Comparazione delle sentenze di Bruto e di Teofrasto vicini a morte

Giacomo Leopardi

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II

COMPARAZIONE DELLE SENTENZE

DI BRUTO MINORE E DI TEOFRASTO

VICINI A MORTE

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comparazione delle sentenze

DI BRUTO MINORE E DI TEOFRASTO

vicini a morte


Io non credo che si trovi in tutte le memorie dell’antichitá voce piú lacrimevole e spaventosa, e con tutto ciò, parlando umanamente, piú vera di quella che Marco Bruto, poco innanzi alla morte, si racconta che profferisse in dispregio della virtú: la qual voce, secondo ch’è riportata da Cassio Dione, è questa: «O virtú miserabile, eri una parola nuda, e io ti seguiva come tu fossi una cosa; ma tu sottostavi alla fortuna». E comunque Plutarco nella Vita di Bruto non tocchi distintamente di questa sentenza, laonde Pier Vettori dubita che Dione in questo particolare faccia da poeta piú che da storico, si manifesta il contrario per la testimonianza di Floro, il quale afferma che Bruto vicino a morire proruppe esclamando «che la virtú non fosse cosa ma parola». Quei moltissimi che si scandalezzano di Bruto e gli fanno carico della detta sentenza, danno a vedere l’una delle due cose; o che non abbiano mai praticato familiarmente colla virtú, o che non abbiano esperienza degl’infortuni, il che, fuori del primo caso, non pare che si possa credere. E in ogni modo è certo che poco intendono e meno sentono la natura infelicissima delle cose umane, o si maravigliano ciecamente che le dottrine del Cristianesimo non fossero professate avanti di nascere. Quegli altri che torcono le dette parole a dimostrare che Bruto non fosse mai quell’uomo santo e magnanimo che fu riputato vivendo, e [p. 68 modifica]conchiudono che morendo si smascherasse, argomentano a rovescio: e se credono che quelle parole gli venissero dall’animo, e che Bruto, dicendo questo, ripudiasse effettivamente la virtú, veggano come si possa lasciare quello che non s’è mai tenuto, e disgiungersi da quello che s’è avuto sempre discosto. Se non l’hanno per sincere, ma pensano che fossero dette con arte e per ostentazione; primieramente che modo è questo di argomentare dalle parole ai fatti, e nel medesimo tempo levar via le parole come vane e fallaci? volere che i fatti mentano perché si stima che i detti non suonino allo stesso modo, e negare a questi ogni autoritá dandoli per finti? Di poi ci hanno a persuadere che un uomo sopraffatto da una calamitá eccessiva e irreparabile; disanimato e sdegnato della vita e della fortuna; uscito di tutti i desiderii, e di tutti gl’inganni delle speranze; risoluto di preoccupare il destino mortale e di punirsi della propria infelicitá; nell’ora medesima che esso sta per dividersi eternamente dagli uomini, s’affatichi di correr dietro al fantasma della gloria, e vada studiando e componendo le parole e i concetti per ingannare i circostanti, e farsi avere in pregio da quelli che egli si dispone a fuggire, e in quella terra che se gli rappresenta per odiosissima e dispregevole. Ma basti di ciò.

Laddove le soprascritte parole di Bruto s’hanno tutto giorno, si può dire, tra le mani; queste che soggiungerò di Teofrasto moribondo, non credo che uscissero mai delle scritture degli eruditi (dove anche non so il conto che se ne faccia), non ostante che sieno degnissime di considerazione, e abbiano molta corrispondenza col detto di Bruto, sí per l’occasione in cui furono pronunziate, e sí per la sostanza loro. Diogene Laerzio le riferisce, copiando, per quello ch’io mi persuado, qualche scrittore piú antico e piú grave, com’è solito di fare. Dice dunque che Teofrasto venuto a morte e «domandato da’ suoi discepoli se lasciasse loro nessun ricordo o comandamento, rispose: — Niuno; salvo che l’uomo disprezza e gitta molti piaceri a causa della gloria. Ma non cosí tosto incomincia a vivere, che la morte gli sopravviene. Perciò l’amore della gloria [p. 69 modifica]è cosí svantaggioso come che che sia. Vivete felici, e lasciate gli studi, che vogliono gran fatica; o coltivategli a dovere, che portano gran fama. Se non che la vanitá della vita è maggiore che l’utilitá. Per me non è piú tempo a deliberare: voi altri considerate quello che sia piú spediente. — E cosí dicendo spirò».

Altre cose dette da Teofrasto vicino a morte si trovano mentovate da Cicerone e da san Girolamo, e sono piú divulgate; ma non fanno al nostro proposito. Per queste che abbiamo veduto, si risolve che Teofrasto in etá di sopra cent’anni; avendola spesa tutta a studiare e scrivere, e servire indefessamente alla fama; ridotto, come dice Suida, all’ultimo della vita per l’assiduitá medesima dello scrivere; circondato da forse duemila discepoli, ch’è quanto dire seguaci e predicatori delle sue dottrine; riverito e magnificato per la sapienza da tutta la Grecia, moriva, diciamo cosí, penitente della gloria, come poi Bruto della virtú. Le quali due voci, gloria e virtú, non veramente oggi, ma fra gli antichi sonavano appresso a poco il medesimo. E però Teofrasto non seguitò dicendo che la stessa gloria le piú volte è opera della fortuna piuttosto che del valore; il che non si poteva dire anticamente cosí bene come oggidí: ma se Teofrasto l’avesse potuto aggiungere, non mancava al suo concetto nessuna parte che esso non fosse ragguagliatissimo a quello di Bruto.

Questi tali rinnegamenti, o vogliamo dire, apostasie da quegli errori magnanimi che abbelliscono o piú veramente compongono la nostra vita, cioè tutto quello che ha della vita piuttosto che della morte, riescono ordinarissimi e giornalieri dopo che l’intelletto umano coll’andare dei secoli ha scoperto, non dico la nuditá, ma fino agli scheletri delle cose, e dopo che la sapienza, tenuta dagli antichi per consolazione e rimedio principale della nostra infelicitá, s’è ridotta a denunziarla e quasi entrarne mallevadrice a quei medesimi che, non conoscendola, o non l’avrebbero sentita, o certo l’avrebbero medicata colla speranza. Ma fra gli antichi, assuefatti com’erano a credere, secondo l’insegnamento della natura, che le cose fossero cose e non ombre, e la vita umana destinata ad altro [p. 70 modifica]che alla miseria, queste sí fatte apostasie cagionate, non da passioni o vizi, ma dal senso e discernimento della veritá, non si trova che intervenissero se non di rado; e però, quando si trova, è ragione che il filosofo le consideri attentamente.

E piú maraviglia ci debbono fare le sentenze di Teofrasto, quanto che le condizioni della sua morte non si potevano chiamare infelici, e non pare che Teofrasto se ne potesse rammaricare, avendo conseguito e goduto fino allora per lunghissimo spazio il suo principale intento, ch’era stata la gloria. Laddove il concetto di Bruto fu come un’ispirazione della calamitá, la quale alcune volte ha forza di rivelare all’animo nostro quasi un’altra terra, e persuaderlo vivamente di cose tali, che bisogna poi lungo tempo a fare che la ragione le trovi da sé medesima, e le insegni all’universale degli uomini, o anche de’ filosofi solamente. E in questa parte l’effetto della calamitá si rassomiglia al furore de’ poeti lirici, che d’un’occhiata (perocché si vengono a trovare quasi in grandissima altezza) scuoprono tanto paese quanto non ne sanno scoprire i filosofi nel tratto di molti secoli. In quasi tutti i libri antichi (o filosofi o poeti o storici o qualunque sieno gli scrittori) s’incontrano molte sentenze dolorosissime, che se bene oggidí corrono piú volgarmente, non per questo si può dire che fra gli uomini di quei tempi fossero pellegrine. Ma esse per lo piú derivano dalla miseria particolare ed accidentale di chi le scriveva, o di chi si racconta o si finge che le proferisse. E quei concetti o, parlando generalmente, quella tristezza e quel tedio che s’accompagnano tanto all’apparenza della felicitá quanto alle miserie medesime e c’hanno rispetto alla natura ed all’ordine immutabile e universale delle cose umane, è raro assai che si trovino significati ne’ monumenti degli antichi. I quali antichi quando erano travagliati dalle sventure, se ne dolevano in modo come se per queste sole fossero privi della felicitá; la quale essi stimavano possibilissima a conseguire, anzi propria dell’uomo, se non quanto la fortuna gliela vietasse.

Ora volendo cercare quello che potesse avere indótto nell’animo di Teofrasto il sentimento della vanitá della gloria e [p. 71 modifica]della vita, il quale a ragguaglio di quel tempo e di quella nazione, riesce straordinario; troveremo primieramente che la scienza del detto filosofo non si conteneva dentro ai termini di tale o tal altra parte delle cose, ma si stendeva poco meno che a tutto lo scibile (quanto era lo scibile in quell’etá), come si raccoglie dalla tavola degli scritti di Teofrasto, lasciati perire la massima parte. E questa scienza universale non fu subordinata da lui, come da Platone, all’immaginativa, ma solamente alla ragione e all’esperienza, secondo l’uso d’Aristotele; e indirizzata, non allo studio né alla ricerca del bello, ma del suo maggior contrario, ch’è propriamente il vero. Atteso queste particolaritá, non è maraviglia che Teofrasto arrivasse a conoscere la somma della sapienza, cioè la vanitá della vita e della sapienza medesima; essendo che le molte scoperte fatte da’ filosofi degli ultimi secoli circa la natura degli uomini e delle cose, vengano principalmente dal confrontare e dal rapportare che s’è fatto le diverse scienze, e quasi tutte le discipline tra loro, e dall’averle collegate l’une coll’altre, e per questo mezzo considerate le relazioni che intervengono tra le varie parti della natura, ancorché lontanissime, scambievolmente.

Oltracciò dal libro dei Caratteri si comprende che Teofrasto vide nelle qualitá e nei costumi degli uomini cosí addentro, che pochissimi scrittori antichi gli possono stare a lato per questo rispetto, se non forse i poeti. Ma questa facoltá è segno certo d’un animo che sia capace d’affezioni molte e varie e potenti. Perciocché le qualitá morali come anche gli affetti degli uomini, volendoli rappresentare al vivo, non tanto si possono ricavare dall’osservazione materiale de’ fatti e delle maniere altrui, quanto dall’animo proprio, eziandio quando sono disparatissimi dagli abiti dello scrittore. Secondo quello che fu detto dal Massillon interrogato come facesse a dipingere cosí al naturale i costumi e i sentimenti delle persone, praticando, com'esso faceva, assai piú nella solitudine che fra la gente. Rispose: ‘considero me stesso’. Cosí fanno i drammatici e gli altri poeti. Ora un animo capace di molte conformazioni, [p. 72 modifica]cioè molto delicato e vivo, non può far che non senta la nuditá e l’infelicitá irreparabile della vita e non inclini alla tristezza, quando i molti studi l’abbiano assuefatto a meditare, e specialmente se questi riguardano all’essenza medesima delle cose, nel modo che s’appartiene alle scienze speculative.

Certo è che Teofrasto, amando gli studi e la gloria sopra ogni cosa, ed essendo maestro o vogliamo dire capo di scuola, e di scuola frequentatissima, conobbe e dichiarò formalmente l’inutilitá de’ sudori umani, e cosí degl’instituti suoi propri come degli altrui; la poca proporzione che passa tra la virtú e la felicitá della vita; e quanto prevaglia la fortuna al valore in quello che spetta alla medesima felicitá cosí degli altri come anche de’ sapienti. E forse in queste conoscenze passò tutti i filosofi greci, massime quelli che vennero avanti Epicuro, con tutto che fosse diversissimo e ne’ costumi e nelle sentenze da quello che poi furono gli Epicurei. Tutto questo si ricava, non solamente dalle cose dette di sopra, ma da’ riscontri che s’hanno degl’insegnamenti di Teofrasto in parecchi luoghi degli scrittori antichi. E quasi ch’egli avesse avuto a dimostrare cogli accidenti suoi propri la veritá delle sue dottrine; primieramente non è tenuto da’ filosofi moderni in quella stima che dovrebbe, essendo perduti giá da piú secoli, per quello che se ne sappia, tutti i suoi libri morali, eccetto solo i Caratteri; come anche sono perduti i libri politici o appartenenti alle leggi e quasi tutti quelli di metafisica. Oltre di ciò, non che i filosofi antichi lo celebrassero per aver veduto piú di loro, anzi per questo rispetto medesimo lo vituperarono e maltrattarono, e particolarmente quelli, tanto meno sottili quanto piú superbi, i quali si compiacevano d’affermare e di sostenere che il sapiente è felice per sé; volendo che la virtú o la sapienza basti alla beatitudine; quando sentivano pur troppo bene in sé medesimi che non basta, se però avevano effettivamente o l’una o l’altra di quelle condizioni. Della qual fantasia non pare che i filosofi sieno ancora guariti, anzi pare che sieno peggiorati non poco, volendo che ci debba menare alla felicitá questa filosofia presente, la quale in somma non [p. 73 modifica]dice e non può dir altro, se non che tutto il bello, il piacevole e il grande è falsitá e nulla. Ma, per non dividerci da Teofrasto, i piú degli antichi erano incapaci di quel sentimento doloroso e profondo che l’animava. «Teofrasto è malmenato nei libri e nelle scuole di tutti i filosofi per aver lodato nel Callistene quel motto: ‘non la sapienza ma la fortuna è signora della vita’. Negano che un filosofo dicesse mai cosa piú fiacca di questa». Sono parole di Cicerone, il quale in altro luogo scrive che Teofrasto nel libro Della vita beata dava molto alla fortuna, cioè a dire che la sentenziava per cosa di gran momento in riguardo alla felicitá. E quivi a poco soggiunge: «A ogni modo serviamoci di Teofrasto in molti punti, salvo che s’attribuisca alla virtú piú consistenza e piú gagliardia che questi non le diede». Vegga esso Cicerone quello che se le possa dare.

Forse per questi ragionamenti alcuno conchiuderá che Teofrasto avesse a far professione di poco affezionato agli errori naturali, anzi che dal canto suo dovesse provvedere cogl’insegnamenti e colle azioni di sequestrarli dall’uso domestico e pubblico della vita, e di stringere gli effetti e la signoria dell’immaginativa, allargando i termini alla ragione. Ma s’ha da sapere che Teofrasto fu ed operò tutto il contrario. In quanto alle azioni, abbiamo in Plutarco nel libro Contro Colote, che il nostro filosofo liberò due volte la sua patria dalla tirannide. In quanto agl’insegnamenti, Cicerone dice che Teofrasto in un libro che scrisse delle ricchezze, si distendeva molto a lodare la magnificenza e l’apparato degli spettacoli e delle feste popolari, e metteva nella facoltá di queste spese molta parte dell’utilitá che proviene dalle ricchezze. La qual sentenza è biasimata da Cicerone e data per assurda. Io non voglio contendere con Cicerone sopra questa materia, se bene io so e vedo ch’egli si poteva ingannare e tastar le cose con quella filosofia che penetra poco addentro. Ma l’ho per uomo cosí ricco d’ogni virtú privata e civile, che non mi basta l’animo d’accusarlo che non conoscesse i maggiori incitamenti e i piú fermi propugnacoli della virtú che s’abbiano a questo mondo, voglio [p. 74 modifica]dir le cose appropriate a stimolare e scuotere gli animi ed esercitare la facoltá dell’immaginazione. Solamente dirò che qualunque o fra gli antichi o fra’ moderni conobbe meglio e sentí piú forte e piú dentro al cuor suo la nullitá d’ogni cosa e l’efficacia del vero, non solamente non procurò che gli altri si riducessero in questa sua condizione, ma fece ogni sforzo di nasconderla e dissimularla a sé medesimo, e favorí sopra ogni altro quelle opinioni e quegli effetti che sono valevoli a distornarla, come quello che per suo proprio esperimento era chiarito della miseria che nasce dalla perfezione e sommitá della sapienza. Nel qual proposito si potrebbero allegare alcuni esempi molto illustri, massime de’ tempi moderni. E in vero, se i nostri filosofi intendessero pienamente quello che s’affaticano di promulgare, o (posto che l’intendano) se lo sentissero, cioè a dire, se l’intendessero per prova, e non per sola speculazione; in cambio d’aversi a rallegrare di queste conoscenze, ne piglierebbero odio e spavento; s’ingegnerebbero di scordarsi quello che sanno, e quasi di non vedere quello che vedono; rifuggirebbero, il meglio che potessero fare, a quegl’inganni fortunatissimi che, non questo o quel caso, ma la natura universale avea posto di sua propria mano in tutti gli animi; e finalmente non crederebbero che importasse gran cosa il persuadere altrui che niuna cosa importa quando anche paia grandissima. E se fanno questo per appetito di gloria, concedano che in questa parte dell’universo non possiamo vivere se non quanto crediamo e ponghiamo studio a cose da nulla.

Altra circostanza per la quale il caso di Teofrasto differisce notabilmente da quello di Bruto, si è la natura diversa de’ tempi. Perocché Teofrasto gli ebbe, se non propizi, tuttavia non ripugnanti a quei sogni e a quei fantasmi che governarono i pensieri e gli atti degli antichi. Laddove possiamo dire che i tempi di Bruto fossero l’ultima etá dell’immaginazione, prevalendo finalmente la scienza e l’esperienza del vero, e propagandosi anche nel popolo quanto bastava a produr la vecchiezza del mondo. Che se ciò non fosse stato, né quegli avrebbe avuta occasione di fuggir la vita, come fece, né la [p. 75 modifica]repubblica romana sarebbe morta con lui. Ma non solamente questa, bensí tutta l’antichitá, voglio dir l’indole e i costumi antichi di tutte le nazioni civili, erano vicini a spirare insieme colle opinioni che gli avevano generati e gli alimentavano. E giá mancato ogni pregio a questa vita, cercavano i sapienti quel che gli avesse a consolare, non tanto della fortuna, quanto della vita medesima, non riputando credibile che l’uomo nascesse propriamente e semplicemente alla miseria. Cosí ricorrevano alla credenza e all’espettativa d’un’altra vita, nella quale stésse quella ragione della virtú e de’ fatti magnanimi, che ben s’era trovata fino a quell’ora, ma giá non si trovava, e non s’aveva a trovare mai piú, nelle cose di questa terra. Dai quali pensieri nascevano quei sentimenti nobilissimi che Cicerone lasciò spiegati in piú luoghi, e particolarmente nell’orazione per Archia.