Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto XXV
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto venticinquesimo
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C A N T O X X V.
1Ora era che ’l sallir non volea storpio,
Che ’l Sole avea il cerchio del merigge1
Lassato al Tauro, e la notte a lo Scorpio.2
4Per che, come fa l’om che non s’affigge;3
Ma vassi a la via sua, che che li appaia,4
Se di bisogno stimulo il trafigge;
7Così entrammo noi per la callaia,
Uno inanti altro, prendendo la scala
Che per artezza i sallitor dispaia.5
10E qual è il cicognin che leva l’ala6
Per vollia di volar, e non s’attenta
D’abbandonar lo nido, e giù la cala;
13Tale era io con vollia accesa e spenta
Di dimandar, venendo infine all’atto,
Che fa colui che a dicer s’argomenta.
16Non lassò, per l’andar che fusse ratto,7
Lo dolce Padre mio; ma disse: Scocca
L’arco del dir che infin al ferro ài tratto.
19Allor siguramente apri’ la bocca,8
E cominciai: Come si può far magro
Là dove l’uopo del nodrir non tocca?9
22Se t’ammentassi come Meleagro
Si consumò al consumar d’un stizzo,
Non fora, disse, a te questo sì agro;10
25E se pensassi come al vostro guizzo11
Guizza dentro a lo specchio vostra image,12 13
Ciò che par duro ti parrebbe mizzo.14
28Ma perchè dentro tuo voler adage,
Ecco qui Stazio; et io lui chiamo, e prego
Che sia or sanator de le tue piage.
31Se la vendetta eterna li dispiego,15 16
Rispuose Stazio, là dove tu sie,
Discolpi me non poterti far nego.
34Poi cominciò: Se le parole mie,
Fillio, la mente tua guarda e riceve,
Lume ti fiero al come che tu die.17 18
37Sangue perfetto, che poi non si beve
Dall’assetate vene, e si rimane
Quasi alimento che di mensa leve,
40Prende dal cuor a tutte membra umane19
Virtute informativa, come quello
Ch’a farsi quelle per le vene vane.20 21
43Ancor digesto, scende ove è più bello
Tacer che dir; e quindi poi si geme22
Sovr’altrui sangue in natural vagello.
46Ivi s’accoglie l’uno e l’altro insieme,
L’un disposto a patir, e l’altro a fare,
Per lo perfetto loco unde si preme;
49E, giunto lì, comincia ad operare,
Coagulando prima, e poi avviva
Ciò che per sua materia fe gestare.23 24
52Anima fatta la virtù attiva,
Qual d’una pianta, in tanto differente,
Che questa è in via, e quella è già a riva,
55Tant’opra poi, che già sè move e sente,25
Come fungo marino; et indi prende26
Ad organar le posse unde è possente.27
58Or si spiega, fìlliuol, or si distende
La vertù, che è dal cuor del generante,28
Dove natura a tutte membra intende.
61Ma come d’animal divegna fante,
Non vedi tu ancor: quest’è tal punto,
Che più savio di te fe già errante,
64Sì che, per sua dottrina fu disgiunto29
Dall’anima il passibile intelletto,30
Perchè da lui non vidde organo assunto.
67Apri a la verità, che viene, il petto,
E sappi, che sì tosto com’al feto
L’articular del cerebro è perfetto,31
70Lo Motor primo a lui si volge leto32
Sovra tanta arte di natura, e spira
Spirito nuovo di virtù repleto.33
73Che ciò, che trova attivo quivi, tira
In sua sustanzia, e fassi un’alma sola.
Che vive e sente, e sè in sè rigira.
76E perchè meno ammiri la parola,
Guarda il calor del Sol, che si fa vino,
Giunto all’umor che da la vite cola.
79E quando Lachesis non à più lino,34 35
Solvesi da la carne, et in virtute
Ne porta seco l’umano e ’l divino,
82L’altre potenzie tutte quasi mute;36
Memoria, intelligenzia e volontade,
In atto, molto più che prima, acute.
85Senza restarsi, per sè stessa cade
Mirabilmente a l’una de le rive:
Quivi cognosce prima le suoe strade.
88Tosto che ’l luogo là la circuscrive,37
La virtù formativa raggia intorno
Così, e quanto ne le membra vive.38
91E come l’aire, quando è ben piorno,39
Per l’altrui raggio che ’n lui si riflette,40
Di diversi color diventa adorno;
94Così l’aire vicin quivi si mette
In quella forma, che in lui suggella
Virtualmente l’alma che ristette.
97E similliante poi a la fiammella,
Che segue ’l fuoco là unqua si muta;41
Segue a lo spirto sua forma novella.42
100Però che quinde à possa sua paruta,43
È chiamata ombra, e quinde organa poi
Ciascun sentir infine a la veduta.
103Quindi parliamo, e quinde ridiam noi;
Quinde facciam le lagrime e i sospiri,
Che per lo monte aver sentito puoi.
106Segondo che ci affigono i disiri
E li altri affetti, l’ombra si figura;
E quest’è la cagion di che t’ammiri.44
109E già venuto a l’ultima tortura45
S’era per noi e volto a la man destra,46
Et eravamo attesi ad altra cura.47
112Quivi la ripa fiamma in fuor balestra;
E la cornice spira fiato in suso,
Che la riflette, e via da lei sequestra.
115Onde ir ne convenia dall’aire schiuso48
Ad uno ad uno; et io temea il fuoco
Quindi, e quinci temea io cader giuso.49
118Lo Duca mio dicea: Per questo loco
Si vuol tener alli occhi stretto il freno:
Però che errar potrebbesi per poco.
121Summae Deus clementiae, nel seno
Del grande ardor allor udi’, cantando,
Che di volger mi fe caler non meno.
124E viddi spirti per la fiamma andando,
Per ch’io guardava loro et ai mie’ passi,
Compartendo la vista a quando a quando.
127Appresso ’l fine ch’a quest’inno fassi,
Gridavano alto: Virum non cognosco,
Indi ricominciavan l’inno bassi.
130Finito questo, gridavano: Al bosco50
Si tenne Diana, et Elice caccionne,
Che di Venere avea sentito ’l tosco.
133Indi a cantar tornavano ancor donne,51
Lodavano i mariti che fuor casti,52
Come virtute e matrimonio imponne.
136E questo modo credo che lor basti
Per tutto ’l tempo che il fuoco li abrucia:
Con tal cura convien con cotai pasti
139Che la piaga da sezzo si ricucia.
- ↑ v. 2. Merigge; cadenza regolare dal latino meridies. E.
- ↑ v. 3. C. M. C. A. Lasciato
- ↑ v. 4. C. M. C. A. l’uom
- ↑ v. 5. C. A. va alla sua via checchè gli
- ↑ v. 9. C. A. ertezza il salitor
- ↑ v. 10. C. A. quale il
- ↑ v. 16. C. M. C. A. lasciò
- ↑ v. 19. C. A. sicuramente aprii
- ↑ v. 21. C. M. C. A. nutrir
- ↑ v. 24. C. M. Non fora questo a te, disse, sì agro:
- ↑ v. 25. C. A. al nostro guizzo
- ↑ v. 26. C. A. allo specchio nostra
- ↑ v. 26. Image; terminato in e per uniformità, come ambage ec. E.
- ↑ v. 27. C. A. vizzo.
- ↑ v. 31. C. A. veduta eterna gli dislego,
- ↑ v. 31. Dispiego; dispiegò, manifestò interpreta il nostro Butese; e gli antichi adoperavano talora senza accento la terza persona singolare del perfetto nella prima coniugazione. Il Barberino «Mi battea come vile; Iddio ne ’l pago» E.
- ↑ v. 36. C. A. fieno
- ↑ v. 36. Die, dii; dall’infinito dire, come sente e senti, pure adoperato in antico al presente indicativo. E.
- ↑ v. 40. C. A. nel core
- ↑ v. 42. C. A. Che frange quello
- ↑ v. 42. Vane; terza persona singolare vae, da vaere, o vaire frammessovi l’n, affin di riposare la voce, come in àne, ene per àe, ee. E.
- ↑ v. 44. C. A. poscia geme
- ↑ v. 51. C. M. fe constare.
- ↑ v. 51. C. A. gustare.
- ↑ v. 55. C. A. si move
- ↑ v. 56. C. A. imprende
- ↑ v. 57. C. A. semente.
- ↑ v. 59. C. A. La virtù che
- ↑ v. 64. C. A. fe
- ↑ v. 65. C. A. possibile
- ↑ v. 69. C. A. articolar
- ↑ v. 70. C. A. volge lieto
- ↑ v. 73. C. A. quivi attivo,
- ↑ v. 79. C. A. Quando Lachesis non à più del lino,
- ↑ v. 79. C. M. Lachesi
- ↑ v. 82. C. A. tutte quante
- ↑ v. 88. C. M. circonscrive,
- ↑ v.90. C. A. quando nelle
- ↑ v. 91. Piorno; sincope di piovorno che odesi tuttora in Val di Nievole, e significa disposto a pioggia. E.
- ↑ v. 92. C. A. che in sè si
- ↑ v. 98. C. A. dovunque si
- ↑ v. 99. C. A. Segue lo
- ↑ v. 100. C. M. che di quindi à poscia
- ↑ v. 108. C. A. tu miri.
- ↑ v. 109. C. A. E già venuti all’
- ↑ v. 110. C. A. volti alla
- ↑ v. 111. C. A. intenti ad
- ↑ v. 115. C. A. dal lato schiuso
- ↑ v. 117. C. A. E quinci e quindi temea cader giuso.
- ↑ v. 130. C. A. Finitelo anche gridavano:
- ↑ v. 133. C. A. Indi al cantar tornavano, indi donne,
- ↑ v. 134. C. A. Gridavano, e mariti che fur casti,
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C O M M E N T O
Ora era che ’l sallir non volea storpio, ec. Questo è lo xxv canto de la seconda cantica, nel quale finge lo nostro autore come sallitte del vi giro1 nel vii, dove si purga lo peccato de la lussuria nel fuoco. E dividesi questo canto principalmente in due2 lezioni: imperò che ne la prima finge l’autore come, salliendo del vi giro3 al vii, confortato da Virgilio, mosse uno dubbio del quale Virgilio, posta alcuna dichiaragione, in prima fece dare la soluzione a Stazio, e compie la dichiaragione tutta ne la prima lezione. Ne la seconda finge l’autore come Stazio compiè la sua dichiaragione; e come, iunti nel vii girone, preseno la via inverso mano ritta al modo usato al lato a la ripa: imperò che in ver la grotta era lo fuoco; e come uditte4 cantare l’anime che erano nel fuoco, e dire parole a commendazione de la castità, et incomincia quive: E quando Lachesis non à più lino ec. La prima lezione si divide in iv parti: imperò che prima descrive lo tempo, e come montavano suso al vii girone, e come avea grande vollia di dimandare; ne la seconda, come Virgilio avvedutosene lo conforta5 li dimandi, e come elli dimanda, e Virgilio li risponde in parte, et in parte commette la risposta a Stazio, et incominciasi quive: Non lassò, per l’andar ec.; ne la tersa finge come Stazio incominciò, secondo la volontà di Virgilio, a dichiarare la dubitazione dell’autore, dimostrando in breve la generazione del feto infine a la infusione dell’anima ragionevile, et incominciasi quive: Se la vendetta eterna ec.; ne la quarta finge come Stazio, seguitando oltra la sua dichiaragione, manifesta a lui la infusione dell’anima ragionevile e la coniunzione di quella co la vegetativa e sensitiva, et incominciasi quive: Ma come d’animal ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere lo testo coll’allegorie e moralità et esposizioni litterali.
C. XXV — v. 1-15. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come intronno a sallire del6 sesto girone al settimo, e descrive prima lo tempo, dicendo: Ora era; cioè quando noi incominciammo a sallire, che ’l sallir non volea storpio; cioè non volea impaccio: imperò che era passato mezzo di’ ben presso a du’ ore: imperò, Che ’l Sole avea il cerchio del merigge; cioè del mezzo di’, Lassato al Tauro; cioè al segno, che si chiama Tauro che va di rieto ad Aries, che è lo segno nel quale era lo Sole, quando l’autore fìnge ch’avesse questa fantasia, sicchè7 se lo Sole avea passato lo mezzo di’ tanto che v’era rimaso Tauro, e così passato era mezzo di’ di due ore o era presso a du’ ore o più da8 una ora, secondo quanto spazio d’Aries avea passato lo Sole, e quanto di Tauro avea passato lo meridiano, et era a venire anco del di’ 4 ore: imperò che due ore pena ciascuno segno a tramontare, sicchè due ore penava a tramontare Pisces che era inanti ad Aries, e due poi Aries e così sono 4, e la notte; che va opposita al Sole ne l’opposito emisperio a quello, nel quale finge l’autore che fusse allora, che9 lo nostro avea lassato lo meridiano, s’intende, a lo Scorpio: imperò che come lo Sole era in Aries; così la notte era in Libra: e come di po’ Aries seguita Tauro; cosi di po’ Libra seguita Scorpio, sicchè così convenia che fusse presso ad uscire fuora dall’oriente loro la notte altrettanto spazio; cioè lo spazio di du’ segni, cioè Virgine e Libra che sono 4 ore, come era presso a tramontare lo Sole 4 ore. Per che; cioè per la qual cosa; cioè perchè s’appressimava la sera, come fa l’om; cioè come fa l’omo sollicito, che non s’ affigge; cioè lo quale non si ferma, Ma vassi a la via sua; cioè al suo cammino, che che li appaia; cioè benchè qualunqua cosa li apparisca, non si resta, Se di bisogno stimulo il trafigge: cioè s’elli è punto da lo stimulo del bisogno de l’andare. Così entrammo noi; ecco che adatta la similitudine; cioè sollicitamente, per la callaia; cioè per la stretta via da montare suso, Uno inanti altro; cioè l’uno di rieto all’altro in filo, prendendo la scala; cioè da montare suso, Che; cioè la quale scala, per artezza; cioè per strettessa, i sallitor dispaia; cioè fa andare in filo e non di pari li sallitori. Altro è a dire ertezza: imperò che ertezza è a dire rittezza; ma artezza è a dire strettezza, e però lo testo dè dire artezza. E qual è il cicognin; ecco che induce una similitudine de la sua volontà e de la timidezza a quella del cicognino, dicendo che come fa lo cicognino, che; cioè lo quale, leva l’ala; cioè per volare; però dice: Per vollia di volar; ch’elli à, e non s’attenta; cioè e non s’assicura, D’ abbandonar lo nido; cioè di gittarsi a volo, e giù la cala; cioè l’ala10, Tale era io; cioè io Dante era fatto come lo cicognino, con vollia accesa e spenta; cioè prima volea dimandare, poi timidezza mi rattenea, Di dimandar; lo mio Dottore, venendo infine all’atto; cioè infine a l’apertura de la bocca, Che fa colui che a dicer s’argomenta; cioè s’apparecchia.
C. XXV — v. 16-30. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che Virgilio s’accorgesse de la vollia ch’elli avea di dimandare, e però lo confortò ch’elli addimandasse; e finge che, fatta la dimanda, Virgilio li risponde quanto può a questo dubbio rispondere la ragione; appresso, perchè è opera di fede, finge che Virgilio preghi Stazio, che significa lo intelletto, che questo dubbio dichiari a Dante; cioè a la sensualità, dicendo così: Non lassò; cioè Virgilio, per l’andar; cioè nostro, che fusse ratto; cioè perchè fusse lo nostro andare sollicito, Lo dolce Padre mio; cioè Virgilio, che significa la ragione che dè essere padre; cioè monitore e governatore de la sensualità, come è lo padre del filliuolo, ma disse; a me Dante: Scocca L’ arco del dir; cioè la vollia del dire: imperò che come l’arco manda la saetta; così lo desiderio del dire manda fuora la parola, che infin al ferro; cioè al ferro de la saetta, ài tratto; cioè tirato ài tanto l’arco, che non si può tirare più: imperò che ’l ferro de la saetta è all’arco che11 quive, dov’è non si può tirare più; quasi dicesse: La volontà tua del dir è tirata in fine a la parola che è lo ferro de la saetta, e l’asta è lo concetto e la sentenzia, la quale va e co le parole ferisce; e però si dice il proverbio: La parola intra spesse volte dove non entra lo coltello. Finge l’autore che Virgilio s’avvegga de la dubitazione che avea e de la volontà del dimandare: imperò che ragionevilmente di quil, che ditto è di sopra, si può e dè dubbitare, e chi dubita dè ragionevilmente essere dichiarato. Allor; cioè quando fui confortato da Virgilio, siguramente apri’; io, cioè Dante, la bocca; mia a parlare: quando la sensualità è consilliata da la ragione di parlare, siguramente può parlare, E cominciai; cioè a dire: Come si può far magro; cioè l’omo, quando non à bisogno di mangiare, come può dimagrare, Là dove; cioè in quil luogo, nel quale, l’uopo; cioè lo bisogno, del nodrir non tocca; cioè in purgatorio, dove non è bisogno di mangiare, come possano l’anime dimagrare: imperò che in questa vita lo modo del dimagrare è lo digiunare e mancare lo nutrimento al corpo; ma quive, dove non è corpo, nè non si mangia, in che modo si dimagra? Questo è ora lo dubbio de l’autore: la cagione del dimagrare già è stata ditta di sopra; cioè che dimagrano per l’odore del pomo ditto di sopra e dell’acqua; ma lo modo non è stato anco dimostrato, e però questo è lo dubbio mosso ragionevilmente. E la verità è che l’autore muove questo dubbio, perchè viene contra la verisimilitudine de la sua fizione, che in purgatorio non sono queste cose; ma finge l’autore così, e perchè questo dubbio puoe stendersi et allargarsi; cioè come possano patire pena l’anime, come possano parlare, vedere, udire e così dell’altre cose, le quali non può fare l’anima se non coniunta col corpo, quando sono separate dal corpo; e restringersi a la sua fizione; cioè come è verisimile quello che tu fingi? Però finge che Virgilio risponda a questo. A che si può rispondere co la ragione; et all’altro perchè è cosa di fede finge che Virgilio preghi Stazio, che significa lo intelletto, che lo solva: imperò che lo intelletto apprende le cose de la fede, le quali non apprende la ragione; e però finge che Virgilio dica a lui: Se t’aumentassi; tu, Dante; e ben dice t’ammentassi, perchè è fizione poetica la quale dei sapere, come Meleagro; filliuolo del re Oeneo di Calidone d’Etolia, Si consumò al consumar d’un stizzo; cioè d’uno tissone articaato12, forse artificiato. Finge Ovidio, Metamorfosi libro viii, che quando la reina Altea, donna d’Oeneo di Calidone che era in Etolia, parturitte Meleagro, le Fata che dispensano la vita vi venneno; cioè Cloto, Lachesis et Antropos; e la prima disse che vivesse con grazia d’ogni uno, sicchè fusse13 ingannato; e la seconda che vivesse con potenzia, sicchè avansasse ogni omo; e la tersa, confirmando, ordinò lo termino de la vita e misse uno tissone nel fuoco, dicendo che tanto fusse la vita del fanciullo14, quanto penava ad ardere quil tissone. La qual cosa udita da la madre, levòsi del letto e cavato lo tissone del fuoco lo spense e ripuoselo sotto grande guardia. Avvenendo poi che Diana, indignata perchè Oeneo avea fatto sacrificio a tutti li dii salvo che a lei, e così li suoi sudditi, mandò uno porco ferocissimo che tutta la contrada guastava, sicchè alla caccia di questo porco si raunonno tutti li baroni de la Grecia, tra quali fu Teseo e Meleagro preditto filliuolo di Oeneo, et una virgine ch’avea nome Atalanta filliuola del re Oeneo, d’Arcadia, de la quale Meleagro s’innamorò; et avuto lo porco lo quale elli prima feritte e Meleagro compiè d’uccidere, Meleagro per onorare questa virgine li diè la testa del porco e diedeli l’onore de la caccia; de la qual cosa funno indegnati li valenti omini che v’erano, e massimamente Flesippo e Toisippo fratelli de la madre di Meleagro sì, che tolseno ad Atalanta la testa del porco; unde Meleagro, di ciò corrucciato combattè co li suoi sii15 materni et ucciseli amburo. La qual cosa saputa da Altea madre di Meleagro e suore de li uccisi, mossa a furore, prese lo tissone riservato e misselo nel fuoco, et a poco a poco si16 fenno consumare Meleagro, come si consumava lo tissone; et arso lo tissone, fu morto Meleagro; e però dice l’autore che Virgilio li disse le parole ditte di sopra e queste che seguitano; cioè: Non fora; cioè non sarebbe, disse; cioè Virgilio, a te; cioè Dante, questo; cioè dubbio ditto di sopra, cioè come si possa fare magro dove non si mangia, nè è bisogno di mangiare, sì agro; cioè sì malagevile, che tu nol vedessi come sia possibile: imperò che secondo la lettera così è possibile fingere a te; che quelle anime dimostrasseno in quella loro ombra la loro magrezza, la quale portavano nel desiderio: imperò che vorrebbeno sempre essere state in astinenzia et essere state magrissime, per non avere offeso Iddio nel peccato de la gola quando erano nel mondo, come fu ad Ovidio fingere che Meleagro si consumasse, consumato lo stisso fatato nel fuoco. La qual cosa potette essere vera in questo modo; cioè che la madre di Meleagro li facesse una malia, per la quale consumò Meleagro a pogo a pogo et estenuò intanto che morì, come fanno li asmosi, e perchè la malia non si potesse disfare la gittasse in fuoco; e per tanto vollia dire Virgilio: Se Meleagro sè estenuò per la fatturazione ch’è operazione del Dimonio; così si possano e mellio estenuare queste anime, operante la Divina Iustizia, per satisfazione del peccato loro; quasi dica l’autore: S’i’ faccio tale fizione, per mostrare la contrizione debita a tale peccato, ella pare verisimile considerato quil che divenne a Meleagro, e questo è correspondente a la ragione, e però finge che ’l dica Virgilio. Puòsi anco dire in questo modo essere stata vera; cioè che Meleagro si venne meno per dolore17, vedendo che avea morti li suoi sii18 materni, perchè la madre sua Altea adirata si dispose di non mangiare nè bere, e così si desperò19 et uccisesi, e questo fu il mettere lo tissone nel fuoco, cioè per furore volere uccidere sè; lo quale furore20 uccise Meleagro: imperò che per questo, come ditto è, per dolore alimò21 sè medesimo; e però ànno fatta questa fizione li Poeti per dimostrare questa verità, e che le Fata lo predicesseno: imperò che nell’ordine fatale era, che depende de la Divina Providenzia che questo dovesse avvenire; e però ben finge che dica Virgilio a lui: Se t’ammentassi ec.; quasi dicesse: Se t’arricordasse come per Divina Providenzia ordinato fu che Meleagro morisse per sì fatto modo; così vedresti che per ordinazione di Iustizia Divina verisimile è che queste anime diventino magre, ben che non sia naturale; ma sopra naturale per la iustizia di Dio; e così pare la fizione verisimile. E benchè l’autore muova non per sè; ma per li lettori, e finge che Virgilio induca la similitudine di Meleagro, considerando la verità de la istoria: imperò che se Meleagro si consumò di dolore del suo fallo e peccato, e vennene a morte; così pare conveniente che queste anime per lo dolore del peccato, considerando22 d’avere fatto astinenzia per contrizione, abbiano in sè per rappresentazione quella estenuazione che ebbe Meleagro, non mangiando, nè bevendo inanti che venisse a la morte. E perchè questo non sodisfà pienamente al dubbio: imperò che questo dimostra solamente come lo dolore possa consumare lo corpo, e queste sono sensa corpo, dubitasi come è verisimile fizione che si mostrino sì estenuate; e però adduce un’ altra similitudine, dimostrando che quelle anime ànno corpo aereo et in esso si rappresentano le passioni dell’anima, come li nostri atti ne lo specchio, e però dice: E se pensassi; cioè tu, Dante, come al vostro guizzo; cioè23 di voi omini, che siete nel mondo, Guizza dentro a lo specchio; inanti al quale voi state, quando faite atto veruno, vostra image; cioè vostra imagine, che è rappresentata ne lo specchio, guissa come faite voi di fuora a lo specchio, e così rappresenta ella d’entro a lo specchio; e questo perchè è? Perchè lo specchio è corpo raro ricettivo di luce, e ricevela in quella forma ch’ ella è quando in lui percuote, e però è24 aperto a rappresentare ciò che inanti a lui si fa, perchè li atti nostri si fanno et imprimeno ne l’aire luminoso, e l’aire luminoso ripercuote ne lo specchio con quella medesima impressione ch’elli à in sè da’ nostri atti25, e così li rappresenta come riceve l’aire impressa e suggellata dai nostri atti; e così finge che addivegna26 nei corpi aerei; che si vesteno l’anime nostre, poi che si parteno dal corpo, li quali sono a modo di specchi, sicchè in loro si rappresentano tutte le volontà e passioni dell’anima. E però non ti dei meravilliare se queste ombre appaiano sì magre: imperò che elle sono aeree e ricettive di luce, come è l’aire; e però ciò che à l’anima d’entro rappresenta di fuora, sicchè lo desiderio efficace di essere state affamate e magre si rappresenta di fuora nel corpo aereo; la quale cosa dimostra la ragione de la Perspettiva, e però finge che li27 dica Virgilio in poche parole. Ma come si pilli corpo aereo non è ragione umana; ma opinione d’alcuni teologi, e però finge che sia da poi ditta da Stazio, che significa lo intelletto umano, e però seguita: E se pensassi; quil che ditto è di sopra de lo specchio, Ciò che par duro; ad intendere, ti parrebbe mizzo; cioè ti parrebbe molle ad intendere et agevile. E perchè queste due ragioni ànno dichiarato come sia verisimile la fizione de l’autore, e non ànno dichiarato come l’anime pillino corpo aereo, però lo commette a Stazio, come ditto è, dicendo: Ma perchè dentro; cioè ne la mente tua, tuo voler adage; cioè la tua volontà contenti, vedendo come l’anima pilli corpo aereo, Ecco qui Stazio; questo è colui del quale è stato ditto di sopra, che s’accompagnò con Virgilio, et io; cioè Virgilio, lui; cioè Stazio, chiamo e prego Che sia or sanator de le tue piage; cioè dei tuoi dubbi li quali inaverano la mente, come le piaghe lo corpo.
C. XXV — v. 31-60. In questi dieci ternari lo nostro autore finge come Stazio incominciò a parlare, prima scusandosi, e poi appresso incominciando la sentenzia d’Aristotile e delli altri filosofi De generatone fœtus, per venire a demostrare la conclusione che elli intende; cioè come l’anima pilli corpo aereo; la quale sentenzia l’autore pone per far bello lo suo poema, e finge che la dica Stazio per le cagioni ditte di sopra, dicendo così: Se la vendetta eterna; cioè la Giustizia di Dio: vendetta è saziamento d’odio; Iddio non à in odio niuna sua creatura; ma come iusto vuole che li omini riei28 iustamente siano puniti, a ciò che participeno lo bene de la iustizia, e però vendetta in Dio si pone per iustizia, li dispiego; cioè manifestò a Dante, Rispuose Stazio; cioè a Virgilio, là dove tu sie29; cioè in quil luogo dove sii tu, Virgilio, Discolpi; cioè scusi, me; Stazio, non poterti far nego; cioè ch’io non posso negare a te quello che tu vuoi. Secondo la lettera, l’autore finge questo perchè sempre Stazio onorò Virgilio; ma secondo l’allegoria, o vero moralità, s’intende che tutte le potenzie umane debeno30 stare suddite a la ragione, e31 deono in ella onorare; e però finge questo l’autore che Stazio, che significa l’intelletto di Dante, mostra di riverire la ragione di Dante significata per Virgilio, a la quale dice sè non potere negare quil ch’ella vuole. E la ragione umana quando ode: Tu non se32 capace de le cose divine che si convegnano comprendere con fede, e però a questo non intendere tu, che se’ di potenzia finita, ella iudica che vi debbia attendere lo intelletto, che per fede si può stendere ad intendere le cose di Dio infinite, e quelle che per ragione non si possano provare; e, fatta questa scusa, Poi cominciò; Stazio a parlare a Dante, dicendo: Se le parole mie; cioè che io Stazio ti dirò, Fillio; ecco che chiama Dante filliuolo: imperò che la sensualità è filliuola de la ragione e de lo intelletto, quando è obbediente a loro, la mente tua guarda e riceve; cioè se vi pone cura, et intendele, Lume; cioè dichiaragione che ti farà vedere la verità: come lo lume è cagione che si veggano le cose visibili; e così alcune veritadi manifestate fanno vedere molte altre veritadi che non si vedrebbeno, ti fiero; cioè a te Dante, al come che tu die; cioè al dubbio che tu muovi, che dici: Come è possibile che si dimagri dove non si mangia, nè è possibile di mangiare? Et incomincia la sua sentenzia ditta da’ Filosofi de la generazione del feto; e benchè si faccia da lunga, tosto viene al proposito, come apparrà nell’altra lezione. Dice così: Sangue perfetto; cioè sangue è perfetto; cioè alcuna parte di sangue che à sua perfezione, quanto la natura può dare. A questo debbiamo sapere che, come altro’33 è stato ditto per me nel precedente libro, lo nostro alimento si converte in sangue nel fegato, lo quale distribuisce a le vene quello che è necessario a nutrimento del corpo, e34 tanto più che ne vanne alcuna parte perfetta; e di questa parla ora, la quale avansa oltra quello che volliano le vene. che; cioè lo qual sangue, poi non si beve Dall’assetate vene; cioè, poi che è venuto ne le vene, non si converte in nutrimento del corpo, da le vene corporali che lo spargeno per lo corpo quando sono assetate, e quando n’ànno bisogno; ma quello si rimane, perchè non ànno bisogno, e si rimane; cioè quel sangue perfetto, Quasi alimento che di mensa leve; fa una similitudine, che come rimane ai mangiatori de la vivanda la quale si rimane e levasi e riponesi; così dice che quil sangue rimane come rilievo del nutrimento de la natura, Prende; cioè lo sangue perfetto ditto di sopra, dal cuor; cioè dal generante: imperò che al cuore s’appartiene di dare la vertù informativa al sangue; et intorno a questo debbiamo sapere che ’l cuore è tutto pieno di buchi picculini dentro et àe due ventriculi35, l’uno da la parte ritta e l’altro de la manca; e dal fegato a questi36 ventriculi sono due vene che metteno nel cuore per quelli37 ventriculi l’esalazioni e spiriti che esceno del sangue, et entrano per quelli buchi che sono nel cuore e quive pilliano virtù formativa de le membra umane e per quelle ritornano al fegato, o vero che per l’uno38 ventriculo entrino nel cuore e per l’altro ritornino al fegato e discorreno di quinde per l’arterie per tutto lo corpo, et al sangue danno virtù formativa de le membra umane; e però dice: a tutte membra umane Virtute informativa; cioè virtute da informare tutte le membra umane; cioè mettere39 forma in tutte le membra umane, le quali si generano de la materia del sangue, come quello; cioè sangue, Ch’a farsi quelle; cioè lo quale a diventare quelle membra, cioè umane, per le vene vane; cioè va e discorre40. E fa similitudine, che come lo sangue, che si parte dal fegato e va per le vene, àe potenzia di mettere forma ne la sua materia di tutte le membra umane a le quali s’adiunge; così quello, che rimane41 nelle vene, a fare la generazione. Ancor digesto; cioè smaltito quello sangue che rimane ne le42 vene, mandato quive de la natura perchè si smaltisca, ancora descende da le vene per certe vene43 ordinate a ciò ne’ vagelli spermatici che sono tra’ due testiculi, e quinde poi distilla per la via de la natura; cioè del membro virile nel membro femineo; cioè ne la matrice; la qual cosa, per parlare onesto, l’autore dice, scende; cioè lo sperma fatto del sangue ne li testiculi, ove è; cioè in quil membro lo quale, più bello Tacer: imperò che s’intende; cioè ne’ vagelli spermatici che sono tra due testiculi, che dir: imperò che li vocabuli disonesti è mellio a circuscriverli che a dirli, per non disonestare la lingua, e quindi; cioè di quelli vagelli spermatici, poi si geme; cioè si distilla per lo membro agitato nel coito, Sovr’altrui sangue; cioè sopra ’l sangue femineo, digesto ancora, in natural vagello; cioè ne la matrice feminea. Ivi; cioè nel fondo de la matrice, s’accoglie l’uno e l’altro insieme; cioè lo sperma virile e lo sangue femineo diventato digesto e bianco in questo modo, che ’l sangue femineo44 aiungesi a lo sperma virile e fassi una mistura, L’un disposto a patir; cioè lo sangue femineo, e l’altro a fare; cioè lo sperma virile che è attivo, e lo sangue femineo che è passivo, Per lo perfetto loco; assegna la cagione, perchè àe attività lo sperma virile, perchè viene da l’omo che è perfetto e tiene luogo di forma; e la femina è imperfetta e tiene luogo di materia, e però lo suo sangue àe passibilità ne la generazione, e lo virile sperma attivita45 perchè viene del perfetto luogo46; cioè dal membro dell’omo pieno de la virtù informativa del cuore, unde si preme; cioè unde47 distilla. E, giunto lì; cioè e poi che lo sperma è iunto ne la matrice, meschiato48 e coniunto col sangue femineo; lo quale sangue femineo, è meno perfetto che quello dell’omo, si divide in du’ parti, e l’una si serba per aiuntamento del feto, e l’altra si converte nel feto; e quella nutritiva è intorneata da la generativa compreso in prima come latte, e poi convertendolo in sangue e poi facendolo come lo torlo de l’uovo dall’albume, comincia ad operare; la sua attività e la sua virtù, Coagulando prima; cioè facendo diventare compreso in prima come latte, e poi convertendolo in sangue, e poi facendo carne lo sangue, e, poi avviva; cioè vivifica e rende co la virtù sua vive tutte le suoe parti; e però dice: Ciò che per sua materia fe gestare; cioè fece stare quive come materia; cioè ciò che v’è materiale. Anima fatta la virtù attiva; cioè diventata quella virtù attiva anima vegetativa, che vegeta quel composito, Qual d’una pianta; cioè fatta come quella d’uno arbero, in tanto differente; dall’anima de la pianta, Che questa; cioè l’umana, è in via: però che non è anco venuta a la sua perfezione, e quella è già a riva; cioè l’anima de la pianta àe la sua perfezione, sicchè iunta a la riva non è nel passamento, come l’umana che à a venire a maggior perfezione, Tant’opra poi; la ditta anima umana, che già sè move; per lo ventre de la madre, e sente; cioè à li sensi in potenzia, non anco in atto, Come fungo marino: fungo marino è una coagulazione di schiuma d’acqua marina che si fa in mare, e fassi vivo e muovesi e sente; ma non à membra formate; e così lo feto ne la matrice, in finchè non articula la natura tutte le membra, et indi; cioè di poi, prende; cioè pillia et incomincia la forma attiva che deve, Ad organar; cioè a formare ne li organi, le posse; cioè le potenzie, unde è possente; cioè unde si fa possente, cioè fa li organi ne li quali ella opera le suoe potenzie, distinguendo le membra l’uno dall’altro; cioè lo cerebro coi suoi organi sensitivi, lo cuore coi suoi organi vitali. Or si spiega; cioè si divide ne le suoe operazioni quella che è unita in sè, e prima insieme operava ogni cosa, filliuol; dice Stazio a Dante, or si distende; cioè facendo crescer le membra, La vertù; cioè attiva, che è dal cuor del generante: però che quinde è discesa, e quinde la prese lo sangue convertito in sperma, Dove; cioè nel qual cuore, natura; cioè la virtù naturale che Iddio àe posto ne l’omo, a tutte membra intende: imperò che nel cuore è la fonte de la vita: imperò che quinde le vene tirano la virtù vivificativa e vegetativa di tutte le membra umane. E questo dimostrano li autori de la Medicina, che diceno che lo sperma umano, poi che è iunto ne la matrice feminea e congiunto col sangue femineo, sta sei di’ ne la sua bianchezza e poi si converte in sangue, e sta nove di’ sanguineo, poi incomincia a coagolarsi e farsi carne e fassi in xii di’ carne, poi incomincia a formare le membra e compiele di formare in xviii di’; e così si compie la generazione del feto in giorni xlv, come diceno li versi: Sex in lacte dies, ter sunt in sanguine, terni Bis seni carnem, ter seni membra figurant.
C. XXV — v. 61-79. In questi sei ternari lo nostro autore finge come Stazio, continuando la sua demostrazione poi che à ditto la composizione e generazione del feto nel ventre de la madre, dice ora la creazione de l’anima ragionevile fatta da Dio come s’adiunge all’anima vegetativa e sensitiva da lui, e fassi un’anima con tutte le potenzie umane. E però dice: Io t’abbo ditto come si genera l’omo inanti che sia ragionevile che è a modo d’animale, ora ti vollio dire come diventa ragionevile, dicendo cosi: Ma come d’animal divegna fante; cioè parlante lo feto che è nel ventre de la madre, che è a modo d’un animale bruto; e se fusse possibile che nascesse così, serebbe come uno cane o come uno asino, che non parlerebbe e non arebbe in sè ragione; e qui pone l’autore fante per ragionevile: imperò che niuno animale parla con intelletto se non l’omo, e però fante si pone per ragionevile, Non vedi tu; cioè Dante, ancor; per ch’io non te l’ò anco ditto: imperò che non à mostrato se non come lo feto è fatto animale, quest’è tal punto; cioè vedere come ’l feto animato diventi ragionevile, Che; cioè lo quale punto, più savio di te; cioè lo filosofo auctoris, o vero alcuno altro filosofo più savio di te Dante, fe già errante; cioè fece errare, Sì che, per sua dottrina; cioè del filosofo, fu disgiunto; cioè diviso, Dall’anima; cioè umana e ragionevile, il passibile intelletto; cioè intelletto umano lo quale si chiama passibile, in quanto è eccitato e commosso a fare l’operazione sua de le cose apprese per li sentimenti, Perchè; ecco che assegna la cagione del suo errore, cioè imperò che, da lui; cioè da lo intelletto passibile, non vidde organo assunto; cioè non vidde che nel corpo umano fusse nessuno organo deputato propriamente a lo intelletto, come è l’orecchie ad udire, li occhi a vedere, e così delli altri sentimenti. Apri; tu, Dante, a la verità il petto; cioè lo intendimento tuo sì, ch’ella v’entri, che; cioè la qual verità, viene; cioè ora da me a te, E sappi; tu, Dante, che sì tosto com’al feto; cioè al concetto che è nel ventre de la madre, L’articular del cerebro; cioè lo formare del cerebro con tutte le suoe parti, è perfetto; cioè compiuto, Lo Motor primo; cioè Iddio che è immobile e principio movente ogni cosa, a lui; cioè al feto, si volge leto; cioè intende lieto a la creazione dell’anima ragionevile in quil feto, e dice leto: imperò che Iddio di sua libera e benigna volontà intende a la creazione dell’anima umana ragionevile, e spira; cioè spirando, crea di niente in esso corpo umano, Spirito nuovo; cioè un’anima di nuovo creata, di virtù repleto; potenzialmente ripiena d’ogni virtù; ma non attualmente per lo peccato d’Adam, Sovra tanta arte di natura; cioè sopra l’anima vegetativa e sensitiva che la natura àe fatto, secondo la sua operazione. Che; cioè lo quale spirito nuovo creato da Dio, tira In sua sustanzia; cioè di sè anima ragionevile, ciò, che trova attivo quivi; cioè tutto quello, che trova attivo e formale nel feto, l’anima ragionevile creata da Dio tira in sua sustanzia e sua natura, e fassi un’alma sola; sicchè una medesima anima è ragionevile, vegetativa e sensitiva, e non sono tre anime et è tutta in tutto lo corpo e tutta in ciascuna sua parte, Che; cioè la quale anima, vive; ecco l’operazione de la vegetativa: si rigira e rivolge in sè, per le cose universali discorrendo e co la sensitiva in virtù, e sente; ecco l’operazione de la sensitiva, e sè in sè rigira; ecco l’operazione de la ragionevile, che discorre per l’individui e singulari, e formasi con considerazione universale, e divide e compone e riprende li falsi coi veri; e tutte queste potenzie àe una anima sola, cioè ragionevile creata da Dio; che àe unito a sè l’altro due e convertito in sua sustanzia sì, ch’è una sustanzia simplice e non49 composita. E per mostrare come questo sia possibile, aggiunge l’esemplo del calore del Sole e de l’umore de la vite, che si fa vino et è una sustanzia sola; e però dice: E perchè; cioè et a ciò che, meno ammiri; cioè meno ti meravilli, la parola; la quale io abbo ditto di sopra; cioè che si faccia una sola anima, Guarda il calor del Sol; tu, Dante, che; cioè lo quale calor del Sole, Giunto all’umor; cioè unito coll’umore, che; cioè lo quale umore, cola da la vite; quando la vite in succhio punta o talliata gocciula, et anco per sè medesimo quando n’à troppo, si fa vino; cioè diventa vino. E per questo dimostra che il vino è umore che la vite succhia da la terra, e decocendo col calore del Sole per li meati de la vite50, diventa vino; e così l’anima ragionevile, iunta a quelle altre due, diventa una sola anima. E qui finisce la prima lezione dei canto xxv, incominciasi la secunda lezione.
E quando Lachesis ec. Questa è la secunda lezione del canto xxv, ne la quale l’autore finge come Stazio compie la sua demostrazione; e come iunseno in sul settimo girone dove si pura lo peccato de la lussuria, e come quive trova una spera di fuoco, e li spiriti che in essa si purgavano, e quello che diceano. E dividesi in cinque parti: imperò che prima finge come Stazio seguita lo suo ragionamento, e dichiara in parte lo dubbio di Dante; ne la secunda finge come compia la sua51 declarazione, et incominciasi quive: Però che quinde ec.; nella tersa parte finge come, iunti in sul settimo girone e volti a mano ritta, trovonno la spera del fuoco e come Virgilio l’ammonisce de l’andare cautamente, et incominciasi quive: E già venuto ec.; ne la quarta finge come elli sentitte nel fuoco certe voci che cantavano uno inno, e diceano anco altre voci confortanti a la castità, et incominciasi quive: Summae Deus clementiae, ec.; ne la quinta finge come anco uditte continuar voci con simili sentenzie, et incominciasi quive: Indi a cantar ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere lo testo co le suoe esposizioni allegoriche, morali e litterali.
C. XXV — v. 79-99. In questi sette ternari lo nostro autore finge come Stazio, continuando la sua dichiaragione del dubbio, poi che à ditto come l’omo si genera, dica ora come muore; e come di po’ la morte pillia l’anima corpo aereo, nel quale ella dimostra le sue passioni, dicendo così: E quando Lachesis; questa Lachesis è una de le tre Fate, de le quali fu ditto di sopra nel xxxiii canto de la prima cantica, e nel xxi canto di questa secunda, et è quella che produce e stende lo mezzo de la vita umana; e però si dice filare lo lino che Cloto arrocca per ciascheduno, e quando lo lino è filato, sicchè non vi sia più de’ giorni da vivere, si dice Antropos che è la morte troncare lo filo; e però dice: E quando Lachesis non à più lino; cioè secondo la lettera, per filare; et allegoricamente, quando non v’à più di tempo da vivere, Solvesi da la carne; cioè sciolgesi dal corpo l’anima per la morte, che non è altro che separamento52 dell’anima dal corpo, et in virtute Ne porta seco; cioè l’anima, l’umano; cioè l’umanità virtuale e potenziale e formale che v’è, e ’l divino; cioè l’anima ragionevile, che Iddio àe creato nel corpo umano, che è una sustanzia fatta coll’anima sensitiva e vegetativa, com’è ditto di sopra: imperò che questa tale unione, poi ch’è fatta, mai non si separa. E perchè questa anima, che àe queste potenzie àe certe potenzie che si convegnano all’anima attualmente quando è coniunta col corpo, come le vegetative; et altre che si li convegnano ancora quando è separata dal corpo, e più perfettamente quando è separata che quando è coniunta; e queste sono quelle che l’anima àe53 prese, non attributo ad alcuno organo corporale, e queste sono le potenzie simplici attive; cioè memoria, intelletto, e volontà; et altre sono che sono attribute ad alcuno organo corporale, come sono le potenzie sentitive; e queste, secondo li Filosofi, quando è separata non à attualmente; ma, secondo lo nostro autore che finge e fa sua poesi, l’àe in atto; ma non sì perfettamente, come quando è coniunta col corpo; e però, parlando secondo questa fizione, dice Stazio, poi che àe ditto che l’anima ne porta seco l’umano e ’l divino, dice adiungendo quel che ne porta: e specificando che ’l divino et umano ne porta seco, dice così: L’altre potenzie; cioè quelle che serveno a la sensitiva, tutte quasi mute: imperò che, ben ch’ella l’abbi non l’à in atto; àle solamente in potenzia quanto a la verità, sicchè quando si riconiungerà col corpo l’arà in atto; ma seguendo la sua fizione, che àe finto che l’anime parlino, ridano et odano, l’anno anco separate, benchè non sì perfettamente; e però ci mette questa dizione quasi; che à a mancare; cioè non però mute al tutto: imperò ch’elle ridano in atto non così perfettamente, come col corpo; ma queste altre; cioè: Memoria, intelligenzia e volontade; ne porta seco l’anima, In atto, molto più che prima; cioè quando era coniunta col corpo, acute; cioè sottili: imperò che anno memoria sensa dimentigazione, intelligenzia sensa difetto, e volontà ferma et invariabile. Senza restarsi; cioè l’anima, quando è separata dal corpo per la morte, in nessuno luogo, per sè stessa cade; cioè che non è bisogno che vi sia menata, Mirabilmente: imperò che questo fa la Divina lustizia miraculosamente, a l’una de le rive; cioè d’Acheronte che è fiume infernale, o de la foce del Tevero di Roma, come appare di sopra nel canto secondo di questa cantica, Quivi; cioè in quil luogo, cognosce prima le suoe strade: l’anima: imperò che se cade a la riva d’Acheronte cognosce che è dannata, e se cade a la foce54 del Tevere cognosce che è salvata; e questo fu sposto nel soprascritto luogo. Tosto; cioè incontenente, che ’l luogo là; cioè ad una de le ditte ripe, la circuscrive; cioè intornea lei anima, La virtù formativa; che è nell’anima, raggia intorno; cioè nell’aire che li è intorno. Così; cioè come raggia, ne le membra vive; cioè come nel corpo quando vive, e quanto; cioè e tanto raggia intorno nell’aire la virtù dell’anima informativa, quanto raggia ne le membra vive; cioè nel corpo quando vive. E come l’aire; ecco che induce una similitudine, per dimostrare come quello corpo aereo si colora, dicendo che come l’aire s’adorna di varicolori quando lo raggio del Sole percuote ne le nebbie ben dense sì, che nolle possa trapassare, riverbera poi in su, in alto, in quelle che sono rare e rappresenta la forma dell’arco di diversi colori; cioè di quattro, come è stato ditto di sopra, quando è ben piorno; cioè ben pieno di nuguli aquosi, Per l’altrui raggio; cioè del Sole, che ’n lui; cioè lo quale raggio in lui; cioè in dell’aire, si riflette; cioè si ripiega, Di diversi color; cioè di quattro, come è stato ditto di sopra nel xxi canto, diventa55 adorno; cioè l’aire; ecco che adatta la similitudine dicendo: Così l’aire vicin; cioè prossimano a la ditta anima, come ditto è di sopra del raggio del Sole, e de le nugule, quivi si mette; cioè intorno a l’anima, In quella forma; cioè apparenzia, che; cioè la quale, in lui; cioè in esso aire, suggella; cioè segna et imprime, Virtualmente; cioè per sua virtù e potenzia informitiva56, l’alma; cioè l’anima, che; cioè la quale, ristette; cioè si fermò quive. Et ora per similitudine dimostra come quello sì fatto corpo aereo seguita e va coll’anima: imperò che se l’aire, che circuscrive l’anima appare suggellato et impresso de la forma dell’anima quando l’anima si parte e muta luogo, l’aire57 si parte del luogo, come si rappresenta poi in altro luogo. Et a questo dice che l’anima come ella si muta, così rinovella lo corpo di luogo in luogo come rinuova l’aire; e questo dimostra per la fiamma accesa, che segue lo fuoco là unque si porta per l’aire. Unde debbiamo sapere che la fiamma è untuosità che esce de la materia e convertesi in fummo, e lo fuoco vi s’accende; e dove s’accende la fiamma, l’aire si corrompe; e come ella si diparte l’aire si rigenera, e così l’aire si corrompe mutandosi lo fuoco di luogo in luogo là, unqua s’accende la fiamma di nuovo; e spegnandosi la fiamma l’aire si rigenera sempre di nuovo, e così fa l’anima sempre corpo nuovo oltra, come muta aire e luogo. E similliante poi a la fiammella; cioè per simile modo che la fiammella segue sua forma novella nell’aire, come ’l fuoco muta nuovo luogo, Che; cioè la quale fiammella, segue ’l fuoco; cioè la materia in che è lo fuoco, là unqua si muta; cioè in qualunqua luogo si muta, Segue a lo spirto, cioè all’anima detta di sopra, sua forma; cioè corporale, novella; cioè di nuovo fatta aerea là unqua si muta.
C. XXV — v. 100-108. In questi tre ternari finge lo nostro autore come Stazio compiè lo suo ragionamento e conchiude la soluzione del dubbio, dicendo: Però che quinde; cioè da la forma corporea aerea, à possa sua paruta; cioè sua apparenzia lo spirito, e l’anima separata dal corpo carneo, È chiamata ombra: imperò che, come l’ombra appare et è impalpabile; così l’anima appare in quil corpo aereo et è impalpabile; e per questo fingeano li Poeti che l’ombre di tutti li animali, che erano nel mondo, fusseno ancora appo l’infernali: imperò che ogni corpo fa impressione nell’aire, e però fingeano che se l’anime andavano in celo, la impressione corporale nell’aire andava a l’infernali, e quinde; cioè e di sì fatta materia aerea, organa poi; cioè forma poi l’anima li organi; cioè li strumenti, Ciascun sentir; cioè ciascuno sentire, infine a la veduta; cioè infine alli occhi che sono organo visuale. E così dice che l’anima forma in quello corpo aereo tutti li sentimenti e li organi loro; ma non li organi vegetativi, come è stomaco ec., che non si chiamano organi; ma membri vitali: però che non li sono bisogno. Quindi; cioè da quelli organi dei sentimenti così formati, come ditto è, parliamo; cioè noi anime, e quinde; cioè da quelli organi, ridiam noi; cioè anime separate dal corpo, Quinde; cioè con sì fatti organi, e da sì fatti organi, facciam le lagrime e i sospiri; cioè noi anime, Che; cioè le quali, per lo monte; cioè del purgatorio, aver sentito puoi; cioè tu, Dante. Segondo che ci affigono i disiri; cioè li desideri affiggeno noi anime, E li altri affetti; cioè desideri, o vero azioni o vero passioni de le cose presenti; e disiri s’intende de le cose assenti e questi stanno nell’anima, e però dice: l’ombra si figura; cioè si mostra e varia sua paruta, secondo che si mutano li desideri e li affetti dell’anima, E quest’è; ecco che conchiude la soluzione del dubbio; cioè come si possano quelle58 ombre fare magre ne le loro apparenzie: imperò ch’elle si figurano secondo li desideri et affetti che sono nell’anima59: è lo desiderio d’avere fatto astinenzia, come li omini di santa vita che non anno se non lo bucchio e l’osso, e così si figurano quelle ombre; e però dice: E quest’è; cioè e questa è, la cagion di che; cioè de la quale, t’ammiri; cioè ti meravilli; e così è soluto lo dubbio. Et è qui da notare che questa fizione è stata necessaria a l’autore, per fare verisimile lo suo poema nel quale àe fitto60 l’anime parlare, ridere, piangere, cantare, e così dell’altre passioni che àe ditto nel processo suo; e benchè questa sia stata opinione d’alquanti, non è approvata61 dai santi; ma tegnano che miraculosamente Iddio faccia l’anime passibile62 dei tormenti, richiedente questo la sua iustizia.
C. XXV — v. 109-120. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che, montati suso nel settimo girone e volti a man destra, andavano su per la cornice per una spera di fuoco, che trovonno che circundava la ripa del vii girone intorno; e come fu ammonito da Virgilio nell’andare cautamente, dicendo: E già venuto a l’ultima tortura; cioè tormento: imperò che questo è lo vii girone, dove finge l’autore che si purghi lo vii peccato; cioè la lussuria nel fuoco, che è conveniente pena a tale peccato, S’era per noi; cioè per Virgilio, Stazio e per me, e volto; s’era per noi, s’intende, a la man destra; come tutta via àe finto che siano iti per lo purgatorio, Et eravamo attesi; noi sopra ditti, ad altra cura; cioè ad altra sollicitudine che non eravamo stati infine a qui: imperò ch’eravamo attesi a la cura del purgatorio63, del peccato de la lussuria, et infine a qui eravamo stati attesi del peccato64 de la gola. Quivi; cioè in quil settimo girone, la ripa; cioè lo lato dell’altezza del monte, fiamma in fuor balestra; cioè in fuor da sè in verso la cornice. E questo finge per convenienzia, che come li beni terreni ànno a muovere la lussuria et incitano la carne, e la carne muove lo incendio unde viene la concupiscenzia e l’atto carnale; così la ripa gitti la fiamma che tale peccato purghi; et allegoricamente, da l’astinenzia e da la emacerazione de la carne risurga in quelli del mondo uno fervore di carità, che purghi ogni carnalità. E la cornice; che è di verso l’aperto del monte, spira fiato; cioè vento, in suso; cioè inverso l’altezza del monte, Che; cioè lo quale fiato, la riflette; cioè ripiega le’; cioè la fiamma in verso la ripa65, e via; cioè molto, da lei; cioè dalla cornice, sequestra; cioè divide la fiamma. E per questo dà ad intendere che della purgazione della gola viene fiato, che cessa la fiamma della lussuria: però che di sotto a quella cornice si purga lo peccato della gola sì, che quinde viene lo vento; cioè la freddezza che cessa lo incendio della lussuria, quanto per allegoria, intendendo di quelli del mondo: ma secondo la lettora, per quelli del purgatorio è necessaria tale fizione, per mostrare che via vi sia per potere andare. Onde; cioè per la qual cosa, ir; cioè ire, ne convenia; cioè a noi convenia andare, dall’aire schiuso; cioè di verso la cornice, u’era l’aire aperto, Ad uno ad uno; cioè l’uno inanti l’altro su per la cornice ch’era stretta, per non accostarci troppo a la fiamma, et io; cioè Dante, temea il fuoco; cioè di verso la ripa, e però dice: Quindi; cioè di verso lo lato, u’era lo fuoco, e quinci; cioè di verso la cornice, dove io era, temea io; cioè Dante, cader giuso; del monte in sul sesto che avavamo lassato. Lo Duca mio; cioè Virgilio, dicea: Per questo loco; cioè periculoso, Si vuol tener alli occhi stretto il freno; acciò che s’avvisino ai piedi, e non vadino avvisando qua e là: Però che errar potrebbesi per poco; da noi. E ben finge che ’l dica Virgilio, e significa la ragione: imperò che ragione è che, se l’occhio non guida lo piè ne li estremi66, che l’uomo caggia; e non sensa cagione finge che questa via sia così strema e periculosa, a denotare allegoricamente che la via che è tra questi due peccati; cioè gola e lussuria, è molto strema e periculosa: imperò che l’uno peccato ci manda ne l’altro; la lussuria in verso la gola, e la gola in verso la lussuria. E però la via, per la quale noi possiamo andare illesi dall’uno e dall’altro, è la via strema de l’astinenzia, la quale è freno de la gola: e, raffrenata la gola, è raffrenata la lussuria, e chi non va cautamente per essa può cadere ne la gola, e poi, perchè la gola è amica del ventre, ne la lussuria, la quale si purga in fuoco perchè ella è incentiva de la carne e de l’animo, sicchè non lassa riposare.
C. XXV — v. 121-132. In questi quattro ternari lo nostro autore incomincia a dire de le voci, ch’elli finge che si dicessono in quello settimo girone per quelle anime che si purgavano ne la fiamma ditta di sopra, dicendo così: Summae Deus clementiae; questo è uno inno che canta la s. Chiesa, che incomincia come detto è; et in esso dimanda che Iddio incenda li cuori del fuoco del Santo Spirito per sì fatto modo, che si cessi de la lussuria; e però finge l’autore che le dette anime lo cantasseno, nel seno Del grande ardor; cioè nel mezzo de la fiamma, allor; cioè in quil tempo, udì’; io Dante, cantando; cioè dall’anime ch’erano ne la fiamma, Che; cioè lo qual canto, ch’io uditti, di volger mi fe caler; cioè curare, non meno; che d’avvisarmi ai piedi. E viddi spirti; cioè poi che io mi volsi, per la fiamma andando; cioè mentre ch’io andava, viddi spirti ne la fiamma, Per ch’io; cioè imperò che io Dante, guardava loro; cioè li spiriti, et ai mie’ passi; cioè guardava ancora, e questa è la cagione per ch’io viddi spiriti mentre ch’io andava, per ch’io avvisava loro et anco ai miei piedi; e però dice: Compartendo la vista; cioè lo mio vedere, a quando a quando; cioè a tempo a tempo: imperò che parte del tempo avvisava li spiriti ch’erano nel fuoco, e parte m’avvisava ai piedi. Non sensa cagione finge l’autore che in questo luogo avesse maggiore bisogno di ponersi cura ai piedi, che nelli altri luoghi del purgatorio; ma per dimostrare allegoricamente e moralmente che, volendo trattare del peccato de la lussuria, era bisogno ch’avesse cura che li piedi; cioè l’affezione, non errasseno: però co l’affezione sola in tal peccato si può cadere. Appresso ’l fine ch’a quest’inno fassi; cioè a quello che ditto è, che incomincia: Summac Deus clementiae — . Gridavano alto; cioè con alta voce li spiriti: Virum non cognosco; questa è la parola che rispuose la Virgin e Maria all’angiulo: Quommodo fiet istud, quoniam virum non cognosco, secondo che scrive santo Matteo nel suo evangelio; cioè che la Virgine Maria dicesse: Come si farà questo che tu dici, che io conceperò e parturirò: imperò ch’i’ò promesso d’osservare virginità, e questo è mio proposito? Unde finge l’autore che quelli spiriti gridino questo, a comendazione de la virginità che fu sì cara a la Virgine Maria, che sensa essa non arebbe accettato; e per maggiore convenienzia si dè intendere che femine fusseno state quelle che diceano: Virum non cognosco — . Indi; cioè ditto questo, ricominciavan; li ditti spiriti, l’inno bassi; cioè con la bassa voce, non gridando, ricominciavano da capo lo ditto inno. Finito questo, cioè inno sopradetto in fin presso alla fine: imperò che la fine non faceva a proposito, come appare a chi legge lo ditto inno67, gridavano; li ditti spiriti: Al bosco Si tenne; o vero stette, Diana; cioè la dia de la castità che fu chiamata Diana, la quale fingono li Poeti che fusse filliuola di Latona, e fu virgine et era cacciatrice et usava pure nei boschi per servare la sua virginità; e però dice lo testo stette, o vero si tenne; l’una e l’altra parola sta bene, et Elice caccionne; cioè del bosco; Diana cacciò Elice del bosco: questa Elice, che per altro nome fu chiamata Calisto, fu filliuola di Licaone re d’Arcadia, la quale essendo compagna di Diana fu ingannata da Giove et ingravidò di lui, e però Diana la cacciò de la sua compagnia, come fu ditto di sopra nel canto iv ne la cantica ii, Che; cioè la quale Elice, di Venere; cioè de la lussuria, avea sentito ’l tosco; cioè l’amaritudine e la infezione. Venere si dice la dia de la lussuria; ma ella si può dire mellio la volontà umana che genera la benivolenzia, la quale è nell’anima umana, la quale se s’inganna è ditta concupiscenzia e parturisce amore, lo quale disonesto e carnale è ditto Cupido; e se non è ingannata che vollia lo bene onesto, allora è ditta benivolenzia e genera da sè amore, et àe tre suore lo ditto amore che è onesto, e queste sono le tre Grazie; cioè Pansitea, Eugiale et Epersinne68, le quali si dipingono nude: imperò che tra li amici ogni cosa dè essere manifesta; e coniunte e connesse insieme: imperò che ogni cosa dè essere comune. L’una sta volto le reni a le du’, e porge loro lo pomo dell’oro alle du’, e le du’ ragguardano lei e ciascuna porge a lei lo suo pomo, a significare che la grazia si dè dare senza rispetto alcuno, e dè tornare duplicata. E la prima s’interpreta allettante: imperò beneficio prima dato alletta chi lo riceve ad amore; la seconda, demulcente e delettante; e la tersa, retinte: imperò che s’alletta con beneficio ad amore, poi si diletta ne l’amore, e per lo diletto si ritiene. Sono connesse insieme: imperò che l’amicizia dè essere indissolubile, le quali fanno l’amicizie e sono ditte filliuole di Venere e di Baco: imperò che da benivolenzia e liberalità d’animo nascono, e sono dolce e buone. Ma Elice sentitte Cupido, che è amaro e vituperoso; e però dice l’autore in questa forma, a dare ad intendere questa fizione di Venere.
C. XXV — v. 133-139. In questi due ternari et uno versetto lo nostro autore finge che ancora udisse altri canti, che rispondeano a commendazione de la castità; e così finisce lo canto, dicendo così: Indi; cioè di poi a quil che è ditto di sopra, a cantar tornavano ancor donne; finge che siano state donne quelle che cantasseno l’inno ditto di sopra, e dicesseno: Virum non cognosco; a loda de la Virgine Maria, e così ritornasseno poi anco a cantare, e di po ’l canto, e nel canto, Lodavano i mariti; o loro, o d’altri, che; cioè li quali, fuor casti; cioè funno casti, come coloro che servonno debitamente lo matrimonio, Come virtute; cioè la continenzia, e matrimonio imponne; cioè la legge matrimoniale impone ai mariti che debbiamo essere casti, E questo modo; cioè che ditto è di sopra, di stare nel fuoco a purgare lo peccato de la lussuria; lo quale fuoco è pena digna a sì fatto peccato: imperò che come sono arsi nel mondo ne la concupiscenzia de la carne; così ardino per ristoro nel fuoco e desiderio de la continenzia e castità; lo quale modo è necessario a quelli del mondo che si volliono emendare di tal peccato; e però finge di quelli del purgatorio, secondo la lettera, per dare ad intendere allegoricamente e moralmente di quelli del mondo, credo; dice l’autore, che lor basti; cioè duri, Per tutto ’l tempo che il fuoco li abrucia; cioè tanto, quanto staranno nel fuoco a purgarsi di tal peccato: imperò che, quando fiano purgati, non fi’ bisogno più contrizione. Anco intendranno quelli del mondo a li altri gradi de le virtù, e quelli del purgatorio andranno a ricevere la gloria; benchè finge l’autore che le parole confortative a la castità dicano donne, e le vituperative de la lussuria dicano li omini come apparrà di sotto: imperò che disonestà serebbe che dicesseno quello che dirà di sotto. Con tal cura; cioè con tale contrizione, con cotai pasti; cioè con cotali ricreamenti de la virtù abbandonata da loro, convien Che la piaga da sezzo; cioè lo peccato de la lussuria, che è l’ultimo de’ sette peccati mortali, che piaga l’anima come lo coltello il corpo, si ricucia; cioè s’emendi e saldi, come si salda et emenda la ferita poi che è ricucita; o volliamo dire che ricucia si pogna qui impropriamente per saldare, cioè si risaldi: imperò che co le virtù si risaldano le piaghe dei vizi. E qui finisce il canto xxv, et incomincia il xxvi.
Note
- ↑ C. M. girone
- ↑ C. M. in due parti:
- ↑ C. M. girone
- ↑ C. M. uditteno
- ↑ C. M. lo conforta che domandi,
- ↑ C. M. salire dal
- ↑ C. M. sicchè lo Sole
- ↑ C. M. più di
- ↑ C. M. che è lo nostro
- ↑ C. M. l’ ala per la timidessa, Tale
- ↑ C. M. che quando v’è non si
- ↑ C. M. arsicciato. Finge — Forse artificiato — pare un glossema del copista. E.
- ↑ C. M. fusse ingraziato;
- ↑ C. M. di quel fanciullo,
- ↑ C. M. zii, o vero barbani materni
- ↑ C. M. si sentia consumare
- ↑ C. M. Meleagro per dolore
- ↑ C. M. zii
- ↑ C. M. disperò
- ↑ Ammenda secondo il Magl. — uccidere — furore.
- ↑ C. M. dilimoe
- ↑ C. M. desiderando
- ↑ C. M. cioè al vostro scuotere di voi
- ↑ C. M. è atto a reppresentare
- ↑ C. M. à da’ nostri atti in sè; e così finge
- ↑ C. M. advenga
- ↑ C. M. che la dica
- ↑ C. M. rei
- ↑ Sie; fu presso gli antichi la voce delle tre persone singolari nel presente congiuntivo, tra perchè in e finivano pure i verbi di qualunque coniugazione al detto modo, e perchè seguitavano i Latini, che ebbero siem, sies, siet ec. E.
- ↑ C. M. denno
- ↑ C. M. e lei onorare;
- ↑ Se; persona seconda singolare, nata dall’infinito sere, e cadente in e per legge d’uniformità. E.
- ↑ C. M. altrove
- ↑ C. M. in sè ne ritiene alcuna parte
- ↑ C. M. orecchi, l’una... e l’altra
- ↑ C. M. a queste orecchie
- ↑ C. M. per quelle orecchie
- ↑ C. M. per l’una orecchia
- ↑ C. M. mettere in forma tutte
- ↑ C. M. discorre per le vene. E fa
- ↑ C. M. rimane nel fegato, a fare
- ↑ C. M. nel fegato,
- ↑ C. M. vene che sono dal fegato ai testicoli ne’ vagelli
- ↑ C. M. femineo inchiude lo sperma femineo e fassi
- ↑ Attività, senza accento come ebrieta a pag. 545 di questo volume. E.
- ↑ C. M. dal fegato de l’omo
- ↑ C. M. unde descende.
- ↑ C. M. meschiato e circondato dal sangue
- ↑ C. M. non compiuta.
- ↑ L’Allighieri precorse l’opinione del Galilei; che il vino altro non sia che luce del sole mescolata con l’umido della vite. Al che soggiugne Filippo Re che le piante vengono determinate ad assorbire i vari princìpi loro necessari dall’impulso principalmente della luce, del calorico e probabilmente dell’elettricità; agenti ai quali va pienamente subordinata la vegetazione. E.
- ↑ C. M. declamazione,
- ↑ C. M. seperamento
- ↑ C. M. à per sè, non
- ↑ C. M. alla riva del
- ↑ Assai prima che Antonio De Dominis agevolasse ad altri la via, per mostrare come l’arco baleno si formi per le ritonde goccie di pioggia in cui la luce del Sole e si rifranga e rifletta, Dante ne ebbe esposta la ragione. E.
- ↑ C. M. informativa
- ↑ Da — l’aire — a — altro luogo. — correzione dal Magliab.
- ↑ C. M. quelle anime fare
- ↑ C. M. ne l’anima, e ne l’anima è lo desiderio
- ↑ C. M. finto
- ↑ C. M. è appropriata dei santi.
- ↑ C. M. passibili
- ↑ C. M. del purgamento del peccato
- ↑ C. M. al peccato
- ↑ Giunta del Magl. da — la ripa — a — per la qual cosa. E.
- ↑ Si avverta qui la ripetizione della particella che adoperata dai Classici, affine di rendere più spiccato il nesso di taluna proposizione. E.
- ↑ Da — Indi — a — inno, — giunta dal Magl.
- ↑ C. M. et Eufrosinne,