I Caratteri/Il filosofo Teofrasto/Capo secondo
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CAPO SECONDO
LA COMPOSIZIONE DEI «CARATTERI»
L’antologista Ateneo avverte che nell’opera sulle passioni d’amore intitolata per appunto L’erotico Teofrasto adduceva un frammento del poeta tragico Cherémone a dimostrar che l’amore è come il vino, e ci rivela anch’esso il carattere degli uomini. Ne argomentiamo perciò che Teofrasto non trascurò di studiare ogni sentimento che fosse appropriato a stimolare e scuotere gli animi e a rivelarne la natura e le facoltà e gli errori più o meno generosi, egli stesso forse essendo capace d’affezioni molte e varie e potenti, se è vero che «le qualità morali come anche gli affetti degli uomini, velendoli rappresentare al vivo, non tanto si possono ricavare dall’osservazione materiale dei fatti e delle maniere altrui, quanto dall’animo proprio, eziandio quando sono disparatissimi dagli abiti dello scrittore». Giacomo Leopardi, dal quale ripeto le parole quassù virgolate, aggiunge che così fanno i drammatici e gli altri poeti, e vorrei pertanto soggiungere anch’io che scolaro e amico di Teofrasto fu quel Menandro poeta comico che reputò l’uomo essere animale graziosissimo, e rappresentò sulle scene del teatro ateniese la nudità e felicità e infelicità della nostra natura.
Scolaro di Aristotele, il nostro Teofrasto si è interessato, a lezione e negli scritti, di problemi etici, e, come il maestro, ha composto anche lui un’opera sul piacere, la cui autenticità par che fosse revocata in dubbio da chi forse la giudicava compilata su appunti di lezioni che Aristotele aveva tenuto sul medesimo argomento. È vero, del resto, che sull’esempio di Aristotele Teofrasto ha scritto tre libri sull’amicizia, ed è vero altresì che Aristotele per primo in vari luoghi dell’«Etica Nicomachea», soprattutto nel quarto libro, aveva esaminato le virtù etiche e i loro contrari, e studiato le finalità morali entro i termini della natura umana e delle sue tendenze, concludendone che la virù consiste in una equilibrata medietà, la quale dista egualmente dall’eccesso e dal difetto, che ne sono perciò gli estremi razionali. Virtú «etiche» e non già virtú «dianoetiche», appunto perché l’uomo non è soltanto ragione ma è soprattutto sentimento e passione, è una creatura aderente alla realtà e vibrante di affetti e inclinazioni: e dunque della condizione comune degli uomini Aristotele s’interessò nell’«Etica» dedicata a Nicomaco, laddove nell’altra indirizzata ad Eudémo trattava della virtus propriamente detta. Ma è verissimo anche che gli studiosi del pensiero di Teofrasto, e segnatamente quelli che si sono occupati della composizione dei «Caratteri», hanno trascurato di mettere in evidenza un passo di Stobeo dal quale risulta che Teofrasto dette particolar valore alla medietas, o mediocritas che dir si voglia, e ch’egli per primo se ne avvalse ai fini dell’etica descrittiva.
Avremo modo di citare piú innanzi la testimonianza di Stobeo che in parte è suffragata anche da quel che Cicerone scrive in genere sui Peripatetici, nel capitolo decimo del terzo libro delle «Disputazioni tusculane», a proposito del malum mediocre. Qui, per intanto, gioverà avvertire che l’etica propriamente detta aveva fatto progressi notevoli già con Aristotele, e che per appunto Aristotele penetrando nell’animo umano aveva per così dire dissezionato le sue passioni e analizzato i motivi più astratti delle sue azioni. I dodici schemi ch’egli propone delle virtú, corrispondenti rispettivamente ai ventiquattro estremi razionali dell’eccesso e del difetto, sono chiariti da definizioni che riscuotono tuttora il nostro consenso e appaiono mirabilmente precise non soltanto per la loro giustezza ma soprattutto per la sagace freschezza che le distingue. E bisogna pur convenire che Teofrasto dovesse reputarle realistiche, se è vero che egli prediligeva una cosiffatta equabilità in ogni affezione ed azione, e che perfino le passioni d’amore, come informa l’Ateneo che abbiamo citato a pag. 7, egli giudicava piacevoli se misurate, ma molestissime se torbide ed esasperanti. Chi mai potrebbe negare che Teofrasto ha sempre preferito la misura e moderazione, a cominciar dalla politica ch’egli nell’Atene de’ tempi suoi sentiva acremente inasprita dagli eccessi della demagogia e del partito oligarchico, e avvilita dall’indifferenza dei piú, i quali si affidavano, incerti, ora all’una ora all’altra fazione?
Noi non possediamo l’opuscolo teofrasteo intitolato La regalità che alcuni attribuiscono vagamente a un Sosibio, ma che più circostanziate notizie dicono da Teofrasto dedicato a re Cassandro; e però non siamo in grado di dire quel ch’egli pensasse sulle condizioni politiche della Grecia, sebbene per altro appaia evidente che in un certo qual modo egli vi si accomodasse alla meglio senza straniarsene col disdegno epicureo, e neppur maledicendole con la mordace e spesso rabbiosa e contumeliosa musoneria di altri filosofi. Le procellose vicende che s’erano abbattute sul mondo greco gli avevano appreso che «la fortuna è sconsiderata e terribile in rapirci quel che noi abbiamo faticato e in sommuovere quel che noi crediamo sia la prosperità, giacché essa non persegue nessuna mèta determinata»; e ne aveva tratto motivo a dubitar che forse il carattere dell’uomo muti col mutar della sua fortuna, sí che gli Stoici polemizzarono con lui biasimandone il crudo realismo. Ma sarebbe ingiustizia se noi l’accusassimo d’essersi assuefatto supinamente a cotesto realismo, e se non riconoscessimo che per l’appunto da esso Teofrasto acquistò coscienza e conoscenza delle cose umane e cercò di indirizzare a più generosi e vasti orizzonti la vacillante morale del secolo. Egli è non tanto un filosofo, quanto un moralista, e la natura propria del suo ingegno non lo porta a porre generali principii e fatti nuovi, ma a trarre dai fatti alcune regole generali architettando in bell’ordine gli elementi dell’umano sapere, e, nel campo specifico della scienza morale, a dimostrar per davvero, notomizzando gli uomini con la freddezza di un chirurgo dell’anima, a dimostrar per davvero che la «mezzanità» aristotelica, la medietas o mesotes, è un punto fermo intorno al quale si muovono, più o meno vorticosamente, le generazioni.
Se vogliamo credere a Stobeo anche Teofrasto sarebbesi dilettato di comporre schemi di virtú e di estremi razionali in parte identici in parte diversi dagli aristotelici: la temperanza, l’intemperanza, la storditezza; la mansuetudine, l’eccitabilità, l’insensibilità; il coraggio, la temerarietà, la codardia; la generosità, la pusillanimità, l’orgoglio; la magnificenza, la meschinità, la fastosità. Ma è notevole che quel che Stobeo dice di Teofrasto, che cioè anche Teofrasto accettasse la medietas e l’essenzialità aristoteliche della virtú, sia subito accompagnato dalla citazione di un passo del medesimo Teofrasto, che, pur non essendo in nessun modo circostanziato per quel che riguardi l’opera donde esso è citato, induce tuttavia a ritener per fermo che Teofrasto a lezione, in coteste sue lezioni di etica, solesse, come avverte l’Ateneo da noi già mentovato a pagina 7, solesse, dunque, Teofrasto addurre esempi vivacissimi di vizi e di virtú. Nel testo riprodotto da Stobeo le parole di Teofrasto sono le seguenti: «costui che molte cose racconta e chiacchiera a lungo, questi che parla poco e non dice neppur quel che si deve dire, cotest’altro che dice invece quel che [non] si dovrebbe dire, nessuno di costoro coglie il momento giusto». Sono parole di Teofrasto che malamente edite dai filologi nol abbiamo corrette aggiungendo il [non]; e son parole le quali non permettono nessun dubbio più sul modo come Teofrasto facesse lezione e sugli esempi ch’egli a lezione solesse citare a conforto della sua, diciamo cosí, fenomenologia etica. Ed è però strano che nessuno degli studiosi di Teofrasto i quali in quest’ultimo trentennio si sono occupati dei «Caratteri», abbia tenuto conto di quel frammento che è pur cosí saporoso e fresco, non soltanto perché vi appaiono allineati il ciarlone, l’uomo silenzioso e lo sguatato, ma perché lo stile, se di stile si può parlare in cosí breve periodo, è caratterizzato dall’uso dei pronomi, da noi tradotti alla meglio, ma nell’originale greco anche piú evidenti e indicativi per la loro collocazione.
Racconta Diogene Laerzio che un giorno Teofrasto cosí disse che durante un banchetto serbava dignitoso silenzio: «se sei un ignorante, fai bene a star zitto; ma se sei uomo colto, non si può dire che tu agisca da saggio»; e Plutarco avverte che il nostro filosofo scorgeva nella maldicenza uno sguaiato rimprovero degli altrui difetti. Queste notizie e altre ancora di carattere aneddotico e sentenzioso permettono di credere che molto s’interessasse Teofrasto di un’etica descrittiva, e che titoli di opere sue oggi perdute, come dell’opera sull’adulazione e dell’altra sul ridicolo, confermino in lui certe doti di spirito le quali convengono benissimo ai costumi di vita quasi mondana da lui prediletti. Chi poi ha cercato di ricostruire con meticolosa diligenza di ricerche l’opera di Teofrasto anch’essa perduta sull’ipocrisia, ha pressoché dimostrato vero che a fonte teofrastea risalgano in parte motivi sul medesimo argomento ripetuti dalla retorica posteriore, per esempio da Eustazio. Ed è infine probabile che anche gli studi di Teofrasto sulla commedia riguardassero piuttosto i caratteri che la storia propriamente detta delle forme della commedia.
Di un Teofrasto uomo di spirito e abilissimo in rilevare e descrivere il ridicolo piuttosto che il serio della natura umana, è lecito parlare, ma fino a un certo punto. In ogni caso è certo che il successore di Aristotele, pur scoprendo nelle opere del maestro «i primi spunti un po’ timidi di aneddoti simili a quelli dei quali intessé l’opera sua», non si rifà ad Aristotele, ma addirittura a Platone. L’esempio che Pasquali, ripetendolo da altri, adduce a conferma di un Teofrasto il quale avrebbe, seppure con genialissima originalità, imitato Aristotele, non mi convince affatto, giacché il cosiddetto bânausos, che è l’uomo volgare e privo di gusto, è vero che Aristotele nel quarto libro dell’«Etica nicomachea» ce lo descrive come un tale «che nelle piccole festicciuole spende molte ricchezze e fa sfoggio oltre misura sí da convitar gli amici quasi a un banchetto di nozze, e se fa il corego riveste i coreuti comici di vesti di porpora durante la parodos da quel provinciale ch’egli è, e questo fa non per amor del bello ma per isfoggiar lusso credendo di colpir le immaginazioni, e se deve spender molto spende poco e se invece deve spender poco spende molto»: è vero dunque, ed è evidente che qui Aristotele si abbandona «con voluttà maliziosa» a descriverci il tipo del villan rifatto, e che Teofrasto avrebbe potuto leggere, e difatti lesse, in quelle poche righe spedienti stilistici per i modi sintattici dei suoi «Caratteri»; ma già prima di Aristotele, il maestro di Aristotele ch’era stato anche maestro di Teofrasto, aveva con piú acutezza e più arte esperimentato simili descrizioni, ad altro fine, s’intende, e con altro animo. E credo che in nessun altro luogo più che in questi che noi citeremo innanzi, Platone si riveli appassionato ammiratore e lettore dei mimi di Sófrone.
In Platone il concetto della personalità umana muove dal concetto dello Stato, giacché egli, Platone, concepisce sotto un unico punto di vista lo Stato e l’individuo. L’uomo perfetto deve soddisfare tutte le parti dell’anima che sono tre, intelletto è ragione, volontà e coraggio, brama e sensualità, a quel medesimo modo che lo Stato perfetto è anch’esso un’anima che inserisce l’anima del singolo nell’ordinamento naturale ed essenziale delle tre classi dei reggitori, dei guardiani, e dei lavoratori che provvedono ai bisogni fisici della comunità. Pertanto, uno dei piú interessanti capitoli della «Repubblica», l’ottavo, e in parte anche il nono, dimostra per appunto che a costituzioni degenerate corrispondono sempre uomini degenerati, e che la prevalenza dell’una o dell’altra classe nello Stato segni un corrispondente prevalere di questa o quella parte dell’anima e contrassegni di conseguenza caratteri che Platone descrive mirabilmente, con ingegno fatto apposta per acuire la socratica ironia del suo maestro e per consumare un’immortale vendetta dell’offesa giustizia, e della verità vilipesa, e della patria che dall’esempio della morte di Socrate era stata avvilita e contaminata. Piú tardi, molto più tardi, l’erudito e rétore augusteo Dionigi di Alicarnasso si ricorderà di Platone e di questi ultimi libri della «Repubblica» scrivendo: «le indoli seguono la natura dei luoghi della persona, di tutta una gente. Perciò quante sono forme di repubblica tante sono varietà di costumi, onde la politica dalla morale e la morale dalla politica pare a vicenda ingenerarsi».
A me non preme discorrer qui di Platone, ma preme assai stabilire che certe descrizioni di caratteri, le quali si leggono in quei due capitoli della «Repubblica», appaiono magistralmente definite, a cominciar dall’immagine spietatamente allusiva dei fuchi: «i fuchi forniti di ali Iddio li ha creati sprovvisti di pungiglione, ma quelli forniti di... gambe ei li ha fatti alcuni sprovvisti di pungiglione, altri, invece, armati di terribili pungiglioni. E gli sprovvisti di pungiglione si riducono a viver da pitocchi in vecchiaia, ma dagli altri che son muniti di pungiglione nascono tutti coloro che noi chiamiamo col nome di canaglia. È chiaro perciò che in uno Stato dove son pitocchi, ci sono anche nascosti i ladri ed i ladruncoli, e quei che rubano perfino gli arredi sacri, e quelli che per mestiere commettono tutte queste nequizie». Attento scrutatore delle umane coscienze, Platone avverte che è e sarà sempre minacciosa di nuovi pericoli la differenza tra ricchi e poveri, e conclude altresí che soltanto nella difficile prova delle spedizioni militari e di altre gravose comuni esperienze, soltanto «allora i poveri non sono affatto sprezzati dai ricchi; ma bene spesso un povero che magro e bruciato dal sole sia schierato in battaglia accanto a un ricco allevato all’ombra e carico di carne che non dovrebbe esser sua, quel povero, dunque, vedendo ansimare il ricco e perdersi d’animo, pensa che cotesti ricchi sono ricchi per colpa sua...».
Per cotali disordini ruinano le costituzioni e ruinano gli uomini; e da una forma aristocratica dello Stato si cade nell’oligarchica e nella democratica e nella tirannica, per un intimo difetto dell’educazione che introduce nell’anima dei giovani l’oltracotanza e l’impudenza, e fa apparire rozzezza e illiberalità la moderazione e la regola, e denomina viltà la prudenza, e dabbenaggine l’amor proprio; e ne vien fuori un uomo vano le cui sembianze Platone riassume in pochi tratti potenti per verità ed evidenza, cogliendone l’immagine con sicurezza di stile e fantasia vigorosa: «È uomo che vive cosî, alla giornata, e si compiace del desiderio che gli si appresenta, e ora indulge all’ubriachezza e alle flautiste, ora, invece, beve acqua e dimagrisce, oppur si dedica alla ginnastica, o anche se ne sta ozioso e non si occupa di nulla, o addirittura si occupa di filosofia. Il più delle volte però fa l’uomo politico, e, salito in bigoncia, dice e fa quel che gli capita; e, se si mette a emulare la gente d’arme, prende quella strada, o, se la gente d’affari, prende quest’altra. Nella sua vita non c’è né disciplina né regola, ma ci chiama felice e generoso e piacevole cotesto suo vivere, e sempre mai vi si attiene; e però io penso che un cosiffatto individuo, buono a tutto e di diversissimi costumi, bello e multicolore come lo Stato che gli corrisponde, sia tale in verità che molti e molte vorrebbero imitarlo per la vita ch’egli conduce».
È stato detto benissimo che il chiarimento obbiettivo sui valori dell’anima individuo che fanno di essa una persona responsabile discriminante il diritto e il torto, Platone l’ottiene partendo dallo Stato, e però i diversi tipi di uomini che egli ci rappresenta sono per ciò solo il riflesso umano dell’ordine sociale nel quale essi vivono. Singolarmente espressivo è a tal proposito quel che Platone scrive del governo misto di buono e cattivo e del modo come nasce e si forma in uno Stato timocratico il carattere del giovanotto ambizioso, accontentandosi, per dirla con parole sue, «di darne un abbozzo senza definirlo minutamente in pittura, giacché anche un abbozzo perinette di veder che sia l’uomo perfettamente giusto e l’uomo che è addirittura ingiusto». Ordunque, un cotal giovane «sarà per l’ambizione assai più arrogante di Glaucone, e, se pure piú lontano dalla musica, tuttavia egli l’amerà, e gli piacerà di ascoltare, ma cercherà di non parlare. Coi servi costui sarà piuttosto duro, ma non perché disprezzi i servi come li disprezza chi ha ricevuto buona educazione: e con gli uomini liberi sarà cortese e molto obbediente verso i governanti, e ambizioso di cariche e di onori, e persuaso di dover salire al comando non già per la sua facondia o alcunché di simile, ma con le opere di guerra e pertinenti alla guerra, e sarà dunque amante della ginnastica e della caccia. E in gioventú sprezzerà le ricchezze, ma, piú vecchio si farà, e sempre più invece le amerà, per aver egli indole bramosa di ricchezze e per non essere francamente incline alla virtú, essendogli mancato il miglior custode dell’anima che è per appunto la ragione».
E qui, a questo proposito, Platone, a spiegar come si formi l’indole di un uomo cosiffatto, aggiunge pennellate da maestro, le quali descrivono l’ambiente famigliare in che il giovane è allevato ed educato: «Si forma all’incirca cosî, perché, talvolta, egli è figlio di un brav’uomo, il quale abita in uno Stato non bene governato, e però rifugge dalle cariche e dagli onori e dai processi e da altre noie del genere, e desidera farsi piccolo per non aver seccature. Ed egli, il figliuolo, si forma quando comincia a sentir le querimonie della mamma, che si duole che suo marito non sia tra i governanti e d’esser lei considerata assai meno delle altre signore e di veder lui curar troppo poco il benessere della famiglia e non litigar mai nei tribunali, neppur se riceva affronto pubblico o privato, ma prender tutto in santa pace e badar sempre a’ fatti suoi, e verso di lei mostrarsi pressoché indifferente, sí che lei ne prova dolore, e perciò dice al figlio che suo padre non è un uomo, ma è troppo fiacco, e poi aggiunge tante altre cose di quelle che le donne sogliono cantare sul conto dei propri mariti».
La descrizione dell’ambizioso, di come esso si formi e dell’ambiente in che vive, è anche stilisticamente cosí efficace e vivace che a me sembra la progenitrice diretta dei «Caratteri» di Teofrasto. Piú che ad Aristotele, a quei varii luoghi dell’«Etica nicomachea» spesse volte citati dagli studiosi, e segnatamente del quarto libro, preferisco richiamarmi a Platone, a questo Platone dell’ottavo e nono libro della «Repubblica»; e confesso perciò che non so capire come mai e perché quei filologi che si sono occupati con tanto interesse, anche di recente, dei «Caratteri» di Teofrasto, e che hanno con molta dottrina discusso intorno alle origini filosofiche o retoriche dell’operetta teofrastea, abbiano tutti dimenticato che Platone è descrittore di caratteri anche piú acuto e piú limpido di Teofrasto. L’ultimo periodo della descrizione dell’ambizioso, lí dove Platone rappresenta con agilità franca e piacente di spirito le circostanze e condizioni famigliari che concorrono a formare il carattere dell’ambizioso, esso è cosí vario e immaginoso nel dettato che certamente dev’esser sembrato a Teofrasto in tutto degno di imitazione. Chi poi ne osservi la struttura sintattica e il vocabolario intinto qua e là di frasi e locuzioni della lingua parlata, e pertanto consideri come Platone siasi abbandonato alle sue proprie facoltà di artista con la sola preoccupazione di rappresentar fresca di colori la realtà di una famigliuola borghese, converrà in ammettere che questa e nessun’altra è l’origine della prosa dei «Caratteri» teofrastei.
⁂
«I Caratteri sono uno de’ libri di prosa greca piú efficaci e più divertenti: non soggetti alla tirannia dei numeri oratorii, non astretti a schemi di logica rigorosa, liberi nell’ordine dei particolari, essi sono tuttavia, anzi giustappunto per ciò essi sono non prosa d’arte, ma opera d’arte squisita. Ci si sente rifiatare a leggere una buona volta il linguaggio della conversazione, qual’era davvero parlato sulla piazza e nelle botteghe d’Atene del quarto secolo, linguaggio tutto brio, tutto scorci, piú facile quindi talvolta a indovinare e sentire che non a intendere razionalmente e tradurre. E in quei participi telegrafici, in quelle soppressioni ardite di oggetti e complementi si sente una naturalezza che spontanea nel popolano del luogo, nel professore venuto di fuori, il quale ancora dopo molti anni di soggiorno non riusciva a dissimulare l’accento straniero, non può essere se non frutto d’arte raffinata». Il giudizio ora citato sulla prosa teofrastea è di Giorgio Pasquali, e noi crediamo di poterlo sottoscrivere in ogni sua parte cosí vero esso è e cosí limpido. Ma Pasquali pensa che poiché Teofrasto avrà preparato le sue lezioni svolgendo anticipatamente i punti salienti dei suoi corsi, i «Caratteri» conservino appunto da elaborazione dei punti salienti di un corso di fenomenologia de’ costumi, e il filosofo abbia per cosí dire approfittato del suo fine senso di comicità e della sua abilità di scrittore per inserire in uno de’ suoi corsi di etica descrittiva descrizioni bell’e preparate di tipi diversi. In altri termini, Pasquali non crede che i «Caratteri» siano estratti da un’opera retorica, non crede neppure che siano estratti da un’opera di etica propriamente detta: Pasquali afferma semplicemente che questi suoi «Caratteri» Teofrasto li leggesse a scuola per «incatenare l’attenzione de’ suoi ascoltatori e strappare l’applauso ». Teofrasto non li avrebbe composti per potersene poi valere nello scrivere una fenomenologia dei tipi errati o imperfetti di vita morale: se ho ben capito quel che Pasquali intende, Teofrasto non li avrebbe scritti né per caso né di primo acchito, ma al solo scopo di leggerli a scuola, e però essi sarebbero stati pubblicati più tardi, dopo la sua morte, a quel medesimo modo che dopo la morte di Aristotele furono pubblicati corsi di lezioni che il maestro lesse e non pubblicò direttamente, come aveva pubblicate altre sue opere.
Pasquali ha anche osservato e ripetuto con altri che nei «Caratteri» s’incontrano moltissimi iati e tali che riescono insopportabili all’orecchio esercitato, e son propri della lingua parlata, ma non della lingua scritta. Composti di proposizioni infinitive coordinate fra loro e dipendenti tutte da un aggettivo consecutivo iniziale: «tale... che», e solo di rado interrotte da un «è anche capace di...», con poche determinazioni accessorie espresse da participi attivi; i «Caratteri» corrono liberi dalla dignitosa e compassata sintassi di Isocrate e dei seguaci di Isocrate, e suonano monotamente eguali nella definizione iniziale, nel senso che questa ripete sempre le medesime formule con leggerissime varianti, giacché, subito dopo la definizione di ogni vizio, compare l’aggettivo designante il vizioso seguito da un «è tale che...», da cui dipende tutto o poco meno dell’intero capitolo. Il modello del carattere ottavo: «il contar frottole è un mettere insieme a vànvera discorsi e fatti senza nessun fondamento di verità, e il frottolone è tale che incontrato un amico fa subito il viso di circostanza...», è buono anche per gli altri ventinove caratteri e riecheggia in certo modo, ma non in tutto, la sintassi delle brevi definizioni di caratteri che si leggono nell’«Etica a Nicomaco«» di Aristotele. Non è possibile, dunque, nessun dubbio sulla natura diciamo pure scolastica delle definizioni e sul perché Teofrasto le abbia inserite in questa o in quella sua opera di etica.
Ma credere con Pasquali che Teofrasto tenesse lezioni di etica descrittiva e che per tali lezioni egli avesse apparecchiato quelle descrizioni, e cosí le avesse elaborate da presentarle all’ammirazione e attenzione degli scolari, non mi sembra possibile. Intanto, chi ci dice che Teofrasto compose per davvero lezioni di etica descrittiva? Diogene Laerzio nell’elenco delle opere teofrastee non parla affatto di libri di Teofrasto letti a scuola e non pubblicati, mentre vi allude chiaramente a proposito del successore di Teofrasto; e però se gli scritti di Teofrasto, da lui, o, dopo di lui, pubblicati dagli scolari, sono quelli dei quali Diogene riferisce i titoli, io non saprei come Pasquali potrebbe giustificare la sua ipotesi. Resulta infatti dal catalogo diogenico che Teofrasto ha trattato particolari problemi di filosofia morale, senza mai intraprendere un corso di vera e propria etica sistematica e neppure di etica descrittiva; e però i «Caratteri» non avrebbero potuto trovar posto tutti e trenta, quanti essi sono oggidí, in nessuna di quelle opere che s’intitolano «La vita beata», «Il dolore», «Il ridicolo», «Il piacere». L’ipotesi di Pasquali è un compromesso tra le altre due formulate precedentemente da altri studiosi: che i «Caratteri» siano estratti raccolti dal medesimo Teofrasto o dai suoi ammiratori scegliendo fra le opere sue stesse dove capitasse di leggerli; o che siano uno scritto ipomnematico nella forma di materiali che Teofrasto avrebbe messo insieme per scrivere trattati di morale. Ed è, come le altre due, troppo malferma, perché possiamo accettarla e rifiutare per essa testimonianze e documenti i quali inducono a credere che Teofrasto pubblicasse da sé i «Caratteri», nella forma che noi li leggiamo e traduciamo oggi.
In verità, altra cosa è investigare l’origine, diciamo cosí, dei «Caratteri» e altra, tutta diversa, è chiedersi se Teofrasto li abbia pubblicati come opera per sé stante o no. Ed è, io penso, ridicolissimo vezzo questo di voler ridurre tutte le questioni a una questione omerica, oggi soprattutto che anche la famosissima questione omerica sembra un’oraziana contesa di lana caprina. La notizia che noi abbiamo citata a pagina 7, di un Teofrasto il quale a lezione illustrava i piú gravi argomenti con naturali artifizi, e che «una volta, imitando il ghiottone, tirata fuori la lingua si leccasse le labbra», ci mostra come lieto egli fosse di studiare i costumi degli uomini e di osservare gli aspetti ridicoli o addirittura comici, e pronto altresí in rappresentarli con arguzia e discrezione. E alle tante notizie che confermano cotesta sua indole arguta, potremmo aggiungere non soltanto la notissima dell’espressione da lui inventata per le barberie denominandole «conviti senza vino»; ma perfino l’altra riferita dall’antologista Ateneo, a proposito del pittore Parrasio, che Teofrasto nel libro sulla vita beata rappresentava lavorar di lena e con gioia e cantare mentre dipingeva. Amorevolissimo nell’insegnare e amabilissimo nel conversare, egli condiva i suoi ragionamenti di motti graziosi e di graziose facezie, ed era cosî perspicace e puntuto che non poche sentenze si raccolgono da’ suoi frammenti: per esempio, sulle donne che egli vorrebbe eccellenti nelle faccende di casa e non già nelle politiche e letterarie; e sugli scrittori, i quali ammoniva a leggere e rileggere le proprie scritture per evitare biasimevoli e grossolane mende. Che dunque un giorno egli abbia deciso di pubblicare i «Caratteri», e dei tanti da lui descritti a lezione, o in questo o quel suo volume, abbia scelto i piú tipici e i meglio riusciti, è possibile; mentr’è in ogni caso certo che nel terzo secolo dopo Cristo Diogene Laerzio già li leggeva raccolti in un sol volume intitolato indifferentemente «Caratteri morali» o «Morali caratteri», e già se n’erano fatti riassunti, come prova un papiro di Ossirinco, e forse anche Filodémo, nel primo secolo avanti Cristo, li aveva letti cosí, in un sol volume.
Per me la quistione è un’altra, e più importante assai della comunemente e vanamente discussa; giacché non soltanto Ateneo riferisce che Teofrasto un giorno avrebbe a lezione descritto il ghiottone, ma anche Eustazio, l’arcivescovo di Salonicco che nel secolo decimosecondo compose un commento ad Omero, par che conosca un carattere di Teofrasto a noi ignoto, e precisamente quello del valoroso accanto all’altro del codardo. Se cosí fosse, poiché noi possediamo, fra i trenta, il carattere del codardo, sarebbe da reputare che Teofrasto non avesse soltanto raccolto un volume sui vizi, ma anche un altro sulle virtú, e sarebbe per ciò da ritenere esatto quel particolare della sicuramente falsa prefazione, la quale immagina che Teofrasto esponga a un amico l’intenzione di proporre ai figli modelli di virtù e di vizi affinché essi seguano l’esempio dei virtuosi e non dei viziosi. Sarà invece da credere che l’autore della prefazione sia incorso nel medesimo errore che Eustazio, e che, suppergiú del medesimo tempo l’uno e l’altro, tutti e due abbiano con molta leggerezza opinato che Teofrasto tendesse a un ufficio pedagogico fondato sulle norme del conclamato e osservato parallelismo. La prefazione, che prove di natura stilistica e di contenuto ci dicono composta assai tardi, non ha nulla di Teofrasto, e nessun intento pedagogico è imputabile al nostro filosofo che noi amiamo immaginare e rappresentarci lontano da cosiffatti pregiudizi; ma è anche essa buon documento, seppure di epoca troppo recente, che Teofrasto quel suo libriccino lo pubblicò dopo premessavi un’avvertenza, la quale fu poi sostituita dalla stupidissima prefazione dell’anonimo bizantino.
Insomma, chi può negare che i trenta caratteri di Teofrasto, oggi famosi in letteratura come lo sono in politica i trenta tiranni, e che a noi piacciono appunto perché non soggetti alle norme della prosa inamidata e non astretti agli schemi della logica rigorosa, ma liberi e briosi e schietti: chi può negare che i trenta caratteri siano stati pubblicati da Teofrasto? Se essi piacciono a noi, a tutti noi indistintamente; se sono sempre stati giudicati opera d’arte, perché non avrebbero potuto giudicarli opera d’arte i contemporanei di Teofrasto? Non ha nessun valore l’affermazione che da Isocrate in poi qualunque scrittore greco di prosa il quale voglia conseguir successo letterario bada a evitare gli iati; e che perciò Teofrasto non avrebbe messo in commercio cotesta sua operetta, che è piena zeppa di iati e che non ha nessun periodo ben congegnato, ma si distingue invece per un dettato semplice, regolare, spregiudicatamente libero. Chi ragiona cosí per concluderne che l’operetta teofrastea fu letta a lezione e non fu mai pubblicata dall’autore, accusa senza nessun motivo Teofrasto di pusillanimità, e la pusillanimità è a Teofrasto odiosa quanto la vanità; mentre sta di fatto che proprio Teofrasto, il quale par distinzione dei tre stili, del tenue, del mezzano e dell’alto, doveva esser portato ad apprezzare la sua opera e a crederla degna di essere messa in commercio. Se egli ebbe cuore di leggerli a lezione con molto successo, sí da potere «a sua posta divertire gli ascoltatori, incatenare la loro attenzione, strappar loro l’applauso», perché dunque non avrebbe affrontato il giudizio di un pubblico piú vasto? E chi mai potrebbe per ciò disconoscere che Teofrasto anche nel frammento della sua metafisica pubblicato dal Ross e dal Fobes, anche nelle sue opere di botanica, ci appare scrittore semplice ed evidente, pur tra le difficoltà e asprezze degli argomenti?
Piú naturale a me sembra che Teofrasto abbandonatosi, qualche volta, a lezione, a descrizioni di caratteri, proprio cosí come racconta Ateneo, e soddisfatto il gusto degli ascoltatori, ponesse mano all’operetta, e la pubblicasse in questa forma che noi oggi la leggiamo e che la leggeva, nel primo secolo avanti Cristo, l’epicureo Filodémo di Gàdara. Del resto, chi bene osservi la composizione dei «Caratteri», si accorgerà sùbito che il comico vi si accoppia a non so che grave e pietoso, e che lo scrittore non è satellite che ferisce, né carnefice che marchia, ma un interprete fedele che rispetta nell’errante o colpevole l’umana natura il cui suggello non è mai cancellato, e che però, pur tra gli speciali lineamenti dell’attica fisonomia, scopre liberamente, ma pietosamente, la generale e perpetua impronta della nostra indole. È Teofrasto che ha detto che i malvagi gioiscono assai piú dell’infelicità degli altri che della propria fortuna, e che gl’infelici sono meno da compiangere che gl’invidiosi, poiché quelli non soffrono che i propri mali e gl’invidiosi invece sono tormentati dalla felicità degli altri al pari della propria disgrazia; e ha poi soggiunto che non si saprebbe essere uomini virtuosi senza essere uomini pii, e che la religiosità non consiste in celebrare numerosi sacrifizi alla divinità, il che è soltanto segno di fastosa opulenza, ma consiste nell’omaggio che un’anima pura e onesta rende alla divinità. C’è nei «Caratteri» quell’equilibrio tutto teofrasteo che si riscontra anche nelle altre sue opere; e c’è, dalle definizioni uniformemente aristoteliche dei singoli vizi alle descrizioni dei singoli caratteri, una sorta di compromesso tra la prosa aristotelica dell’«Etica a Nicomaco» e la prosa platonica degli ultimi libri della «Repubblica», che, esso sí, sembra non soltanto naturale, ma studiato.
Diogene Laerzio ricorda che Teofrasto scrisse molte lettere e che esse furono raccolte in tre libri. Probabilmente, la prosa delle lettere teofrastee era molto vicina alla prosa dei «Caratteri»; e altrettanto probabilmente anch’esse furono ordinate e pubblicate da Teofrasto. La notizia che si legge in Cicerone di quella vecchietta ateniese che interrogata da lui gli rispose in modo da fargli capire che l’aveva riconosciuto per forastiero all’accento tuttora vernacolo, e che pertanto ferí Teofrasto nell’orgoglio di credersi dopo tanti anni di soggiorno in Atene un autentico ateniese, dimostra che egli studiavasi in tutto di apparire cittadino della nobile e antica Atene, e induce a credere che egual studio egli ponesse negli scritti. La studiata naturalezza della sua prosa io credo nasca di qui, da cotesta vanità o ambizione, se è lecito dir cosí, e da una spontanea aderenza alla realtà; e forse nasce di qui anche la cura ch’egli ha messo in rappresentarci con vivezza la vita ateniese, le feste, le cerimonie religiose, le superstizioni, le istituzioni politiche e militari, il lusso, l’amore per il pettegolezzo. Teofrasto ha tutto osservato e descritto con cuore di artista innamorato della sua Atene, e riesce a trasportare il lettore in ogni luogo di Atene e in ogni casa; nei templi e nei ginnasi; ai sacrifizi e ai banchetti; fra i filosofi, nelle palestre e sotto i portici; nella pubblica piazza dove un ciarlatano e un conta-frottole parlano a vànvera, o dove passeggia, spocchioso e impettito, un bellimbusto; nei tribunali, nei bagni pubblici; al Pireo, fra una gran folla di mercanti presso le navi pronte a salpare; e perfino nelle case private, presso un avaro che s’alza di notte preoccupato che non gli rubino i ladri, o presso quell’altro sciagurato che esce la notte per un bisogno e il cane del vicino l’addenta.
Il fatto solo che Teofrasto abbia piuttosto raccolto esemplari di difetti ridicoli che di difetti pericolosi, e messo insieme trenta peccatori i quali peccano contro l’educazione, il buon giusto e la moda, richiama non più a intenti e preoccupazioni di natura filosofica, ma, oserei dire, a intenti tutt’affatto mondani. Tutti i tentativi di ridurre i caratteri teofrastei alle norme di schemi fissi sono falliti, giacché Teofrasto disseziona anche più di difetti che né il filosofo né vi scopre difetti e sottospecie di difetti che né il filosofo né il moralista scorgerebbero, ma l’artista, sí, scopre e osserva con particolare interesse. Del resto, ch’egli abbia ammirato un giorno la descrizione dell’ambizioso in Platone, nel Platone della «Repubblica» da noi cosí opportunamente citato, e siasi pertanto proposto di comporre anche lui, ma a tutt’altro scopo, descrizioni di caratteri altrettanto vivaci, è possibile più di quel che non sembri. Un’opera di Teofrasto della quale non possediamo neppure un frammento intitolavasi «I costumi politici», e il titolo, se non permette delle congetture, riecheggia qualche cosa di puramente platonico, e quasi mi esorta a credere che in quel libro fossero raccolti altri caratteri del tipo del «cittadino oligarchico» che è il ventesimosesto dei trenta caratteri della nostra raccolta. A ogni modo, le congetture, dopo l’esperienza di tanti anni di studio, io propendo a credere che suppergiú siano sempre più vane, e che increscioso errore sarebbe negare all’autentico Teofrasto il vanto d’avere egli stesso pubblicato l’unica sua opera che ne ha reso celebre e ammirato il nome in tutti i secoli e presso tutti i popoli.
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Ci sono però altre quistioni sui «Caratteri», le quali perché più vive hanno piú importanza. A cominciar dalla prefazione, esse sono quistioni di autenticità e però devono essere discusse caso per caso tutte le volte che capiterà di dover tradurre questo o quel passo: sicché noi, per ragioni di spazio e di opportunità, le rimetteremo tutte in sede di traduzione, ripromettendoci di segnalarne in nota e concisamente la presenza più o meno attuale. Si tratta in sostanza di critica del testo, e spesse volte si tratta anche di sottigliezze che non sono degne di essere tenute in considerazione, giacché i filologi, con l’assillo tutto filologico di troppo vedere, in molti casi non hanno veduto affatto e sono inciampati in quisquiglie e scivolati perciò sulle bucce della lor propria fantasiosa presunzione. Qualcuno ha perfino creduto di scoprire contraddizioni tra le definizioni dei singoli caratteri e le rispettive descrizioni dei caratteri, e non s’è accorto che Teofrasto è assai più umano e moderno del suo critico d’oggi, il quale, neppure a farlo apposta, s’impania da sé in pregiudizi e regolette davvero ridicoli. Se oggi Teofrasto potesse descrivere nuovi caratteri, scommetto che ne scriverebbe uno bellissimo per rappresentarci la lucianesca figura del saputello, pronto a veder dovunque errori e ripetizioni, e preoccupato di ricostruire un Teofrasto filosofo o un rétore Teofrasto, ma assolutamente lontano dal pensare che Teofrasto in questo suo libriccino è soprattutto un artista.
La prefazione noi la leggeremo tradotta e leggendola ci accorgeremo subito che essa non è di Teofrasto, proprio perché le manca la spigliata e scapigliata disinvoltura della prosa dei «Caratteri»; e anche perché vi si leggono stranissime cose sull’età dell’autore, il quale avrebbe scritto a novantanove anni la sua operetta, mentre è certo che Teofrasto a ottantacinque anni era bell’e morto; e infine perché Teofrasto non ebbe né moglie né figli, e invece l’autore della tronfia premessa afferma di avere scritto il libriccino allo scopo di educare i propri figliuoli e quelli del suo amico Policle. Come abbiamo già avvertito a pagina 32, il proemiatore non s’è neppure accorto che nei «Caratteri» sono descritti soltanto difetti, mentre mancano le virtú corrispondenti; e il suo stile è, come il suo pensiero, sciatto e ridondante, e degno di un bizantino, il quale, per accaparrarsi la fiducia del lettore, dichiara di mettere a servizio dei figli e dei suoi giovani amici la propria esperienza di uomo; e però non si perita di immaginare che Teofrasto sia più vecchio di quel che non fosse in realtà quando abbandonò questa vita, un vecchio di novantanove anni, un centenario, insomma, che prima di morire scriverebbe per il bene del genere umano un libriccino di morale. Simili falsificazioni rivelano un grado assai basso di cultura e convengono all’età tarda, a quel medesimo modo che non le convengono alcune chiuse, se non tutte le chiuse o epiloghi dei «Caratteri»: le quali, chi bene legga, non solo formule che si ripetono da un epilogo all’altro. Talvolta non mancano neppure interpolazioni nel testo dei singoli caratteri e sono da imputare al vizio delle scuole di retorica dove l’autore fu molto studiato e letto e appunto per ciò anche corretto... o corrotto da maestri e scolari che si abbandonavano beati alle sgraziate delizie di una prosa violenta ed enfatica, e non capirono che per intender Teofrasto bisogna essere uomini di spirito.
Che Teofrasto fosse uomo di spirito non si argomenta solo dai «Caratteri», bensí anche, e forse assai di più, da un altro suo opuscolo intitolato De nuptiis, nel quale egli discorreva felicemente intorno ai diversi casi del matrimonio, addimostrandosene per vero piuttosto avversario che difensore. L’opuscolo è andato perduto, ma ne resta notizia molto preziosa nel primo libro della vivace invettiva che San Girolamo scrisse contro quel Gioviniano, il quale erasi fatto acerbo detrattore del celibato dei monaci, e monaci sacerdoti e suore incitava al matrimonio sostenendo che neppur l’ascetismo potrebbe essere turbato dal vincolo delle nozze. Anzi, egli aveva di recente pubblicato alcuni commentarioli sull’argomento, e gli amici di Roma si affrettano a inviarne copia a Girolamo affinché da par suo risponda all’Epicurus Christianorum, allo sconcertante Gioviniano che per intanto appare già colpito per bocca degli amici di Girolamo in Roma dalla calunniosa taccia di... epicureo. Si schermisce in sulle prime Girolamo dal rispondere ai libelli di Gioviniano, giacché costui mostra di non intendere quel che si dica, e di essere a corto di argomenti probativi, cosí barbaramente egli scrive e di cosí volgari difetti è laidamente zeppo il suo dettato, tanta est barbaries scriptorum et tantis vitiis spurcissimus sermo confusus: e difatti egli è tutto gonfio, ed è tutto piatto, e fa il superbioso nei particolari e poi si stronca da sé nei conati medesimi, come un serpente che abbia perduto ogni forza, totus enim tumet, totus tacet, attollit se per singula et quasi debilitatus coluber in ipso conatu frangitur. Ma poi Girolamo, commosso insieme dalla tumida presunzione del monaco e dalla preghiera sollecitante degli amici e dallo sdegno per cosí tracotante proposizione, a poco a poco accalorandosi confuta in due libri la tesi di Gioviniano, e raccoglie, dalle pagane letture e dalle cristiane, infinite prove a conforto del celibato dei religiosi.
Certo, a noi preme di tutti e due i libri leggere soltanto quei pochi paragrafi nei quali Girolamo riassume l’opuscolo teofrasteo sul matrimonio, e non importerebbe nient’affatto conoscere in questo particolarissimo caso come fresco di polemica sia anche qui il nostro Girolamo e con quanto sarcasmo egli aggredisca l’avversario, quel «Gioviniano che predica a gote enfiate e adopera parole grosse e osa promettere libertà nei cieli, proprio lui che è schiavo dei vizi e della lussuria, cane che ritorna a mangiar quel che ha vomitato», Iovinianum loquentem buccis tumentibus et infilata verba trutinantem, repromittentem in caelis libertatem, cum ipse servus sit vitiorum atque luxuriae, canis revertens ad vomitum suum. Ma, una volta tanto, piace intrattenersi ad ascoltar l’invettiva geronimiana, che è davvero incalzante alla fine e si conclude con aperta violenza: «giacché, se egli, Gioviniano, mena vanto d’esser monaco, e intanto, dopo la cocolla e i piedi nudi e un tozzo di pane e un bicchier d’acqua, si abbandona alle candide vesti e alla toletta, alle dolci bevande e alle carni succulente, ai brodetti di Apicio e di Passano, e perfino ai bagni, alle friggitorie e alle taverne, ebbene allora è manifesto ch’egli preferisce la terra al cielo, i vizi alle virtú, il ventre a Cristo, e scambia la porpora del color suo col regno del cielo. Orsú, cotesto monaco bello, grassotto, cosí lindo e sbiancato, il quale cammina sempre come uno sposo, l’una delle due: o prenda moglie e ci dimostri con le nozze di conservare la sua verginità, o la smetta di contraddirci a parole, quando nel fatto è con noi d'accordo». Il veleno è nella coda: et tamen iste formosus monachus crassus mitidus dealbatus et quasi sponsus semper incedens...
Sembra di leggere ivi descritto uno dei tipi teofrastei, e converrà per la piú breve ritornare al nostro Teofrasto, a quel suo opuscolo sul matrimonio che Girolamo cita contro Gioviniano a conforto della tesi del celibato. «C’è un prezioso libro di Teofrasto sul matrimonio, nel quale egli pone la quistione se il saggio debba o no menar donna; e dopo aver conchiuso che il saggio, sí, può qualche volta contrarre matrimonio a condizione però che la sua donna sia bella, sia bene educata, sia figlia di gente dabbene, ed egli stesso poi abbia buona salute e sia ricco, subito aggiunge: cotali condizioni però si trovano di rado tutte insieme, e dunque il saggio non deve menar donna...». Girolamo scrive: fertur aureolus Theophrasti liber de nuptiis, e c'è da giurare che il libriccino dovesse piacergli assai e gli apparisse «prezioso» davvero e degno d’esser riassunto, o, forse, addirittura tradotto nelle parti più vivaci e commendevoli. Difatti, con somma distinzione e senza nessun artifizio egli enumera a una a una le difficoltà che il saggio incontrerebbe passando a nozze, e questo fa con sintassi cosí semplice che vi si riconosce stibito lo stile dei «Caratteri» teofrastei e l’uso costante dell’infinito e le frequenti ellissi e l’asindeto e quella certa noncuranza, che non è trascuratezza, ma spontaneità di dettato e singolar evidenza. Proverò a tradurre anch’io dal latino di Girolamo, ma, poiché mi sarebbe impossibile ripetere nella nostra lingua accorgimenti stilistici del greco che soltanto il latino riesce in qualche modo a riprodurre, credo altrettanto opportuno che alla traduzione mia si accompagni il testo geronimiano.
«Anzitutto, la moglie è d’impedimento agli studi, e nessuno potrebbe attendere con pari affetto ai libri e alla moglie. E poi, molti sono gli oggetti necessari alle abitudini delle signore, abiti costosi, oro, gemme, spese, cameriere, suppellettili varie, lettighe, carrozza con finimenti d’oro. E tutte le notti le petulanti querimonie: La tal signora esce in pubblico più elegante di me. Quell’altra è riverita da tutti mentre io nella società femminile sono sprezzata come una donnicciuola. Tu perché guardavi la nostra vicina? Perché parlavi con la servotta? Che mi hai portato dal mercato? No, non possiamo avere né un amico né un compagno, giacché lei sospetta nell’affetto per gli altri l’uggia di sé; e, se in una qualunque città è arrivato un bravissimo scienziato, non possiamo andar da lui con quel... bagaglio, né possiamo lasciare a casa la nostra donna. Per un povero è difficile nutrirla, per un ricco sopportarla è un tormento: aggiungi poi che non c’è possibilità di scegliersela, la moglie, ma bisogna tenersi quella che càpita, e, se essa è attaccabrighe, se è fatua, se è brutta, se è orgogliosa, se è spòrca, qualunque difetto essa abbia, lo sapremo soltanto dopo le nozze. Un cavallo, l’asino, il bue, il cane, gli schiavi di vilissimo prezzo, le vesti, perfino, e i bracieri, le sedie di legno, il bicchiere, l’orciuolo di terracotta, prima si provano e poi si comperano: la sola moglie non ti si palesa, affinché non ti dispiaccia, prima che tu la sposi. Eppure, bisogna che tu guardi sempre quel viso e che sempre tu dica che è bello, affinché non creda, se mai tu guardi un’altra, che lei non ti piaccia. La devi chiamar signora, il suo compleanno lo devi festeggiare, devi giurarle che desideri la sua salute e ch’essa ti sopravviva, devi far cortesia alla sua nutrice, alla cameriera, al cameriere particolare, al servo che lei si è allevato, all’accólito belloccio, al suo amministratore impomatato; all’evirato... eunuco».
Primum enim impediri studia philosophiae nec posse quemquam libris et uxori pariter inservire. Multa esse quae matronariom usibus necessaria sint, pretiosae vestes, aurum, gemmae, sumptus, ancillae, supellex varia, lecticae, et esseda deaurata. Deinde per noctes totas garrulae conquestiones: illa ormatior procedit in publicum; haec honoratur ab omnibus, ego in conventu feminarum misella despicior. Cur aspiciebas vicinam? Quid cum ancillula loquebaris? De foro veniens quid attulisti? Non amicum habere possumus, non sodalem: alterius amorem, suum odium suspicatur, si doctissimus praeceptor in qualibet urbium fuerit, nec uxorem relinquere, nec cum sarcina ire possumus. Pauperem alere difficile est; divitem ferre, tormentum: adde quod nulla est uxori electio, sed qualiscumque obvenerit, habenda. Si iracunda, si fatua, si deformis, si superba, si fetida, quodcumque vitii est, post nuptias discimus; equuus, asinus, bos, cants, et vilissima mancipia, vestes quoque et lebetes, sedile ligneum, calix et urceolus fictilis probantur prius et sic emuntur: sola uxor non ostenditur, ne ante displiceat quae ducatur. Attendenda semper eius est facies, et pulchritudo laudanda: ne sti alteram aspexeris, se existimet displicere. Vocanda domina, celebrandus natalis eius, iurandum der salutem illius ut sit superstes optandum; honoranda nutrix eius, et gerula, servus patrinus, et alumius el formosus assecla et procurator calamistratus, et in longam securamque libidinem exsectus spado... E altre cose aggiunge Teofrasto che sono squisitamente dette nel latino di Girolamo; a che sarebbe troppo lungo ripeter tutte, e fuor di luogo, qui dove a noi preme soltanto rilevare come fresco e vibrante dovesse essere il dettato teofrasteo di questo opuscolo sul matrimonio, e come richiamino allo stile dei «Caratteri» le querimonie della donna, le garrulae per noctes totas conquestiones. Alcuni tratti non c‛’è dubbio che Girolamo li abbia tradotti integralmente dal greco e riprodotti alla lettera.
A Girolamo lo stile di Teofrasto, del Teofrasto dei «Caratteri» e di libelli come questo sopraccitato, dovette sembrare notevole per semplicità ed evidenza, e dunque si provò a riprodurlo con quella grazia e garbo che son propri al suo ingegno di filologo e scrittore. Undici secoli dopo, l’umanista Guarino da Verona in una lettera all’amico suo Antonio Corbinello, che è la 125 dell’epistolario pubblicato da Remigio Sabbadini e porta la data del dicembre 1418, occupandosi del frammento teofrasteo tradotto da Girolamo ne confutava gli argomenti: vellent per occupationes meas mihi liceret ut Theophrasto quem patronum adducis, verecunde tamen, congrederer, cui divina vis dicendi cognomentumi attulit. Eum profecto longe magis oratoris ac dissuasoris quam philosophi munus absolvisse pro mea parvitate dicerem. Nuptias enim vituperaturus ex artis instituto praevaricari visus est... «vorrei che le occupazioni mie mi permettessero di confutare, con rispetto, s’intende, Teofrasto che tu citi a conforto della tua tesi e il quale si ebbe tal nome dalla divina forza del suo dire, giacché, per quel che posso giudicarne io nella mia pochezza, credo ch’egli abbia assolto piuttosto l’officio di un oratore il quale cerchi di dissuadere che l’officio di un filosofo, e pertanto mi è sembrato ch’egli sia uscito fuori dal seminato, dal cómpito della sua scienza... ». E concludeva perciò che Teofrasto avesse piegato gli argomenti alla sua tesi, come se soltanto i Crassi e i Luculli e gli Antonii potessero menar moglie e le donne da sposare fossero tutte Cleopatre o meretrici, quasi ducturi uxores omnes Crassi Luculli Antoniique sint ducendaegue Cleopatrae aut terentianae Bacchides.
In realtà, il valore dell’operetta teofrastea consisteva per l’appunto in questa rappresentazione vivace oltremodo del matrimonio borghese, allora che Atene era ammalata di borghesismo, e fin gli eroi del vecchio mondo erano rappresentati borghesemente umani o sostituiti dai personaggi della commedia di Menandro dinanzi a un pubblico che li applaudiva con convinzione. È poiché si è parlato assai spesso dell’interesse che Teofrasto ebbe per la commedia e in genere per il ridicolo e di un Menandro che sarebbe stato suo scolaro, converrà pur dire che se non ci è in nessun modo possibile scoprire tracce di Teofrasto in Menandro, giacché nessun passo menandreo riecheggia modi teofrastei cosí da rivelarne l’imitazione, è d’altra parte evidente che il commediografo assai piú che Teofrasto ebbe vivacissimo il senso del comico accoppiato a non so che grave e pietoso, e che però dall’insegnamento di Teofrasto egli trasse profitto a rappresentar gli uomini quali sono, con quel tanto di tedio e di tristezza che s’accompagna sempre alla felicità e fortuna, e con quel tanto di ridicolo che si scopre in ogni umana tragedia. Ecco perché io non mi so tenere dal desiderio di citare a conclusione di questo capitolo un passo del «Miles gloriosus» di Plauto, il quale penso sia il piú singolar documento del conto in che i commediografi ebbero Teofrasto, e in tanto più saporoso, in quanto, pur essendo fino ad oggi sfuggito all’attenzione dei filologi e studiosi, esso soprattutto ci rivela che un commediografo greco, e forse per appunto Menandro, se Menandro è l’autore dell’originale greco donde Plauto trasse ispirazione per il suo «Miles», ci rivela dunque che Menandro seppe, con animo capace di molte conformazioni perché molto delicato e vivo, imitar Teofrasto, e che Plauto commediografo latino seppe con altrettanta perizia riprodurre da par suo Menandro e Teofrasto.
C’è nel «Miles», precisamente nella prima scena dell’atto terzo, un lepidius semisenex, un graziosissimo e festivo ometto il quale si chiama Periplecomeno, ed è lui che toglie di pena e d’imbarazzo il giovane Pleusicle la cui fidanzata è stata rapita dal soldato smargiasso. Forse, è il personaggio piú umano di tutta la commedia; e non è certo la maschera ma è il carattere del buontempone rotto a tutte le avventure, e tuttavia di costumi educati e gentili. Egli stesso ci descrive i suoi mores, e dimostra come essi valgano a far chiara e aperta la sua lepidezza o venustas: «la lepidezza mia la mostrerò piú che non te ne parli, giacché io nei conviti non cerco mai di palpar la ganza altrui, né mi precipito sui cibi, né vuoto la coppa pria del tempo, e per il troppo bere non nasce mai da me di litigi, e se uno l’ho in uggia interrompo il discorso e torno a casa...». Periplecomeno non solo presta aiuto a Pleusicle, ma mette a disposizione sua la propria casa di scapolo con tanta liberalità che l’altro non sapendo che dire lo prega almeno di non far grandi spese per il pranzo, e provoca cosí le rimostranze del lepidissimo suo amico e la descrizione davvero lepida e felice del cerimonioso che usa far complimenti per affettazione. Il carattere ivi descritto, chi lo legga in latino, giudicherà subito che esso è opera d’arte squisitamente espressa, e però noi ne daremo dapprima la traduzione, e poi aggiungeremo, affinché tutti possano più agevolmente intenderlo, il testo di Plauto.
«Perché mi fai questo discorso vecchio e vieto, ospite mio, e mi parli come parla un popolano? Costoro quando si mettono a tavola imbandita sogliono dire: Ma che bisogno c’era di far per noi tutte queste spese? Per Ercole sei diventato pazzo, giacché tutto ciò basta per dieci convitati. Ti fanno colpa che tu abbia speso per essi, e intanto mangiano... E poi, sebbene la tavola sia imbandita in abbondanza, non ti dicono, no: ...Fai portar via questa pietanza, togli questo piatto, il prosciutto mandalo indietro, non ce la faccio piú, leva quel pezzo di maiale, l’anguilla, se la conservi, sarà buona anche fredda, portala indietro, vattene, porta via! Non sentirai mai nessun di loro dir questo con convinzione, ma si buttano a metà sulla tavola, desiderosi di mangiare». Quin tu istane orationem hinc veterem alque antiquam amoves? Proletario sermone meno quidem, hospes, utere. Nam ii solent, quando accubuere, ubi cena adpositast, dicere «Quid opus fuit istoc sumptu tanto nostra gratia? Insanivisti, hercle, nam idem hoc hominibus sat erat decem». Quod corum causa obsonatumst, culpant; ei comedunt tamen... Sed iidem homines miunquam dicunt, quamquan adpositumst ampliter «iube illud demi, tolle hanc patinam, remove pernam, nil moror, aufer illam offam porcinam, probus hic conger frigidus, remove, abi, aufer». Neminem eorum haec adseverare audias, sed procellunt sese in mensam dimidiati, dum appetunt.
Bastano le ultime parole a convincerci che Teofrasto fu il lontano consigliere di cosí fresco ritratto di uomo che è proprio degno di stare cogli altri tipi borghesi e contadineschi descritti da Teofrasto; e verrebbe voglia di congetturare che l’aggettivo greco corrispondente al proletarius latino fosse ádgroikos o, forse, più probabilmente, bánausos. Ma la prova che il commediografo abbia seguito le tracce di Teofrasto ce la dà lo stesso Periplecomeno in quella medesima scena, quando poco prima di descriverci il tipo del complimentoso ci parla di sé e del perché viva da scapolo: «Perché certo è piacevole cosa menare in moglie una brava sposina se ci fosse luogo sulla terra dove trovarla. Ma come potrò io menare a casa una donna che mi dica: Marito mio, comprami un po’ di lana, ch’io ti faccia un mantello soffice e caldo e delle tuniche pesanti per l’inverno, che tu non senta freddo?... Da una moglie non le sentirai mai simili parole, ma prima che cantino i galli lei ti sveglia dal sonno e ti dirà: Marito mio, dammi di che fare un regalo alla mia mamma per capodanno; dammi di che fare il condimento; dammi di che pagare per le feste di Minerva la fattucchiera, l’interprete dei sogni, l’indovina, la maga; ed è brutto non dar nulla a colei che predice guardando il moto delle ciglia. Non sta bene ch’io non possa fare un regalo alla pieghettatrice, e la ceraia mi tiene il broncio da parecchio perché non ha avuto nulla, e anche l’ostetrica s’è lagnata con me che le ho mandato poco. E alla balia che allatta gli schiavetti non vuoi dar nulla?» Nam bona uxor suave ductumst, si sit usquam ubi ea possit inveniri. Verum egone cam ducam domum, quae mihi numquam hoc dicat «eme, mi vir, lanam unde tibi pallium malacum et calidum conficiatur tunicague hibernae bonae, ne algeas hac hieme». Hoc smumguam verbum ex uxore audias; verum, prius quam galli cantent, quae me e Sommo suscitet, dicat «da, mi vir, calendis meam qui mairem munerem; sure dae condimenta; da quod dem quinquatribus praecantrici, coniectrici, hariolae atque haruspicae; fagitiumst, si nil mittetur, quae supercilio spicit. Tum plicatricem clementer non potest quin munerem; iam pridem, quia nihil abstulerit, suscenset ceriaria; tum opstetrix expostulavit mecum parum missum sibi. Quid? nutrici non missurus quiequam quae vernas alit?».