Pagina:Teofrasto - I Caratteri.djvu/82


il filosofo teofrasto

No non è da credere che un imitatore di Teofrasto sia stato cosî bravo in coteste aggiunte; e che siano farina di sacco non teofrasteo le «ampolline piccole piccole», e le «chiavi arrugginite», e quei «capelli rasati fino alla pelle». C’è soltanto da pregar certi critici che non corrino troppo verso il fantasioso, e che non sottilizzino in quisquiglie le quali sono minuzzaglie di grammatica veramente pedantesca. O non c’è stato forse un francese, al quale è sembrato sospetto il διφᾶν, «frugare», del carattere decimo, perché, egli dice, parola poetica? Ma Teofrasto adopera διφᾶν a quel medesimo modo che nella «Storia delle piante» adopera, parlando di alberi che perdono i loro frutti, ἀμέρδειν «privare»; o che adopera ἔρνος «giovane pianta»; e che Aristotele, nella «Storia degli animali», adopera βῆσσα «vallone»: anche queste, se si vuole, parole che dal linguaggio della poesia sono poi passate nella comune lingua di tutti. Del resto, nella «Storia delle piante» ἐνιαυτοφορεῖν che significa «produrre nell’anno» è un bellissimo composto formato da Teofrasto, ed è stato Teofrasto il primo a comporre ἀναθεωρεῖν col significato di «esaminare scrupolosamente», donde poi, nel successore Aristone, leggiamo ἀναθεώρησις. E non è forse quasi poetica l’immagine del «denudare», ἀπογυμνοῦν, del settimo carattere? Poetica perché anche quel verbo fu adoperato in poesia? Via, è delicatezza affettata di schifiltosi cotesta filologia, e sa di alterigia e vanità, e non giova a nulla o forse giova soltanto a confondere le idee.

Io penso invece che Teofrasto ha curato quel suo libriccino con tanto amore che anzitutto gli trovò il titolo quant’altri mai felice di «Caratteri morali», ad esprimere l’impressione che l’abitudine e gli affetti e i pensieri e gli abiti stampano nell’anima e nelle azioni dell’uomo. Anche il titolo è suo, giacché prima di lui la parola greca character è stata adoperara, sì, in quel senso vagamente da Erodoto che nel primo libro racconta di Astiage, il quale conosce in Ciro un’aria di famiglia: «i tratti del viso del ragazzo gli pareva che gli assomigliassero»; e fu poi piú esplicitamente ripetuta da Euripide nell’«Ercole furente» come signum virtutis χαρακτῆρ´ ἀρετᾶς: ma in sostanza non c’è nessun dubbio che Teofrasto abbia battezzato il vocabolo nel battistero della


74