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la fortuna di un libro |
eccelleva nell’arte della pittura ammirasse quam affabre senex ille et sapiens Theophrastus humanas affectiones depingere novisset; e dolevasi intanto di non aver potuto meglio curare il difficile testo greco e di non aver saputo rendere in efficace latino espressioni e vocaboli dell’originale. Tu vero, mi Alberte, benigne graphicam hanc Theophrasti picturam accipe, et si illam penicillo imitari nequis, mente saltem diligenter revolve. Nam practerguam quod non parum proderit, abunde risum praebebit, ac multum oblectare poterit. «E tu, Alberto mio, accetta di buon animo questa letteraria pittura di Teofrasto, e se non puoi imitarla col tuo pennello leggila e rileggila almeno attentamente, giacché non solo essa adduce giovamento non piccolo, ma offre altresì abbondante riso e saprà procacciare molto diletto ».
Nella prefazione, Pirckeymer riproduceva anche la lettera con che il conte di Mirandola aveva accompagnato l’invio del manoscritto greco: «eccoti i caratteri di Teofrasto trascritti in greco, e dunque dal tuo giornale di cassa puoi cancellare il mio debito. Se trovassi poco castigato il volume, ne darai colpa al copista e al tempo stesso concedimi venia a me che occupatissimo in questi grandi e frequenti tumulti d’Italia non ebbi tempo, per la gravezza delle continue brighe, di leggere attentamente il libriccino e diligentemente collazionarlo sull’esemplare». En tibi Theophrast characteres exscriptos graece. Relue iam debitum ex tua ephemeride. Si castigatius volumen fortasse desiderabis, culpabis librarvum, dabisque simul veniam militi mune in Italiae crebris magnisque tumudtibus occupatissimo cui per assiduas molestiarum moles non licuit libellum per se percurrere, nedum ad exemplar perpendendo conferre. La lettera di Gian Francesco Pico è datata da Mirandola l’otto settembre 1515, e dunque Pirckheymer spese tredici anni in apparecchiar la sua edizione e traduzione dei «Caratteri», la quale invero fu seguita quattro anni più tardi dall’altra che Giovanni Cratander pubblicò a Basilea nel 1531, riproducendo un testo del tutto simile ma accompagnato da una traduzione che attribuita vagamente al nostro Poliziano pareva riprodurre un originale notevolmente diverso.
S’iniziava così il fortunoso periodo della critica filologica in-
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