche da lui compilate per la scuola; e l’antologista Ateneo cita molti passi di un suo opuscolo sulle cortigiane ateniesi: il qual titolo par che giustifichi le preoccupazioni di Marco Tullio.

Orbene, è di questo Gorgia che Rutilio Lupo s è fatto traduttore, e permette, cosí, che noi oggi giudichiamo quale attento e onesto retore fosse quel Gorgia, e come preciso in addurre probanti e calzanti esempi di elocuzione dal ricco patrimonio degli oratori classici e di altri scrittori. La traduzione di Rutilio è [p. 48 modifica]notevole e pregevole, e ci è stata tramandata da buoni codici come suddivisa in due libri, mentr’è certo che Quintiliano l’aveva letta in un libro solo. Garbato e vivace interprete dello scibile degli scrittori greci, Rutilio Lupo meriterebbe che uno studioso moderno ne illustrasse le chiare doti di filologo e di prosatore, e che dall’ormai vecchia e pur diligente edizione del Ruhnken pubblicata a Leida nel 1768, ne riproducesse il testo con nuove cure ed emendamenti. Eccone intanto il passo di Licone, che è, come già innanzi avvertimmo, la descrizione dell’ubriaco dissoluto? «Che mai credi possa sussistere di buona speranza in un uomo il quale passa tutto il tempo di sua vita in cotal disperatissima consuetudine? Giacché non appena che egli sul mezzogiorno si sveglia ancor pieno della crapula e gonfio del cibo del giorno innanzi, non riesce, il poveretto, a fissar la luce con gli occhi umidi di vino, accecati di alcole, pesanti per viscosità, e poi non è neppur buono di alzarsi da letto avendo perduto ogni forza per le vene che son piene di vino e non di sangue; sicché alla fine, appoggiatosi al braccio di due servi, languido per essersi indebolito a giacere, in camicia, senza nessun altro vestito, impantofolato, con un pannicello in capo che lo difenda dal freddo, a testa bassa, le ginocchia piegate, pallido in viso, tiratosi fuor dall’alcova si trascina al triclinio, dove ci sono quei pochi suoi amici d’ogni giorno istigati dal suo medesimo vizio.

«E qui, nella sala da pranzo, il nostro eroe si sbraccia a cacciar via coi bicchieri quel poco che gli resta di senno e sentimento, e invita gli altri a bere, reputando di essersi procurata una bellissima vittoria, quasi che abbia sconfitto e abbattuto in combattimento chissà mai quanti nemici. Intanto, cosí procedono innanzi insieme il tempo e il bere, mentre gli occhi lacrimosi di vino si annebbiano, e a mala pena si riconoscono fra loro gli ubriachi commensali. Eccone uno che senza nessun motivo provoca a rissa il suo vicino, un altro che, insonnolito, è costretto a forza a star sveglio, questi che si prepara a rissare, quell’altro che cerca di evitar la folla e vuol ritornare a casa, ma il portinaio lo trattiene, lo Tespinge indietro, e gli proibisce di andar via mostrandogli il divieto del suo padrone. E un altro infine che, [p. 49 modifica]gittato fuor di casa vergognosamente, un servo lo tien su che barcolla e lo accompagna, mentr’ei si trascina dietro il mantello. Egli poi, il padron di casa, rimasto solo nel triclinio non prima lascia cader giú di mano il boccale che il sonno non l’abbia preso mentre sta bevendo, e, quando le sue membra son rilassate, allora da sé il boccale gli cade giú mentre dorme».

Da altri passi di altri scrittori greci da lui in quella medesima opera tradotti e che noi possiamo controllare sugli originali, resulta che Rutilio Lupo fu traduttore non soltanto attento ma efficace. Dobbiamo credere perciò, che Rutilio abbia tradotto con molta fedeltà, e servendosi anche di immagini poetiche lucreziane e ovidiane, il passo sopraccitato; e che Licone fosse filosofo e insegnante tutt’affatto diverso da Teofrasto e si abbandonasse con piacere a una certa enfasi retorica, viziosa e declamante. Il passo che Rutilio traduce apparteneva forse a uno dei corsi di lezione che Licone aveva lasciato in testamento ai suoi scolari e che gli scolari pubblicarono, probabilmente un corso di etica nel quale il maestro aveva inserito descrizioni etologiche. Difatti, il modo come la descrizione incomincia, con quid in hoc arbitrer bonae spei religuom residere... «che mai credi possa sussistere di buona speranza in un uomo che...», rivela subito un tono cattedratico, e, non dico cattedratici, ma leziosamente elaborati sono anche gli espedienti stilistici ai quali Licone ricorre per far più evidente la miserevole condizione del dissoluto. Ce lo descrive mentre duobus innixus, languidus qui cubando sit defatigatus, tunicatus, sine pallio, soleatus, praeligato palliolo frigus a capite defendens, flexa cervice, summiissis genibus, colore exsangui, si trascina, appena alzato di letto, a gozzovigliar nel triclinio; ed è fin troppo chiara la tendenza del suo dettato verso un tono commosso e colorito, se non addirittura oratorio. Tale è anche, alla fine, la descrizione dell’ubriaco che lascia cadere il bicchiere; e del medesimo tono appaiono le frequenti abbondevoli ripetizioni sinonimiche, a significar che ormai il gusto della scuola erasi mutato nel giro di pochi anni, e che Licone, successore di Stratone sulla cattedra di Teofrasto, era assai lontano dalla fresca e saporosa semplicità dell’erede di Aristotele. [p. 50 modifica]

Licone era della Troade, suo padre chiamavasi Astianatte, che è nome distintamente troiano. Egli sostituí Stratone nella direzione del Peripato e tenne cattedra dal 268 al 224, per ben quarantaquattro anni, dimostrandosi piuttosto incline alla retorica che alla filosofia e scrivendo opere, le quali, se vogliamo giudicar dal frammento tradotto da Rutilio Lupo, confermano pienamente il giudizio ciceroniano ch’egli fosse oratione locuples, rebus ipsis ieiuntor, «dovizioso in dettato, ma arido di argomenti ». Incline al fasto e allo sfarzo egli possedeva nel quartiere piú nobile di Atene una bellissima casa e vi convitava gli amici con spocchiosa e spavalda munificenza. E Diogene Laerzio ci ha lasciato un breve cenno biografico di lui, il quale, morendo, affidò l’eredità del Peripato agli scolari suoi Bulone, Callino e Aristone di Ceo, per appunto all’Aristone che in memoria del maestro compose un dialogo mitologico e filosofico i cui personaggi erano un troiano ucciso dal beota Peneleo, un altro troiano ucciso dal cretese Metione, e un greco ucciso da Deifobo figlio di Priamo: personaggi omerici della guerra di Ilio, poiché Licone figlio di Astianatte era nativo della Troade.

Noi conosciamo Aristone di Ceo per quel che di lui scrive Cicerone in «De Finibus», V, 13: concinnus deinde et elegans huius (Lyconis discipulus) Aristo, sed ca quae desideratur a magno philosopho gravitas in eo non fuit; scripta sane et multa et polita, sed nescio quo pacio auctoritatem oratio non habet. Al solito, Cicerone è francamente espressivo nel biasimo, e però nega che Aristone fosse un grande filosofo, ma gli riconosce qualità di scrittore laborioso ed elegante. Gli scritti di Aristone, multa et polita, non mancavano di vivacità polemica, né di freschezza stiilistica e di espedienti retorici, ma, ricchi di aneddoti e di citazioni, apparivano piuttosto degni di letterato che di filosofo e assai vicini al genere preferito da Bione di Boristene, del quale Strabone, X, 486, dichiara esplicitamente che Aristone fu «imitatore». Del resto, i [p. 51 modifica]titoli delle sue opere e quei pochi frammenti che ne possediamo confermano il giudizio di Cicerone, giacché nessun titolo investe un vero e proprio problema filosofico, e nessun frammento fa immaginare che Aristone siasi preoccupato di questioni teoretiche, ma sempre egli appare curioso e studioso insieme di notizie e documenti che giovino ad illustrare questo o quel problema filosofico, e sembra muoversi perciò non tanto con la destrezza del dialettico quanto con la grazia dello scrittore. Le «Concordanze erotiche», e «Le vite» di Epicuro e dei quattro scolarchi peripatetici, Aristotele, Teofrasto, Stratone, Licone, e forse anche una biografia di Eraclito, sono opere sue che gli antichi ricordano piú volte e che insieme con assai pochi frammenti ci offrono la prova della giustezza del giudizio ciceroniano.

In verità, egli deve la sua fortuna alle proprie doti di scrittore e di letterato, e Orazio e Plutarco l’ebbero caro appunto per questo, perché non era un filosofo gravis, ma tutto sapeva dire ed esporre con garbo e discrezione. E quando molti anni fa comparvero la prima volta per le stampe fe lacunose colonne di un papiro ercolanese, il quale restituiva alla luce il libro decimo di una compilazione di Filodémo di Gàdara sui vizi, la lettura di molti passi di Aristone che in quest’opera è largamente e integralmente citato, confermava la giustezza del giudizio ciceroniano rivelandoci un prosatore di spirito in tutto e per tutto degno di essere mentovato accanto a Teofrasto. Crediamo perciò che non sia inutile ai fini della nostra indagine spendere alcune pagine intorno all’Aristone dei papiri ercolanesi e illustrarne gli indiscutibili pregi, sebbene Filodemo a scopo polemico ce lo presenti affetto da quel medesimo vizio di superbia ch’egli, Aristone, avrebbe voluto curare in un suo trattatello: «Aristone, adunque, che ha scritto una breve memoria sul modo di curare la superbia soffri in proprio quel medesimo male dei filosofi i quali sono diventati superbi per volontà del destino...». All’epicureo Filodemo forse non andava a genio la franca disinvoltura con che uno dei tre eredi di Licone alla direzione del Peripato trattava quel problema dell’etica comune, e gli avrà probabilmente rimproverato di essere altrettanto superbo che leggiero, considerando che per appunto [p. 52 modifica]Aristone si compiace di imparentare strettamente tra loro la presunzione e la superbia, l’alterigia e la leggerezza.

A ogni modo, Filodemo trascrive con evidente seppur tacito consenso ben quattro definizioni e caratteri di Aristone, a cominciar da questo del maleducato: «Il cosiddetto maleducato par che sia un misto di presunzione e superbia e alterigia, e partecipa anche di molta leggerezza. Egli è tale, difatti, serive Aristone, che nel bagno chiede acqua calda o fredda senz’aver prima domandato a chi capita a bagnarsi insieme se comodi anche a lui; e, noleggiato il bagnino, non gli domanda il suo nome né gliene mette uno lui, ma lo chiama bagnino e non altrimenti; e chi lo aiuti a ungersi non lo unge a sua volta; e, ospitato, non ricambia l’ospitalità; e quando bussa alla porta altrui, se gli si grida Chi è?, egli non risponde finché non si esca fuori; e, se un amico va a visitarlo quand’è ammalato, egli non dice come sta, né egli stesso, quando va a visitar qualcuno, fa simili domande; e, se scrive una lettera, non ci aggiunge il salve o l’addio in fondo». Subito dopo coteste vivacissime note sul maleducato, si leggono queste altre sull’ostinato, altrettanto piene di briò e di naturalezza: «L’ostinato poi non è tutt’affatto leggiero e irragionevole come il maleducato, ma per presunzione di essere egli solo assennato ha opinioni tutte sue, ed è convinto che in tutto riuscirà bene, e che invece sbaglierà se si giovi del consiglio altrui, ed è dunque partecipe anche di superbia. È capace di mettersi in viaggio, comprare, vendere, sollecitare una carica, fare ogni altra cosa senza confidarsi con alcuno; e, se gli si chiede che farà, risponde Lo so io; e, se alcuno lo biasima, risponde con un sorrisetto Tu me?; e, invitato a una riunione di amici, non vuol dire il suo parere a chi gli chiede consiglio se l’altro non prometta di metterlo in pratica. E non gli dispiace d’esser chiamato col nome di ostinato, ma dice che chiedono ne che sono ancora bambini quelli che chiedono consigli ad altri come a pedagoghi, e ch’egli solo ha barba e capelli bianchi, e che saprà vivere anche se capiterà in un deserto».

Aristone è così felice e divertente, ed egli stesso divertito, dipintore di caratteri, che in pochi tratti abbozza il tipo del [p. 53 modifica]saccente e dilettante: «Anche peggiore dell’ostinato è il sapientone, il quale è convinto di tutto sapere, per aver queste cose imparato da chi davvero le conosce, queste altre per aver soltanto veduto chi le faceva, e quelle infine per averle capite da sé solo. Ed è capace non soltanto di dire che quanto ha indosso se l’è fatto da sé, come Platone racconta di Ippia d’Elea, ma anche di costruirsi da sé una casa e una nave, e senza architetto; e di redigere per sé contratti i quali richiedono un’esperienza giuridica; e di curare gli schiavi propri, non soltanto se stesso, e di tentar perfino di curar gli estranei; e di piantare alberi e far carico di navi, le quali son cose che fanno bene soltanto i veramente pratici del mestiere, e benché in tutto faccia naufragio neppur così egli cessa dalla sua stolidezza. Ed è capace, arrogandosi ogni scienza, di fare in tutte una brutta figura e di chiamare ignoranti quelli che lo deridono...». Naturalmente, Aristone mon si limita a descrivere i tratti del maleducato, dell’ostinato e del sapientone, ma ne commenta con agilità la condizione etica, se così possiamo dire, illustrando le sottospecie di quei difetti per sintetizzarle tutte nel principale difetto della superbia e della millanteria. Perciò gli capiterà di descriverci anche la figura del dissimulatore, il quale gli sembra che sia una specie di millantatore, allo stesso modo che il sapientone gli appare uomo completamente stolto sul tipo dell’omerico Margite: «Il dissimulatore», scrive Aristone, «è per lo più una specie di millantatore che non dice quel che sente ma piuttosto il contrario, ed è bravo in lodar quello stesso che in verità egli biasima, e altresì capace di umiliar se stesso e i suoi simili in qualunque momento senza nascondere del tutto le proprie intenzioni. Gli giovano in questa sua parte una certa eloquenza e forza persuasiva, ed è tale che spesso ride sotto i baffi e fa smorfie e sorrisetti, e, appena uno gli si accosta, subito si leva su di scatto, scoprendosi. E, stando insieme con gente, tace per molto tempo, e, se alcuno lo loda o lo invita a parlare, o se dicono che egli sarà rammentato, esclama: Io che so, tranne... questo che non so nulla? e Qual conto si può fare di noi?; e Se di noi si farà mai menzione. E spesso ripete: Beati quei tali per il loro talento, o, per la loro capacità, o, per la loro fortuna; e non chiama le persone coi [p. 54 modifica]semplici nomi, ma dice Fedro il bello, e Lisia il sapiente; e usa parole ambigue: brav’uomo, dolce, semplice, bennato, valoroso. E mette in mostra opinioni sue come piene di saggezza, attribuendole ad altri, a quel modo che Socrate le attribuiva ad Aspasia e ad Iscomaco...

«...E, se capita insieme con gente, mostra di rimaner colpito e ammirato dinanzi alla bellezza e alla posizione sociale e intelligenza di chi gli siede accanto, e, invitato a consiglio, fa il timido e dice che le più piccole quistioni gli sembrano difficili, e, se uno gli ride in faccia, Hai ragione, dice, di disprezzarmi, pur così giovane come sei, ché mi dispregio da me; e fossi giovane e non vecchio, per potermi mettere ai tuoi ordini; e, se qualcuno dei presenti avendo parlato, quell’altro dica apertamente: Ma tu perché parli?, egli allora, alzate le mani al cielo, esclama: Oh! come hai capito subito tu, ma io sono uno stupido e lento e di difficile comprendonio. E sta a sentire attentamente a bocca aperta chi parla con lui, e poi fa smorfie di sottecchi e cenni ad altri, e qualche volta sghignazza; ed è capace di dire anche a persone con le quali gli capita percaso di conversare: Chiarifemi voi le mie ignoranze e le altre insufficienze, amici mici, e non mi lasciate far brutte figure; e, Non mi vorrete spiegare i successi di Tizio, affinché mi congratuli con lui, e, se ne sarò capace, lo imiti? Ma che occorre dir più? Raccogliendo tutti i detti memorabili di Socrate... gli sono simili quegli che ha poca stima degli altri, e colui che non ne ha nessuna e tendono al medesimo scopo anche essi, differendo soltanto per minore o maggiore intensità in calunniare il prossimo. Difatti, chi ha scarsa stima degli altri fa apparire gli assenti da meno di quel che effettivamente essi valgano; chi invece non ne ha nessuna stima, li fa apparire uomini da nulla. Infine, ce n’è di costoro che qualche volta mettono in mostra la propria prestanza, o di quelli che essi stimano; e altra volta, invece, fanno scempio del prestigio altrui, così che anche i sopraddetti sono superbi. E però è naturale che Aristone dica a causa della superbia si accompagnano ad essi le odiosità e qualche cosa di più grave della calunnia, del malocchio e dell’invidia. Pertanto, noi chiuderemo questo libro, e gliene aggiungeremo di séguito un altro sugli altri vizi, dei li crediamo opportuno far parola». [p. 55 modifica]

I passi di Aristone, che noi abbiamo tradotti così come li cita Filodémo di Gàdara nel decimo libro della sua opera intitolata «I vizi», sono notevoli per davvero, e dimostrano che Aristone fu un intelligente imitatore di Teofrasto. I caratteri da lui descritti, bisogna pur convenirne, possono competere bellamente con le descrizioni teofrastee, ed è vero altresì che, a differenza delle teofrastee, le sue, per quel che ne dice Filodémo, sembrano inserite in un trattato di etica descrittiva avente per titolo «La superbia». Sottospecie del superbo sono i caratteri del maleducato, dell’ostinato, e del sapientone, e Aristone ce li descrive con evidenza dopo averne dato per ciascuno l’esatta definizione: «il cosiddetto scortese par che sia un misto di presunzione e di superbia e alterigia, e partecipa anche di molta leggerezza... », «l’ostinato poi non è tutt’affatto leggiero e irragionevole come lo scortese, ma per presunzione di essere egli solo assennato ha opinioni tutte sue...»; «anche peggiore dell’ostinato è il sapientone, il quale è convinto di tutto sapere... ».

A leggere il greco di Teofrasto e il greco di Aristone, si scorge con chiarezza che Aristone ha saputo imitare Teofrasto, non perché egli fosse abile in imitare, ma perché gli era congeniale, se così possiamo dire, la maniera di Teofrasto. Anche Aristone sente il ridicolo, e sa scoprire nel cuore umano i piú riposti segreti; anche Aristone coglie gesti, atteggiamenti, discorsi dei suo! personaggi, dalla vita e non già dalla scuola. Egli non è Licone; e non è neppure quel Satiro peripatetico del quale l’antologista Ateneo cita il frammento di un’opera che s’intitolava «I caratteri» e ch’era scritta anche peggio e più goffamente dell’altra di Licone: «nemici delle proprie sostanze sono i dissipatori e fanno scorrerie nei lor propri poderi, depredano la casa, riducono in briciole quel che hanno, stanno accorti non già a quel che si spenda ma a che cosa possano dilapidare, non a ciò che debba loro rimanere ma a quel che rimanere non debba, e in giovinezza consumano il viatico della vecchiaia, e godono di star con l’etera ma non coi [p. 56 modifica]camerati, di tracannar vino e non già di stare a convito con gli amici». Lo stile di Aristone non è sfacciato, come lo stile di Satiro; ma è semplicissimo e casto come lo stile di Teofrasto, degno anch’esso d’essere mentovato come esempio di spontaneità e vivezza. Se dunque una prova occorresse a dimostrar che l’operetta teofrastea era apparsa in pubblico e stata letta così come noi oggi la leggiamo, la prova ce la dà Aristone di Chio; ed essa è tale che nessuno saprebbe oggimai revocarla in dubbio. Qualunque cosa debbasi conchiudere intorno ai precedenti aristotelici dell’etica di Aristone, è in ogni caso certo ch’egli ha sentito profondamente l’efficacia dell’operetta di Teofrasto.

La sua descrizione del maleducato ricorda la descrizione dello sgarbato in Teofrasto; e così pure ci richiamano al carattere del superbo in Teofrasto alcuni particolari che in Aristone sono propri del maleducato, dell’ostinato o del sapientone, i quali, come abbiamo già detto, sono vizi affini o sottospecie del superbo. Anche l’ipocrita che tende a gabbare, anche chi per temperamento è facile all’ira, l’iracondo, anche lo sprezzante sono difetti che Aristone definisce in breve come sottospecie della superbia. Ed è notevole ch’egli per caratterizzar l’ipocrita ricorra al vocabolo nuovo o quasi nuovo semnocopos, allo stesso modo che per il sapientone crea il vocabolo panteidemon «sa tutto», che Aristotele e Teofrasto non conoscono e che più tardi il purista Polluce cercherà di biasimare. Studioso davvero intelligente dell’etica descrittiva, Aristone non si è limitato a studiar soltanto gli aspetti della superbia, fra i quali classifica anche il vizio della dissimulazione e della millanteria, ma altrove, in altre opere, si è anche preoccupato di descriverci il tipo di chi ama d’esser lodato coniando per esso il vocabolo philepainos. Egli era poi così spiritoso che merita d’esser citato quel che Plutarco scrive a proposito del caccianaso inframmettente: I venti più molesti son quelli che scoprono le nostre vesti, come dice Aristone: ma l’inframmettente non scopre soltanto le vesti e la camicia del suo prossimo, ma apre le finestre e spalanca le porte, e s’insinua e caccia anche a traverso il cuore delle vergini tenerelle con la foga del vento, e scruta e spia per le feste e danze e le notturne cerimonie»; e [p. 57 modifica]merita di esser mentovato quel che si legge in un antico sentenziario della Biblioteca vaticana: «il filosofo Aristone diceva che i ricchi e gli avari sono simili ai muli, i quali portano oro e fieno e però mangiano paglia; e diceva anche che il popolo è una bestia policefala».

Vogliate o no, ci troviamo dinanzi a un filosofo e scrittore che scopre, non dico, le nudità ma fin gli scheletri delle cose umane, e che non si può dire che sia un imitatore di Teofrasto, ma forse il solo degli antichi e dei moderni che abbia eguagliato, se non superato, Teofrasto. Ed è in ogni modo certo che quando Plutarco vorrà descriverci quale debba essere il cittadino dabbene e come debba egli agire e comportarsi, riecheggerà in una prosa, tutt’affatto diversa naturalmente, immagini e argomenti di Teofrasto e di Aristone: «l’uomo dabbene non sarà un insolente uomo ed odioso, e non sarà il saggio un ostinato che cammini per la città a tutti inviso, ma sarà anzitutto tale che ognuno possa parlargli e avvicinarlo, e la sua casa sarà aperta a tutti come un asilo dove possa rifugiarsi il bisognevole... e non si mostrerà giammai fastidioso al bagno per la moltitudine dei servi che gli è dintorno e per i posti che egli occupa nei pubblici spettacoli, e neppur per quei segni che possano per ricchezza e lusso farlo oggetto di invidia...». In verità, chi volesse, potrebbe qui, a questo punto, ricordarsi degli ultimi libri della «Repubblica» di Platone, della descrizione del vanitoso in Platone: che è per appunto il primo esempio di un vero e proprio carattere rappresentato allo scopo di dimostrare e mostrare che gli uomini corrispondono ai tempi; e fu forse come già per Teofrasto anche per Aristone incentivo a descrivere gli uomini quali essi sono nella realtà triste e lieta della loro natura e indole. E Cicerone non dirà egli pure che col mutar dei tempi mutano anche gli uffizi della vita civile? Cum tempora commutantur, commutatur officium, et non semper est idem.

«C'è di Orazio la diciottesima epistola del primo libro indirizzata a quel medesimo Lollio Massimo al quale è dedicata la [p. 58 modifica]seconda, e che assai probabilmente è figlio dell’altro Lollio console del 21 avanti Cristo che il poeta onora con l’ode nona del quarto libro. Nella seconda epistola che precede di qualche anno la diciottesima, il poeta aveva scritto che chi ben comincia è alla metà dell’opera, dimidium facti qui coepit habet, e aveva premesso un discorsetto su Omero che forse giova riassumere: «mentre a Roma tu, o caro Lollio, attendi ad esercitazioni di retorica, io a Palestrina mi son riletto Omero che di filosofia morale pratica è tanto miglior maestro d’ogni filosofo. Se puoi darmi retta un momento, ti dirò perché è cosî, perché nessuno ha descritto con altrettanta verità ed evidenza le follie e le passioni umane. Gli eroi dell’Iliade, così Troiani come Greci, ne son dominati e perciò restan sordi alla parola ammonitrice dei più savi, e della loro stoltezza i popoli pagano il fio. E nell’Odissea ci vien proposto un modello di virtù e di saggezza in Ulisse che tanti mali sopportò con fermo cuore, e non si lasciò attrarre dalle lusinghe di Circe, nè dai canti delle Sirene. Noi invece non ad Ulisse somigliamo, ma ai Proci e ai Feaci, per la nostra vita molle e oziosa. Svegliamoci».

Il preambolo della seconda epistola spiega abbastanza il perché Orazio dedicherà al medesimo Lollio anche la diciottesima, che è un’epistola ricca di filosofia morale e sembra addirittura un codice di cortigianeria. «Conoscendo, o Lollio, il tuo carattere libero capisco benissimo», scrive Orazio, «che trattando da amico coi grandi tu tema di parere adulatore; ma dall’adulatore a un amico ci corre quanto da una matrona a una meretrice. Quel che importa è che si sappia tenere il giusto mezzo, egualmente lontani da ogni eccesso, come per esempio da una voluta rozzezza di modi e trascuratezza della persona, dall’ossequio servile, dalla pretesa d’aver sempre ragione, così da attaccar lite per quistioni di lana caprina. E non si creda, imitando la vita viziosa dei signori, di ingraziarseli, chè anzi saranno i primi a disprezzare il donnaiuolo, il giocatore, il vanaglorioso, l’avido di danaro. C’è da sentirsi dire: io ho il diritto d’essere anche vizioso, tu no! Eutrápelo, quando voleva far del male a qualcuno, gli regalava ricche vesti per spingerlo a una vita di lusso e di vizio, cioè alla [p. 59 modifica]rovina. Non starò a dire quanto siano doverosi la discrezione e il segreto, ma piuttosto quanto sia necessario rinunziare alle proprie inclinazioni. A te piacerebbe stare in casa a scriver versi mentre il tuo signore preferisce andare a caccia? Bisogna cedere di buon animo, ché d’altra parte la caccia è un esercizio non indegno di un romano, e tu sei giovane, forte, svelto, e hai dato buon saggio della tua bravura, così negli esercizi del Campo di Marte come nella guerra cantabrica.

«E poi si sa che nel lago della tua villa ti diverti a far la finta battaglia navale, e tu sei Augusto, tuo fratello è Antonio... Mostrati compiacente nel seguir i gusti del tuo signore, ed egli farà altrettanto con te. Qualche altro ammonimento: misura le parole, guardati dai chiacchieroni, ricordati che una parola detta è come una freccia partita dall’arco e non la si riprende più. Non ti innamorare di ancelle del tuo signore, che non abbiano a regalartele o a darti delle noie: non raccomandare se non i degni, ma questi poi difendili se ingiustamente accusati, pensando che anche a te può accadere lo stesso; e pensa che il vento può mutare, e che tutti prendono a noia i caratteri troppo opposti al proprio, e che fa sempre piacere un bel viso spianato. Finalmente prepara e rafforza l’animo tuo con la lettura dei filosofi per imparare a vincere i desideri e a liberarti dalle vane speranze e dalle vane paure, e per scegliere la via che meglio conduca alla tranquillità. Quali credi tu che siano, o amico, i miei voti? Molto modesti: che mi sia serbato quel che ho, e anche meno; che io possa vivere per me la vita che mi resta; e poi qualche buon libro, il pan quotidiano, la tranquillità. E tutto il resto lo chiedo a Dio, ma la tranquillità dell’animo me la procuro da me».

Così serive Orazio al suo Lollio nella diciottesima epistola; e io confesso che mi sono per un momento indugiato a parafrasare il bellissimo componimento oraziano, e però ho dimenticato di dirvi che qui Orazio avverte che «la vera virtù è qualche cosa di mezzo tra gli opposti vizi, egualmente lontana da un estremo e dall’altro», virtus est medium vitiorum et atrimque reductum; proprio così come vuole Aristotele. Lollio è un liberrimus, è un modello di schiettezza, e dunque teme che frequentando i [p. 60 modifica]potenti non debba rimanerne schiavo e adulatore; ma Orazio ammonisce che c’è un vizio peggiore assai, sebbene diverso, ed è «la zoticaggine rozza, sgarbata, goffa, la qual si commenda per andar col capo nudo rasato e i denti sozzi, ma vuol sembrare schiettezza e virtù vera e sincera», asperitas agrestis et inconcinna gravisque, quae se commendat tonsa cute, dentibus atris, dium vult libertas dici mera veraque virtus. Leggetelo Orazio, or che ci descrive l’adulatore e lo zotico: «Quegli più del giusto inclinato all’ossequio e che si fa beffe di chi a tavola siede all’ultimo posto, ma egli intanto trema al cenno del ricco, ripete e raccoglie ogni parola che gli cada di bocca e sembra un fanciullo il quale reciti la lezione al maestro, o un attore che sostenga parti secondarie; questi, invece, lo zotico, s’abbaruffa per quistioni di lana caprina, e s’accapiglia armato di ciance, e dice: non avrò dunque la mia fede di sempre, e non griderò io senza rispetto alcuno quel che penso?...».

Orazio ha la mano leggiera in descriverci tipi e caratteri, l’importuno della satira nona del primo libro e il villan rifatto dell’ottava del secondo libro; ma questo nostro adulatore dell’epistola a Lollio che iterat voces et verba cadentia tollit, e lo zotico che rizatur de lana caprina, e propugnat nugis armatus son tratti felici e degni del Teofrasto migliore. Amico e lettore di Filodémo, il poeta Orazio non avrà letto soltanto Teofrasto, ma anche l’Aristone che Filodémo citava assai spesso nell’opera sui vizi, ed è possibile che egli abbia perciò derivato da lui cotesto aperto interesse per l’etica descrittiva. L’aggettivazione oraziana è così sapiente e acuta che nell’impiger iracundus inexorabilis acer, epiteti che caratterizzano l’Achille omerico, non c’è soltanto un crescendo epico, ma una ricerca squisitamente etica, con quel giuoco estetico di sinonimi che condensa il concetto e lo fa più potente e chiaro. Senza volere entrare in merito alle dispute e controversie che sulla definizione dei vizi sorsero accanite tra gli Stoici e i Peripatetici, chi vorrà legare che tracce evidenti del gran conto che ne fecero gli antichi sono anche nel quarto libro delle «Disputazioni Tusculane» di Marco Tullio Cicerone? Iracundia ab ira differt: estque aliud iracundum esse, aliud iratum, ut differi anxietas [p. 61 modifica]ab angore. Neque enim omnes anxii anguniur aliquando, neque anxii semper anguntur. Ut inter ebrietatem et ebriositatem differt: così scrive, per citarne un esempio solo, Cicerone; e il Tommaseo commenta nel Dizionario dei Sinonimi: «l’iracondo insomma denota l’abito vizioso, irato l’atto», adducendo questo passo del Buti: «gl’iracondi mostrano nell’abito del volto lo vizio».

«Il morbo è generale, il vizio può essere in una parte», soggiunge Tommaseo; e cita, sempre dalle «Tusculane», questo luogo di Cicerone: morbum appellant totius corporis corruptionem... vitium cum partes corporis inter se dissident, con accanto quest’altro di Celio Sabino che leggesi in Aulo Gellio: cui morbus est is etiam vitiosus est, neque id tamen contra fit. Potest enim qui vitiosus est non morbosus esse, ut balbus et alypus vitiosi magis quam morbosi sunt. Et equus mordax aut calcitro vitiosus non morbosus est, giacché ci sono viziature organiche le quali son morbi, ma non tutti però i vizii organici sono malattie. E dunque intendiamo come fosse aperto anche in Cicerone l’interesse per problemi dell’etica descrittiva, che le sue occupazioni forensi quotidianamente gli presentavano sempre nuovi e diversi: a tal punto che nel «De oratore» egli si abbandona al piacere di descriverci l’homo ineptus come l’uomo che non ha il senso dell’opportunità e parla assai e fa mostra di sé e non ha contezza delle cose e degli uomini coi quali parla, e che insomma è scomposto ed eccessivo, osservando alla fine che, pur essendo piena di cosiffatti viziosi la civilissima gente greca, in greco non c’è nessun vocabolo che definisca quel vizio così bene come in latino. Quem enim nos ineptum vocamus, is mihi videtur ab hoc nomen habere ductum quod non sit apius, idque in sermonis nostri consuetudine perlate patet. Nam qui aut tempus quid postulet non videt aut plura loquitur, aut se ostentat, aut eorum quibuscum est vel dignitatis vel commodi rationem non habet, aut denique in aliquo genere aut inconcinmnus aut multus est îs ineptus esse dicitur. Hoc vitio cumulata est eruditissima illa Graecorum natio; itaque quod vim huius mali non vident ne nomen quidem ei vitio imposuerunt. Ut enim quaeras omnia, quomodo Graeci ineptum appellent, non reperies.

Non è da credere però che Cicerone sia stato il primo a [p. 62 modifica]occuparsi di cosiffatti problemi, giacché a voler tacere del Plauto da noi già mentovato a pagina 42, Aulo Gellio cita parafrasandolo un passo del «Carmen de moribus», cioè a dire del carme sui costumi, composto dal vecchio Catone, a proposito di elegans homo: che, dice Gellio, non fu sempre adoperato in senso benevolo, ma nell’età di Catone rappresentò addirittura un difetto, un vitium. Ecco il passo di Gellio e di Catone: elegans homo non dicebatur cum laude sed id fere verbum ad aetatem Marci Catonis vitii non laudis fuit. Est namque hoc animadvertere, cum in quibusdam aliis tum in libris Catonis qui inscriptus est Carmen de moribus, ex quo libro verba haec sunt: «avaritiam ommia vitia habere putabant, sumptuosus cupidus elegans vitiosus inritus qui habebatur is laudabatur...». E ne risulta che l’uomo dedito al fasto, il cupido, l’elegante, il vizioso, il vano, Catone li considerava e giudicava sottospecie dell’avaro; e che però assai probabilmente aveva letto anche lui non solo Teofrasto, ma anche Aristone il quale più e meglio di Teofrasto erasi occupato di quei problemi. Naturalmente, Catone non poteva aver letto Aristone nelle citazioni di Filodémo che è di parecchi anni più tardi, ma deve aver letto negli originali greci le controversie che su questi problemi sorsero tra i Peripatetici e gli Stoici.

Non essendo il caso di insistere più a lungo su queste citazioni, sarà forse bastevole rilevare l’importanza che nel campo dell’etica propriamente detta e della retorica riscossero quistioni del genere. È già nel poeta Accio, e precisamente in un frammento di tragedia, la distinzione tra pertinacia e pervicacia; e nel «Precettore dei rétori» che è per appunto titolo di un’operetta di Luciano leggesi la descrizione del pedagogo severo e addottorato, così come nella lettera centesimaquarta di Sinesio, vescovo di Cirene; si ammira la descrizione del vigliacco, e in una omilia di San Giovanni Crisostomo quella del ghiottone. Tracce teofrastee sono visibili in Sinesio; ma è possibile che anche Giovanni Crisostomo e Luciano attingessero da opere perdute del nostro Teofrasto o di altri compositori di «Caratteri»: mentr’è certo che poco o nulla di teofrasteo c’è in questa bellissima descrizione di colui che vecchio vuol mettersi a imparare come se fosse un giovanetto, la quale [p. 63 modifica]leggesi nell’antologista Aulo Gellio: Est autem id vitium plerumqgue serae cruditionis quam Graeci opsimathian appellant, ut quod nunquam didiceris diu ignoraveris, cum id scire aliguando coeperis, magni facias quo in loco cumque et quacumque in re dicere. Veluti Romae nobis praesentibus vetus celebratusque homo in causis sed repentina et quasi tumultuaria doctrina praeditus, cum apud praefectum urbi verba faceret et dicere vellet inopi quendam miseroque victu vivere et furfureum panem esitare vinumque erucium et fetidum potare, «hic, inquit, eques romanus apiudam edit et floccos bibit». Aspexerunt ommes qui aderant, alius alium, primo tristiores turbato et requirente voltu, quidnam illud utriusque verbi foret; post deinde, quasi nescio quid tusce aut gallice dixisset, omnes riserunt. Legerat autem ille apludam veteres rusticos frumenti furfurem dixisse, idque a Plauto in comoedia, si ca Plauti est, quae Astraba inscripta est, positum esse.

«C’è il difetto assai frequente dell’imparar tardi che i Greci chiamano opsimathian, cioè a dire che quel che tu non hai mai appreso e a lungo hai ignorato non appena tu l'abbia imparato ne faccia tal conto che lo dica in qualunque occasione e cosa. Come, per appunto alla nostra presenza, un vecchio e rinomato avvocato di Roma, ma provvisto di cultura pressoché tumultuaria, il quale parlando col prefetto dell’urbe e volendo dire che il tale dei tali viveva miserevolmente e mangiava pan di crusca e beveva vino acidoso e fetido, uscì a dire «questo cavalier romano mangia loppa e beve feccia». Quelli che erano presenti si guardarono l’un l’altro, dapprima piuttosto seri nel volto turbato e interrogante, che cosa volessero significar quelle parole, e poi, come se avesse pronunziato parola etrusca o gallica, tutti scoppiarono a ridere. Aveva difatti letto, l’avvocato, che i nostri antichi rurali chiamavano loppa la crusca, e che tal parola è nella commedia di Plauto, seppure è di Plauto la commedia che intitolasi Il basto». Non si tratta, è vero, di un carattere, ma di un episodio che Aulo Gellio racconta per dimostrar come sia ridicolo adoperar parole che l’uso ha dimesse; e dunque al nostro scopo gioverebbe assai più citare per esteso il carattere dell’ostentator pecuniosus, che è per appunto il carattere descritto nel quarto libro della cosiddetta [p. 64 modifica]«Rettorica ad Erennio», e che presenta tratti felicissimi di artistico rilievo accanto ad altri che sono fiacchi per abbondanza retorica.

L’autore di quest’opera falsamente attribuita a Cicerone scrive per uno scolaro il quale dovrebbe poi cimentarsi in competizioni oratorie, e però gli propone modelli di prosa, e, nel nostro caso specifico, gli mette dinanzi un esempio della notatio, altrimenti detta notatio morum, o anche imago morum, corrispondentemente al greco charasterismós ed eicomismós. Cicerone parla apertamente delle cosiddette morum definitiones, e Seneca accennerà ai «contrassegni morali», ai signis ac notis morum, per poi chiarire in una lettera al suo Lucilio che sarebbe utile una definizione e descrizione dei singoli costumi: utilem futuram esse descriptionem cuiusque viriutis, soggiungendo che hanc Posidonius aetiologiam vocat, quidam characierismon appellant signa cuiusque virtutis et viti ac notas reddentem quibus inter se similia discriminentur. E dirà che cotesto definire e descrivere ha la medesima importanza che l’ammaestrare, giacché chi ammaestra afferma quale debb’essere l’aspetto morale di un uomo il quale voglia mostrarsi moderato, ma chi descrive rappresenta al vivo il moderato e temperante come un uomo che fa determinate cose e da altre invece si astiene; e insomma il primo praecepta viriutis dat, il secondo ne offre un exemplar. Noi siamo dinanzi a un compromesso tra l’etica e la retorica, e dobbiamo in verità concluderne che tal compromesso era già in atto al tempo di Cicerone e dopo Cicerone, allora che Plutarco di Cheronea redigeva i suoi opuscoli sulla garrulità, sull’adulazione e su altri difetti e vizi.

La descrizione dell’ostentator pecuniosus che si legge nella «Rettorica ad Erennio» vuol essere prosa d’arte, e ci mostra un uomo che ostenta d’essere ricco senza esserlo, e che appoggia la mano sinistra al mento e crede di potere offuscare la vista altrui col biancore della sua gemma e lo splendore dell’oro: cum vero sinistra mentum sublevat existimat se gemmae nitore et auri splendore aspectus omnium perstringere. Grida forte al servo, d’accordo col servo, cose che tutti possano sentire e che dovrebbero essere le prove delle sue ricchezze; e se gli capita d’incontrare gente [p. 65 modifica]dei quali egli è stato ospite durante un viaggio, non si perde d’animo e li invita a casa sua, e intanto dice che un incendio ha devastato le sue ville in campagna e poi li conduce in una casa dove è tutto pronto per il pranzo, e lì, poiché non è casa sua, inventa su due piedi che deve correre incontro a un suo fratello che arriva da Salerno e prega gli ospiti di ritornar la sera per il convito, e quelli difatti ritornano e non lo trovano e derisi se ne vanno all’albergo. E il giorno dopo l’incontrano, e lui súbito protesta di averli aspettati fino a tardi, e che essi, nuovi della città, hanno sbagliato strada... vident hominem postera die, narrant, expostulant, accusant. Sì, qualche cosa di buono c’è nel carattere descritto dall’anonimo autore della «Retorica ad Erennio», ma le sue preoccupazioni stilistiche sono troppe e troppo evidenti perché noi possiamo tacere della gonfiezza di alcune immagini e della macchinosa pesantezza di altre che pur rivelano la buona intenzione di rappresentare con vivacità i diversi stati d’animo dell’ostentator pecuniosus.

E tuttavia appare certo che l’autore ha letto Teofrasto, se è vero che egli stesso alla fine esce a dire che sono assai divertenti coteste descrizioni, le quali mettono dinanzi agli occhi l’indole e natura di un uomo, totam enim naturam cuiuspiam ponunt ante oculos: la natura del millantatore, o dell’invidioso, o del timido, o dell’avaro, o dell’ambizioso, o dell’innamorato, o del lussurioso, o del ladro, o del delatore: aut gloriosi, aut avidi, aut timidi, aut avari, ambiliosi, amatoris, luzuriosi, furis, quadruplatoris. Ed è d’altra parte chiaro che il nostro anonimo appare preoccupato da quei medesimi pregiudizi retorici che il Gorgia tradotto da Rutilio Lupo il quale così introduce il caracterismòs di Licone da noi mentovato a pagina 47, quemadmodum pictor coloribus figuras describit sic orator hoc schemate, aut vitia aut virtutes eorum de quibus loquitur deformat. Descrizioni di maniera più adatte a colpire con violenza l’immaginazione degli uditori che a commuoverle esteticamente e perciò destinate alla recitazione piuttosto che alla lettura, esse sono anche qua e là nelle orazioni di Cicerone, del primo Cicerone che ubbidisce spesso agli schemi della retorica e però coglie dalla letteratura e non dall’osservazione [p. 66 modifica]dirette immagini e colori. I quali schemi rivivono ancora nell’epigramma che Marziale dedicherà al galante Cotylus descrivendo il damerino: bellus homo est flexos qui digerit ordine crines; / balsama qui semper cinnama semper olet; / cantica qui Nili qui Gaditana susurrat; / qui movet in varios brachia vulsa modos; / inter femineas tota qui luce cathedras / desidet, atque aliqua semper in aure sonat; / qui legit hinc illine missas, scribitque tabellas, / pallia vicini qui efugit cubiti; / qui scit quam quis amet; qui per convivia currit; / Hirpini veteres qui bene novit avos. / Quid narras? Hoc est, hoc est, Cotile, bellus? / Res pertricosa est, Cotile, bellus homo.

«Damerino è chi ravvia in bell’ordine i suoi capelli arricciati; chi sempre odora di profumati unguenti, chi sempre odora di cinnamomo; chi canticchia canzoni forastiere dell’Egitto e di Spagna; chi agita le braccia depilate ammanieratamente; chi tuttodì fra femine tien cattedra, e che sempre nell’orecchio a qualcuna bisbiglia; chi legge letterine mandategli di qua e di là, e sempre ne scrive; chi cerca di evitare il vestito del vicino che gli sta a gomito; chi conosce gli amori di tutti; chi corre ai conviti; chi conosce nonni e bisnonni del palafreno irpino. Ma che dici, dunque? Questo, proprio questo è il damerino, o Cotilo; il damerino è cosa molto scabrosa...».

Possiamo conchiudere cosí la nostra rassegna, col ritratto dell’amasio e del vagheggino il quale sta su tutte l’usanze e non soffre che un bruscolo offenda la sua lindura: premendo ormai raccogliere in succinto le notizie sulla tradizione manoscritta e sulle stampe e traduzioni dell’operetta teofrastea, a cominciar da allora che nel 1527 furono scoperti i primi quindici caratteri e pubblicati a Norimberga dall’umanista Bilibaldo Pirckheymer, al quale erano stati inviati manoscritti da Giovanni Francesco Pico della Mirandola nipote del famoso Giovanni ch’era morto nel 1494. Il Pirckheymer li pubblicò cum interpretatione latina dedicandoli ad Alberto Direr in una lettera di prefazione, affinché egli che [p. 67 modifica]eccelleva nell’arte della pittura ammirasse quam affabre senex ille et sapiens Theophrastus humanas affectiones depingere novisset; e dolevasi intanto di non aver potuto meglio curare il difficile testo greco e di non aver saputo rendere in efficace latino espressioni e vocaboli dell’originale. Tu vero, mi Alberte, benigne graphicam hanc Theophrasti picturam accipe, et si illam penicillo imitari nequis, mente saltem diligenter revolve. Nam practerguam quod non parum proderit, abunde risum praebebit, ac multum oblectare poterit. «E tu, Alberto mio, accetta di buon animo questa letteraria pittura di Teofrasto, e se non puoi imitarla col tuo pennello leggila e rileggila almeno attentamente, giacché non solo essa adduce giovamento non piccolo, ma offre altresì abbondante riso e saprà procacciare molto diletto ».

Nella prefazione, Pirckeymer riproduceva anche la lettera con che il conte di Mirandola aveva accompagnato l’invio del manoscritto greco: «eccoti i caratteri di Teofrasto trascritti in greco, e dunque dal tuo giornale di cassa puoi cancellare il mio debito. Se trovassi poco castigato il volume, ne darai colpa al copista e al tempo stesso concedimi venia a me che occupatissimo in questi grandi e frequenti tumulti d’Italia non ebbi tempo, per la gravezza delle continue brighe, di leggere attentamente il libriccino e diligentemente collazionarlo sull’esemplare». En tibi Theophrast characteres exscriptos graece. Relue iam debitum ex tua ephemeride. Si castigatius volumen fortasse desiderabis, culpabis librarvum, dabisque simul veniam militi mune in Italiae crebris magnisque tumudtibus occupatissimo cui per assiduas molestiarum moles non licuit libellum per se percurrere, nedum ad exemplar perpendendo conferre. La lettera di Gian Francesco Pico è datata da Mirandola l’otto settembre 1515, e dunque Pirckheymer spese tredici anni in apparecchiar la sua edizione e traduzione dei «Caratteri», la quale invero fu seguita quattro anni più tardi dall’altra che Giovanni Cratander pubblicò a Basilea nel 1531, riproducendo un testo del tutto simile ma accompagnato da una traduzione che attribuita vagamente al nostro Poliziano pareva riprodurre un originale notevolmente diverso.

S’iniziava così il fortunoso periodo della critica filologica [p. 68 modifica]intorno all’operetta teofrastea, che, ripubblicata nel 1552 presso Aldo a Venezia da Giambattista Camozzi con l’aggiunta di altri otto caratteri, e nuovamente edita da Enrico Etienne a Parigi nel 1557, e variamente annotata e commentata, riscoteva d’ogni parte l’ammirazione dei dotti. Dolevasi Enrico Stefano che quanto più dilettevoli ed eleganti fossero gli antichi libri, tante più mende e lacune essi presentassero, e ne scriveva a Pier Vettori esaltando l’utilità e lepidezza del libriccino: quid autem hoc Theophrasti libello reperiri, quid fingi aut cogitari potest elegantius? quid utilius? Sed fit nescio quomodo ut quo libri sunt elegantiores eo plerumque comperiantur esse depravatiores. E trentacinque anni dopo, nel 1592, l’ugonotto ginevrino Isacco Casaubon pubblicava a Lione una nuova edizione e traduzione latina con un dottissimo commentario dei ventitré caratteri, per ristamparla di lí a poco nel 1599 con l’aggiunta di altri cinque caratteri ch’egli aveva ritrovati nella biblioteca dell’Elettore palatino in Heidelberg. Affidati alle cure di quel grande studioso, i «Caratteri» apparivano sempre meglio corretti ed emendati, e se ne riproducevano le edizioni e le traduzioni, alcune delle quali, come la prima e seconda edizione di Tommaso Gale, rispettivamente pubblicate a Cambridge nel 1671 e ad Amsterdam nel 1688, sono degne di menzione perché corredate di nuove letture.

È per appunto ora che compaiono le prime traduzioni inglesi, e che Ansaldo Ceba nel 1620 ne apparecchia una in italiano, e Girolamo Benevent nel 1613 ne pubblica un’altra in francese, seguita, nel 1688, da quella del La Bruyère, la quale in appena tre anni raggiunge, presso la casa editrice di Stefano Michallet, la quinta ristampa. Intanto Needham pubblicava a Cambridge, nel 1712, la sua nuova edizione, collazionando il testo su altri otto manoscritti antichi e corredandolo di note e osservazioni critiche e delle dissertazioni del Duport su tredici caratteri: presto seguita nel 1737 dall’edizione olandese di Pauss in Utrecht, anch’essa ragguardevole per le varianti e il commento; e dall’altra, piuttosto disordinata e piena zeppa di congetture e correzioni arbitrarie, che Corrado Schwartz pubblicò a Coburgo nel 1739: e finalmente da quella che Federico Fischer fece stampare nel [p. 69 modifica]1763 nella stessa Coburgo col sussidio di nuovi codici manoscritti e le congetture di ottimi critici, quali il Salmadio e il Reiske, e le sue proprie. Contemporaneamente, Leonardo del Riccio pubblicava in Italia una traduzione, in parte pregevole in parte no, e in genere piuttosto confusa e prolissamente commentata, stampandola nel 1761 presso Michele Moücke in Firenze e corredandola di nuove seppure imprecise lezioni di codici.

C’erano ormai i presupposti necessari perché nella seconda metà dell’Ottocento le scuole filologiche ponessero su nuovi fondamenti la questione dei «Caratteri», e non soltanto ne studiassero la lingua e ne costituissero piú solidamente il testo critico, ma ne illustrassero la natura e le origini. Era intanto avvenuto che qui da noi, in Italia, si scoprissero altri due caratteri in un codice manoscritto della Biblioteca vaticana, e che nel 1786 Giovanni Amaduzzi li pubblicasse per la prima volta a Parma presso Bodoni, e di lí a poco nel 1799 uscisse in Parigi presso Baudelot ed Eberhart l’edizione dei trenta caratteri condotta sul modello di un codice vaticano con traduzione e note critiche di Pietro Coray. Dopo la traduzione che nel 1808 Matteo Marco Beltramini pubblicava in Ferrara, riproducendo quasi alla lettera l’altra che nel 1758 l’avvocato Giuseppe Antonio Costantini aveva pubblicata a Venezia, Giacomo Leopardi collazionava il codice vaticano 110 e scriveva il 22 dicembre del 1824 al marchese Giuseppe Melchiorri in Roma di voler proporre all’editore romano De Romanis «di fare un’edizioncina elegante dei Caratteri di Teofrasto tradotti dal greco in puro e buono italiano. Il libro, affatto del gusto presente, è sconosciuto, si può dire, alla lingua italiana, la quale non ne ha, ch’io sappia, altra traduzione che quella sciocchissima di Costantini fatta non dal greco ma dal francese, e un’altra, non meno insulsa, fatta nel 600, in lingua di quel secolo, e con intelligenza di greco proprio di quei traduttori d’allora».

In una lettera del sei gennaio 1826 Leopardi dirà anche: il Teofrasto è solamente cominciato», ma probabilmente egli alludeva in cosí dire agli studi sul testo e a quelle poche schede critiche che più tardi consegnò a Luigi De Sinner e che furono poi sfruttate dallo studioso francese Stiénevart nell’edizione dei [p. 70 modifica]«Caratteri» pubblicata a Parigi nel 1842. Non tradusse che il prologo e il primo carattere, e di quel che egli sentisse e giudicasse di Teofrasto e dell’opera sua altra testimonianza non c’è che non siano poche parole dello «Zibaldone» e le pagine veramente felici della operetta morale intitolata «Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte», che sono state da noi più volte per altri luoghi citate e che qui citeremo ancora a ricordo della grande stima che di Teofrasto ebbe quel grande poeta nostro: «ora volendo cercare quello che potesse avere indotto nell’animo di Teofrasto il sentimento della vanità della gloria e della vita, il quale a ragguaglio di quel tempo e di quella nazione riesce straordinario, troveremo primieramente che la scienza del detto filosofo non si conteneva dentro ai termini di tale o tal’altra parte delle cose, ma si stendeva poco meno che a tutto lo scibile, quanto era lo scibile in quella età, come si raccoglie dalla tavola degli scritti di Teofrasto, lasciati perire la massima parte». La versione non fu fatta dal Leopardi, ma la traduzione che Dionigi Leondarakis pubblicava nel 1887 a Bologna presso Turchi e Veroli, e poi di nuovo a Bologna nel 1830 presso Nobili, e finalmente a Pisa nel 1834; e le altre che nel 1841 Tullio Dandolo stampava a Torino, e Vincenzo Marchesani a Napoli nel 1868 e nel 1875: dimostrarono quale interesse riscotesse l’operetta teofrastea anche in Italia. Fuori d’Italia apparivano le edizioni di Ast nel 1816, di Hottinger nel 1821, di Thiersch nel 1822, i di Sheppard nel 1852; e intanto lo studioso tedesco Wurm pubblicava un riassunto in greco dei primi ventun capitolo da un codice manoscritto di Monaco, la cosiddetta Epitome Monacensis.

Ormai potevasi stabilire con sicurezza che le prime edizioni del Pirckheymer, del Camozzi, del Casaubon e del Needham, dal 1527 al 1712 erano state condotte su pochi codici e su collazioni posteriori del Dübner e del Cobet, rispettivamente del 1841 e del 1874, pur segnando un certo progresso sulle precedenti, non erano gran che migliori, e s’imponeva perciò una revisione totale della tradizione manoscritta, che, affidata alle cure della Società filologica di Lipsia e diretta da Ottone Ribbeck e preceduta in parte dai lavori di [p. 71 modifica]Ermanno Diels nel 1883, pubblicò i suoi risultati in un’edizione, la quale, se non è neppur essa la migliore perché troppo incompleta per taluni codici, è in ogni caso molto utile e riproduce anche le minime varianti ed errori di molti codici. I manoscritti dei «Caratteri» sono in tutto una sessantina, sui quali eccellono i due Parigini della Biblioteca Nazionale di Parigi numerati coi numeri 2977 e 1983 e siglati rispettivamente con A e B, il primo del decimo o forse anche undecimo secolo, il secondo del decimo, e contenenti ambedue i primi quindici caratteri; ed eccelle il codice 110 della Biblioteca vaticana, del secolo decimosesto, che è il solo che contenga i caratteri dal sedicesimo al trentesimo e che è siglato con la lettera V. Gli altri manoscritti sono raccolti in tre famiglie denominate E D C, ma sono tuttora non esaurientemente collazionati e ci trasmettono rispettivamente i primi quindici, i primi ventitré e i primi ventotto caratteri.

Nessuno dei manoscritti appartenenti alle famiglie E D C sembra risalire oltre il secolo decimoquarto, ma forse non è vero quel che comunemente si afferma che cioè questi codici derivino dagli altri di Parigi e dal codice vaticano, presentando essi varianti notevoli, qualcuna delle quali è antichissima lezione e qualche altra è certamente da preferire alle lezioni che si leggono negli altri codici. È dunque probabile che cotesti codici, uno o due di cotesti codici, sebbene piú recenti, o, come è costume chiamarli, recentiores, siano copia di manoscritti anche piú attendibili di A B e V, e che però neppure oggi sia in tutto e pertutto risoluta la quistione della tradizione manoscritta del «Caratteri». Chi poi pensi che anni fa scoprivansi i frammenti di un Epitome dei capitoli venticinque e ventisei in un papiro di Ossirinco a terzo secolo dopo Cristo, e si pubblicavano da un papiro di Ercolano i libri di Filodémo sui vizi, in uno dei quali leggevasi per esteso il carattere quinto di Teofrasto, e che il testo di quel carattere appariva pressoché identico al testo tramandato dai codici, si accorgerà stibito che la fortuna del libriccino teofrasteo, fu variamente avventurosa anche in antico, e che anche in antico se ne fecero estratti e riassunti di diversa indole e a diverso scopo. L’Epitome di Ossirinco è diretta progenitrice della cosiddetta [p. 72 modifica]Epitome Monacensis della quale abbiamo parlato piú innanzi a pagina 70; e il testo del carattere quinto che Filodémo leggeva negli ultimi anni del primo secolo avanti Cristo è suppergiú il medesimo che leggesi trascritto nei codici medievali.

Noi abbiamo già detto innanzi che una delle prove dell’autenticità dei «Caratteri» consiste per appunto nel fatto che Filodémo di Gàdara li leggeva come noi li leggiamo, e che egli nell’opera intitolata «I vizi» non soltanto cita Teofrasto ma cita ampiamente anche Aristone, il quale a sua volta aveva letto i «Caratteri» teofrastei e aveva cercato di imitarli e forse li aveva anche eguagliati, verso la fine del terzo secolo avanti Cristo. Le definizioni dei vizi nel nostro Teofrasto sono autentiche, poiché esse compaiono redatte al medesimo modo anche in Filodémo, almeno per quel che riguarda il carattere quinto del cosiddetto piallone che Filodémo riferisce per esteso, e forse anche per il secondo carattere dell’adulatore, che Filodemo non riferisce per esteso ma mostra di conoscere nel testo che noi possediamo di esso, cosí come ci è stato tramandato nei codici manoscritti. Leggesi infatti: «l’adulazione si può immaginare che sia supposizione di cose evidenti e incertezza... e la finzione dell’essere amico... la consuetudine di vita vergognosa ma vantaggiosa per chi adula», e vi appare per ciò ripetuta nell’ultima parte la definizione teofrastea. Per quanto lacunoso, i passi di Filodémo provano a sufficienza che anche per definire il vizio dell’adulazione e della piaggeria egli si è servito dei «Caratteri», di un testo dei «Caratteri», in tutto simile al nostro, ma con lezioni che talvolta si ritrovano in codici recenti o che intelligentissimi filologi cautamente corressero.

Ecco perché le ultime edizioni dell’operetta teofrastea pubblicate da Ermanno Diels in Oxford l’anno 1909, da Ottavio Navarre a Parigi nel 1920, da Ottone Immisch a Lipsia nel 1923 sembrano, pur con molte riserve, le piú attendibili, perché meglio ordinate e redatte. Inoltre, il saggio del Pasquali pubblicato nel 1918 in «Rassegna italiana di lingue e letterature classiche» e una sua traduzione edita qualche anno dopo dal Sansoni di Firenze rappresentano quel che di piú acuto si sia scritto in proposito, e scoprono a tutti che forse la verità sul testo dei «Caratteri» [p. 73 modifica]è assai più semplice di quel che non sembri, non essendo possibile in nessun modo stabilire una vera e propria tradizione manoscritta con bene definite famiglie di codici, ma apparendo naturale che i «Caratteri» letti e studiati privatamente e nelle scuole siano andati fino dalla più remota antichità soggetti a corruzione. Chi volesse oggi apparecchiare una nuova edizione dovrebbe tener conto di tutti i codici e seguire un criterio eclettico, caso per caso, dovunque si presentassero lezioni diverse: non un criterio meccanico, ma intelligentemente eclettico, che è poi il migliore, io penso, non per il solo Teofrasto, ma per qualunque altro scrittore, poeta o prosatore che esso sia.

E poiché ci siamo, confesso che non me la sento di cacciar via dal testo dei «Caratteri» le infamate e malfamate chiuse. Ce ne sono due che sembrano degne di Teofrasto, e ce n’è che degne di lui non suonano in ogni parola ed espressione; ma nessuna di esse è in tutto e per tutto indegna di Teofrasto, nessuna gli è in tutto e per tutto estranea. Leggete, per esempio, la chiusa del primo carattere, o la chiusa del sesto, e vi accorgerete subito che alcune parole come l’ἐργώδεις da noi tradotto con «fastidiosi», e l’εὔλυτον στόμα «la bocca sciolta all’ingiuria», sono, nel sesto, parole altrettanto espressive che φωνὰς καὶ πλοκὰς καὶ παλιλλογίας «frasi e rigiri e contraddizioni» nel primo; altrettanto efficaci che l’uso del παρασείειν «agitar le braccia» e del διαράμενον «aprendo i compassi (delle gambe)», e dell’ἀπύρευτος «senza febbre» nella chiusa del terzo carattere. Sarà proprio vero che Teofrasto non ha potuto scriver lui la chiusa di questo terzo carattere: «E però bisogna che a braccia sciolte e a gambe levate fugga via da cotesta gente chi vuol essere senza febbre, poiché è fatica reggerla con chi non fa distinzione tra ozio e negozio»? E non sarà di Teofrasto la chiusa del decimo carattere: «E insomma degli spilorci è possibile veder tarlati anche gli scrigni del danaro, e arrugginite le chiavi; ed essi poi portar vestiti più corti delle gambe, e ungersi da ampolline piccole piccole, e andar rasati fino alla pelle. E sul mezzo del giorno levarsi le scarpe e scongiurare i tintori che il loro vestito lo puliscano con terra di molta, affinché poi non si insudici subito»? [p. 74 modifica]No non è da credere che un imitatore di Teofrasto sia stato cosî bravo in coteste aggiunte; e che siano farina di sacco non teofrasteo le «ampolline piccole piccole», e le «chiavi arrugginite», e quei «capelli rasati fino alla pelle». C’è soltanto da pregar certi critici che non corrino troppo verso il fantasioso, e che non sottilizzino in quisquiglie le quali sono minuzzaglie di grammatica veramente pedantesca. O non c’è stato forse un francese, al quale è sembrato sospetto il διφᾶν, «frugare», del carattere decimo, perché, egli dice, parola poetica? Ma Teofrasto adopera διφᾶν a quel medesimo modo che nella «Storia delle piante» adopera, parlando di alberi che perdono i loro frutti, ἀμέρδειν «privare»; o che adopera ἔρνος «giovane pianta»; e che Aristotele, nella «Storia degli animali», adopera βῆσσα «vallone»: anche queste, se si vuole, parole che dal linguaggio della poesia sono poi passate nella comune lingua di tutti. Del resto, nella «Storia delle piante» ἐνιαυτοφορεῖν che significa «produrre nell’anno» è un bellissimo composto formato da Teofrasto, ed è stato Teofrasto il primo a comporre ἀναθεωρεῖν col significato di «esaminare scrupolosamente», donde poi, nel successore Aristone, leggiamo ἀναθεώρησις. E non è forse quasi poetica l’immagine del «denudare», ἀπογυμνοῦν, del settimo carattere? Poetica perché anche quel verbo fu adoperato in poesia? Via, è delicatezza affettata di schifiltosi cotesta filologia, e sa di alterigia e vanità, e non giova a nulla o forse giova soltanto a confondere le idee.

Io penso invece che Teofrasto ha curato quel suo libriccino con tanto amore che anzitutto gli trovò il titolo quant’altri mai felice di «Caratteri morali», ad esprimere l’impressione che l’abitudine e gli affetti e i pensieri e gli abiti stampano nell’anima e nelle azioni dell’uomo. Anche il titolo è suo, giacché prima di lui la parola greca character è stata adoperara, sì, in quel senso vagamente da Erodoto che nel primo libro racconta di Astiage, il quale conosce in Ciro un’aria di famiglia: «i tratti del viso del ragazzo gli pareva che gli assomigliassero»; e fu poi piú esplicitamente ripetuta da Euripide nell’«Ercole furente» come signum virtutis χαρακτῆρ´ ἀρετᾶς: ma in sostanza non c’è nessun dubbio che Teofrasto abbia battezzato il vocabolo nel battistero della [p. 75 modifica]filosofia, obbedendo all’argutezza con che egli penetrava nelle più piccole cose e argomentava per la verità. E distintamente suo appare anche il modo come sono stati raccolti i trenta caratteri di difetti tutti simili tra loro e tutti derivanti da mancanza di tatto, anziché da volere corrotto o male indirizzato.

I vizi considerati da Teofrasto sono aspetti particolari di altri da Aristotele non considerati affatto; o di qualità morali che Aristotele descrive rapidamente; o sono anche descrizioni di qualità che Aristotele brevemente definisce. Conviene anche dire che le definizioni che Teofrasto prepone ai singoli caratteri spesse volte sono troppo concettose, e che quella dello «screanzato», per esempio, è molto meno precisa dell’altra del «maleducato» in Aristone, e che non sempre si può o si deve imputare alla negligenza o poco intelligenza dei copisti bizantini l’assurdità di talune espressioni. Gli arguti ritratti adombrati dal degno maestro di Menandro sono stati sbozzati e sviluppati assai più che i caratteri descritti da Aristone, ma meno, molto meno di Aristone, si è preoccupato Teofrasto di raggiungere una certa pienezza di contenuto, preferendo egli lasciare pressoché indefinito quel che Aristone cercherà invece di rendere piú chiaro ed evidente. Non esiste, dunque, un Teofrasto autentico che i filologi avrebbero il dovere di riesumare tra le immondizie bizantine: esiste un Teofrasto che il tempo ha ricoperto di polvere, e che bisogna soltanto risciacquare perché egli n’esca netto e schietto senza tuttavia esser lindo e inamidato come un elegantone.

Alle recenti storie che fantasiosi filologi hanno inventato sulle venturose fortune di questo libriccino, immaginando che il manoscritto dei «Caratteri» si sarebbe salvato insieme con altri manoscritti teofrastei e di Aristotele da non so più quali pericoli e che Andronico di Rodi li avrebbe pubblicati per la prima volta nel Primo secolo avanti Cristo, io non credo. Dico che non credo all’ipotesi che i «Caratteri» avrebbero seguito la medesima sorte di quegli altri manoscritti delle lezioni di Aristotele e di Teofrasto: e son convinto per quel che ho detto fin qui, che Teofrasto pubblicò egli per primo i «Caratteri», ed egli per primo li sentí e giudicò opera d’arte. Lasciateci credere che questo intelligentissimo figlio [p. 76 modifica]di un tintore, e che appunto perché figlio di tintore apparteneva alla borghesia nata dal commercio, e che da Lesbo venne ad ascoltare Aristotele in Atene dopo essere stato già suo scolaro in Mitilene, e Aristotele gli mutò il nome di Tirtamo nell’altro di Eufrasto e poi di Teofrasto: lasciateci credere che questo Teofrasto fosse uomo capace di sentir da sé, per suo istinto, quel che noi stessi oggi giudichiamo del suo libriccino. Ogni altra ipotesi non tanto resulterebbe fantasiosa e vanamente strologante tra la congettura e la presunzione, quanto irriverente verso la memoria e grandezza di uno scrittore che non fu vilissimo filosofante e non ebbe il vizio di certi pedanti o di certi accademici intronati sempre disposti a far della poltrona comodissimo trono.

Soltanto chi traduca con schiettezza che temperi parsimoniosamente le difficoltà del testo riesce a capire la fresca e saporosa prosa dei «Caratteri». E dunque noi cercheremo di tradurre commentando brevemente, con note di qualche rilievo e necessarie a chiarire quei luoghi in cui ci allontaniamo dal testo dell’edizione di Ermanno Diels. La traduzione nostra si aggiunge a quella molto toscana da Ildefonso Nieri pubblicata a Lucca nel 1892, all’altra che Augusto Romizi pubblicò nel 1899 a Firenze presso la casa editrice Sansoni, e alla piú recente che Giorgio Pasquali ha pubblicata presso il medesimo editore nel 1919. Non elegante e neppure troppo rozza, io spero che essa riesca in qualche modo a rinverdire in questo secolo la memoria dell’amabilissimo Teofrasto.