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il filosofo teofrasto

conda, e che assai probabilmente è figlio dell’altro Lollio console del 21 avanti Cristo che il poeta onora con l’ode nona del quarto libro. Nella seconda epistola che precede di qualche anno la diciottesima, il poeta aveva scritto che chi ben comincia è alla metà dell’opera, dimidium facti qui coepit habet, e aveva premesso un discorsetto su Omero che forse giova riassumere: «mentre a Roma tu, o caro Lollio, attendi ad esercitazioni di retorica, io a Palestrina mi son riletto Omero che di filosofia morale pratica è tanto miglior maestro d’ogni filosofo. Se puoi darmi retta un momento, ti dirò perché è cosî, perché nessuno ha descritto con altrettanta verità ed evidenza le follie e le passioni umane. Gli eroi dell’Iliade, così Troiani come Greci, ne son dominati e perciò restan sordi alla parola ammonitrice dei più savi, e della loro stoltezza i popoli pagano il fio. E nell’Odissea ci vien proposto un modello di virtù e di saggezza in Ulisse che tanti mali sopportò con fermo cuore, e non si lasciò attrarre dalle lusinghe di Circe, nè dai canti delle Sirene. Noi invece non ad Ulisse somigliamo, ma ai Proci e ai Feaci, per la nostra vita molle e oziosa. Svegliamoci».

Il preambolo della seconda epistola spiega abbastanza il perché Orazio dedicherà al medesimo Lollio anche la diciottesima, che è un’epistola ricca di filosofia morale e sembra addirittura un codice di cortigianeria. «Conoscendo, o Lollio, il tuo carattere libero capisco benissimo», scrive Orazio, «che trattando da amico coi grandi tu tema di parere adulatore; ma dall’adulatore a un amico ci corre quanto da una matrona a una meretrice. Quel che importa è che si sappia tenere il giusto mezzo, egualmente lontani da ogni eccesso, come per esempio da una voluta rozzezza di modi e trascuratezza della persona, dall’ossequio servile, dalla pretesa d’aver sempre ragione, così da attaccar lite per quistioni di lana caprina. E non si creda, imitando la vita viziosa dei signori, di ingraziarseli, chè anzi saranno i primi a disprezzare il donnaiuolo, il giocatore, il vanaglorioso, l’avido di danaro. C’è da sentirsi dire: io ho il diritto d’essere anche vizioso, tu no! Eutrápelo, quando voleva far del male a qualcuno, gli regalava ricche vesti per spingerlo a una vita di lusso e di vizio, cioè alla


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