di un tintore, e che appunto perché figlio di tintore apparteneva alla borghesia nata dal commercio, e che da Lesbo venne ad ascoltare Aristotele in Atene dopo essere stato già suo scolaro in Mitilene, e Aristotele gli mutò il nome di Tirtamo nell’altro di Eufrasto e poi di Teofrasto: lasciateci credere che questo Teofrasto fosse uomo capace di sentir da sé, per suo istinto, quel che noi stessi oggi giudichiamo del suo libriccino. Ogni altra ipotesi non tanto resulterebbe fantasiosa e vanamente strologante tra la congettura e la presunzione, quanto irriverente verso la memoria e grandezza di uno scrittore che non fu vilissimo filosofante e non ebbe il vizio di certi pedanti o di certi accademici intronati sempre disposti a far della poltrona comodissimo trono.
Soltanto chi traduca con schiettezza che temperi parsimoniosamente le difficoltà del testo riesce a capire la fresca e saporosa prosa dei «Caratteri». E dunque noi cercheremo di tradurre commentando brevemente, con note di qualche rilievo e necessarie a chiarire quei luoghi in cui ci allontaniamo dal testo dell’edizione di Ermanno Diels. La traduzione nostra si aggiunge a quella molto toscana da Ildefonso Nieri pubblicata a Lucca nel 1892, all’altra che Augusto Romizi pubblicò nel 1899 a Firenze presso la casa editrice Sansoni, e alla piú recente che Giorgio Pasquali ha pubblicata presso il medesimo editore nel 1919. Non elegante e neppure troppo rozza, io spero che essa riesca in qualche modo a rinverdire in questo secolo la memoria dell’amabilissimo Teofrasto.