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il filosofo teofrasto

tome Monacensis della quale abbiamo parlato piú innanzi a pagina 70; e il testo del carattere quinto che Filodémo leggeva negli ultimi anni del primo secolo avanti Cristo è suppergiú il medesimo che leggesi trascritto nei codici medievali.

Noi abbiamo già detto innanzi che una delle prove dell’autenticità dei «Caratteri» consiste per appunto nel fatto che Filodémo di Gàdara li leggeva come noi li leggiamo, e che egli nell’opera intitolata «I vizi» non soltanto cita Teofrasto ma cita ampiamente anche Aristone, il quale a sua volta aveva letto i «Caratteri» teofrastei e aveva cercato di imitarli e forse li aveva anche eguagliati, verso la fine del terzo secolo avanti Cristo. Le definizioni dei vizi nel nostro Teofrasto sono autentiche, poiché esse compaiono redatte al medesimo modo anche in Filodémo, almeno per quel che riguarda il carattere quinto del cosiddetto piallone che Filodémo riferisce per esteso, e forse anche per il secondo carattere dell’adulatore, che Filodemo non riferisce per esteso ma mostra di conoscere nel testo che noi possediamo di esso, cosí come ci è stato tramandato nei codici manoscritti. Leggesi infatti: «l’adulazione si può immaginare che sia supposizione di cose evidenti e incertezza... e la finzione dell’essere amico... la consuetudine di vita vergognosa ma vantaggiosa per chi adula», e vi appare per ciò ripetuta nell’ultima parte la definizione teofrastea. Per quanto lacunoso, i passi di Filodémo provano a sufficienza che anche per definire il vizio dell’adulazione e della piaggeria egli si è servito dei «Caratteri», di un testo dei «Caratteri», in tutto simile al nostro, ma con lezioni che talvolta si ritrovano in codici recenti o che intelligentissimi filologi cautamente corressero.

Ecco perché le ultime edizioni dell’operetta teofrastea pubblicate da Ermanno Diels in Oxford l’anno 1909, da Ottavio Navarre a Parigi nel 1920, da Ottone Immisch a Lipsia nel 1923 sembrano, pur con molte riserve, le piú attendibili, perché meglio ordinate e redatte. Inoltre, il saggio del Pasquali pubblicato nel 1918 in «Rassegna italiana di lingue e letterature classiche» e una sua traduzione edita qualche anno dopo dal Sansoni di Firenze rappresentano quel che di piú acuto si sia scritto in proposito, e scoprono a tutti che forse la verità sul testo dei «Caratteri»


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