leggesi nell’antologista Aulo Gellio: Est autem id vitium plerumqgue serae cruditionis quam Graeci opsimathian appellant, ut quod nunquam didiceris diu ignoraveris, cum id scire aliguando coeperis, magni facias quo in loco cumque et quacumque in re dicere. Veluti Romae nobis praesentibus vetus celebratusque homo in causis sed repentina et quasi tumultuaria doctrina praeditus, cum apud praefectum urbi verba faceret et dicere vellet inopi quendam miseroque victu vivere et furfureum panem esitare vinumque erucium et fetidum potare, «hic, inquit, eques romanus apiudam edit et floccos bibit». Aspexerunt ommes qui aderant, alius alium, primo tristiores turbato et requirente voltu, quidnam illud utriusque verbi foret; post deinde, quasi nescio quid tusce aut gallice dixisset, omnes riserunt. Legerat autem ille apludam veteres rusticos frumenti furfurem dixisse, idque a Plauto in comoedia, si ca Plauti est, quae Astraba inscripta est, positum esse.
«C’è il difetto assai frequente dell’imparar tardi che i Greci chiamano opsimathian, cioè a dire che quel che tu non hai mai appreso e a lungo hai ignorato non appena tu l'abbia imparato ne faccia tal conto che lo dica in qualunque occasione e cosa. Come, per appunto alla nostra presenza, un vecchio e rinomato avvocato di Roma, ma provvisto di cultura pressoché tumultuaria, il quale parlando col prefetto dell’urbe e volendo dire che il tale dei tali viveva miserevolmente e mangiava pan di crusca e beveva vino acidoso e fetido, uscì a dire «questo cavalier romano mangia loppa e beve feccia». Quelli che erano presenti si guardarono l’un l’altro, dapprima piuttosto seri nel volto turbato e interrogante, che cosa volessero significar quelle parole, e poi, come se avesse pronunziato parola etrusca o gallica, tutti scoppiarono a ridere. Aveva difatti letto, l’avvocato, che i nostri antichi rurali chiamavano loppa la crusca, e che tal parola è nella commedia di Plauto, seppure è di Plauto la commedia che intitolasi Il basto». Non si tratta, è vero, di un carattere, ma di un episodio che Aulo Gellio racconta per dimostrar come sia ridicolo adoperar parole che l’uso ha dimesse; e dunque al nostro scopo gioverebbe assai più citare per esteso il carattere dell’ostentator pecuniosus, che è per appunto il carattere descritto nel quarto libro della cosiddetta