Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto XXVI
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto ventiseiesimo
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C A N T O X X V I.
1Mentre che su per l’orlo, uno inanzi altro,1
Ce n’andavamo, spesso il buon Maestro
Dicea: Guarda, giovia: chè io ti scaltro.2
4Feriami ’l Sole in su l’umero destro,
Che già raggiando tutto l’occidente
Mutava in bianco aspetto di celestro;
7Et io facea coll’ombra più rovente
Parer la fiamma; e pur a tanto indizio
Vidd’io molte ombre, andando, poner mente.
10Questa fu la cagion che diede inizio
Lor a parlar di me, e cominciarsi
A dir: Colui non par corpo fittizio.
13Poi verso me, quanto potean farsi,
Certi si fecen, sempre con riguardo
Di non uscir unde non fusseno arsi.3
16O tu che vai, per non esser più tardo;
Ma forsi riverente, alli altri dopo,
Risponde a me che ’n sete et in foco ardo.
19Nè solo a me la tua risposta è uopo:
Chè tutti questi n’ànno maggior sete,
Che d’acqua fredda et Indo et Etiopo.4
22Dimmi com’è che fai di te parete5
Al Sol, come se tu non fussi ancora
Di morte intrato dentro da la rete?6
25Sì mi parlava un d’essi; et io mi fora7
Già manifesto, s’io non fusse atteso
Ad altra novità ch’apparve allora:8
28Chè per lo mezzo del cammino acceso
Venne gente col viso incontra a questa,
La qual mi fece a rimirar sospeso.
31Là veggio d’ogni parte farsi presta
Ciascun’ombra, e baciarsi una con una,
Senza restar, contente a breve festa;
34Così per entro loro schiera bruna9
S’ammusa l’una coll’altra formica,
Forsi a spiar lor via e lor fortuna.
37Tosto che parten l’accollienza amica,
Prima che ’l primo passo li trascorra,10
Sopra gridar ciascuna s’affatica.11
40La nova gente: Soddoma e Gomorra;
E l’altra: Ne la vacca intrò Pasife,12
Perchè ’l torello a sua lussuria corra.
43Poi come gruve, a le montagne rife13
Volasser parte, e parte inver l’arene,
Queste del giel, quelle del Sole schife,
46L’una gente sen va, l’altra sen vene
E tornar lagrimando ai primi canti14
Et al gridar, che più lor si convene;
49Et accostarsi a me, come davanti,15
Essi medesmi che m’avean pregato,
Attenti ad ascoltar nei lor sembianti.
52Io, che du’ volte avea visto lor grato,
Incominciai: O anime, secure16
D’aver quando che sia di pace stato,
55Non son rimase acerbe, nè mature
Le membra mie di là; ma son qui meco
Col sangue suo e co le suo’ giunture.
58Quinci su vo, per non esser più cieco:
Donna è di sopra che ne acquista grazia;
Per che il mortal pel vostro mondo reco.
61Ma se la vostra maggior vollia sazia
Tosto divegna, sì che il Ciel v’alberghi,
Che è pien d’amore e più ampio si spazia;17
64Ditemi, a ciò che ancor carte ne inverghi,18
Chi siete voi, e che è quella turba,19
Che se ne va di rieto ai vostri terghi?20
67Non altramente stupido si turba
Lo montonaro, e rimirando ammuta,21
Quando rozzo e salvalico s’inurba,
70Che ciascun’ombra fece in sua paruta;
Ma poi che funno di stupore scarche,22
Lo qual nelli alti cuor tosto s’attuta:23
73Beato te, che de le nostre marche,
Incominciò colui che pria ne inchiese,24
Per morir meglio esperienzia imbarche!
76La gente, che non vien con noi, offese
Di ciò, per che già Cesar, triunfando,25
Regina, contra sè, chiamar s’intese:
79Però si parten, Soddoma gridando,
Rimproverando a sè, com’ài udito,
Et aiutan l’arsura vergognando.26
82Nostro peccato fu ermafrodito;
Ma perchè non servammo umana legge,
Seguendo come bestie l’appetito,
85In opprobrio di noi per noi si legge,
Quando partianci, il nome di colei,27
Che s’imbestiò ne le imbestiate schegge.
88Or sai nostri atti, e di che fummo rei:
Se forsi a nome vuoi saper chi semo,
Tempo non è da dir, e non saprei.
91Farotti ben di me volere scemo:28
Son Guido Guinissello, e già mi purgo29
Per ben pentirmi prima ch’a lo stremo.30
94Quali ne la tristizia di Ligurgo
Si fer duo filli al riveder la madre,31
Tal mi fec’io; ma non a tanto insurgo.
97Quand’io odo nomar sè stesso il padre
Mio, e delli altri miei millior, che mai
Rime d’amor usar dolci e leggiadre;
100E senza udir e dir pensoso andai
Lunga fiata rimirando lui,
Nè, per lo foco, in là più m’appressai.
103Poi che di riguardar pasciuto fui,
Tutto m’offersi pronto al suo servigio
Co l’affermar che fa creder altrui.
106Et elli a me: Tu lassi tal vestigio,
Per quel ch’io odo, in me, e tanto chiaro,32
Che Lete nol può torre, nè far bigio.33
109Ma se le tuo’ parole or ver giuraro,
Dimmi che è cagion, per che dimostri34
Nel dir e nel guardar d’avermi caro?
112Et io a lui: Li dolci ditti vostri,
Che, quanto durerà l’uso moderno,
Faranno cari ancora i loro inchiostri.35
115O frate, disse, questi ch’io ti cerno
Col dito (et additò un spirto inanzi)
Fu millior fabbro del parlar materno.
118Versi d’amor e prose di romanzi
Soverchiò tutti; e lassa dir li stolti
Che quel di Lemosì credon ch’avanzi:36
121A voce più che al ver drizzan li volti,
E così ferman sua opinione,
Prima ch’altra ragion per lor s’ascolti.37
124Così fer molti antichi di Guittone,
Di grido in grido pur lui dando pregio,
Fin che l’à vinto il ver con più persone.
127Or se tu ài sì ampio privilegio,
Che licito ti sia d’andare al chiostro,
Nel quale è Cristo abbate del collegio,
130Falli per me udir d’un pater nostro,38
Quanto bisogna a noi di questo mondo,
Dove poter peccar non è più nostro.
133Poi, forsi per dar luogo altrui, segondo
Che presso avea, disparve per lo fuoco,
Come per acqua il pescio andando al fondo.
136Io mi fei al mostrato inanzi un poco,39
E dissi, che al suo nome il mio disir40
Apparecchiava grazioso loco.
139El cominciò liberamente a dir:41
Tan m’abelhis vostre cortes deman,42
Qu’ieu m no puesc, ni vueilh a vos cobrir.
142Jeu sui Arnautz, que plor e vai cantan:
Consiros vei la passada falor,
E vei jauzen le joi que sper danan.
145Ara us prec per aquella valor,
Que us guia al som d’estes calina:
Souvenha us a temps de ma dolor.
148Poi s’ascose nel fuoco che li affina.
- ↑ v. 1. C. M. C. A. sì per l’orlo, uno innanzi
- ↑ v. 3. C. A. Diceami: Guarda giovi, ch’io
- ↑ v. 15. C. A. dove non fussero
- ↑ v. 21. C. A. fredda Indo ed
- ↑ v. 22. C. A. Dinne come è
- ↑ v. 24. C. A. entrato
- ↑ v. 25. Fora; sarei, così mutato da fore, proveniente dal forem, fores, latino. E.
- ↑ v. 27. C. A. che apparse
- ↑ v. 34. C.M. C.A. Lì veggio
- ↑ v. 38. C. A. Anzi che il
- ↑ v. 39. C. A. Sopragidar ciascuna si fatica.
- ↑ v. 41. C. A. Nella vacca entra
- ↑ v. 43. C. A. Poi come gru che alle montagne Rife
- ↑ v. 47. C. A. E tornan lagrimando a’
- ↑ v. 49. C. A. E raccostarsi
- ↑ v. 53. C. M. C. A. sicure
- ↑ v. 63. C. M. più anco si spazia,
- ↑ v. 64. C. A. ne verghi,
- ↑ v. 65. C. A. e chi è
- ↑ v. 66. C. A. diretro a’
- ↑ v. 68. C. M. C. A. montanaro
- ↑ v. 71. C. A. furon
- ↑ v. 72. C. A. negli atti lor
- ↑ v. 74. C. A. Ricominciò colei,
- ↑ v. 77. C. A. Di quel
- ↑ v. 81. C. A. E aggiunto àn l’
- ↑ v. 86. Partianci; ci partiano o partiamo. Ne’ primi scrittori ricorre frequente lo scambio dell’m in n alla prima persona plurale; e questa forma, che è secondo la lingua romana, si mantiene tuttora cogli affissi. Veggasi Purg. xxvii — v. 44 Volenci. E.
- ↑ v. 91. C. A. di me il volere
- ↑ v. 92. C.A. Guinicelli,
- ↑ v. 93. C.M. A. Per ben dolermi
- ↑ v. 95. Si fero i figli a
- ↑ v. 107. C. A. io odo me, e
- ↑ v. 108. C. A. tor, nè farli bigio.
- ↑ v. 110. C. A. cagion, che tu dimostri
- ↑ v. 114. C. A. ancor li vostri
- ↑ v. 120. C. A. credo che
- ↑ v. 123. C. A. ch’arte o ragion
- ↑ v. 130. C. A. Fagli per me un dir di paternostro,
- ↑ v. 136. C. A. feci
- ↑ v. 137. C. A. disire
- ↑ v. 139. C. A. dire:
- ↑ v. 140. Il ch. M. Raynouard ristampò (Journal des Savans, 1830) i versi d’Arnaldo; ma noi qui li riporteremo come li ripublicò e tradusse Vincenzo Nannucci:
Tan m’abelhis vostre cortes deman,
Qu’ieu no m puesc ni m voill a vos cobrire.
Jeu sui Arnautz, que plor e vai chantan:
Consiros vei la passada folor,
E vei jauzen lo joi qu’ esper denan.
Ara us prec per aquella valor,
Que us guia al som sens freich e sens calina,
Sovenha us atemprar ma dolor.
«Tanto m’abbellisce (aggrada) il vostro cortese dimando, che io non mi posso nè mi voglio a voi coprire (nascondere). Io sono Arnaldo, che ploro e vo cantando: consiroso (pensieroso, afflitto) veggio il passato follore (follia), e veggio gaudente la gioia che spero dinanti (tosto, presto). Ora vi prego per quel valore (virtù), che vi guida al sommo (alla sommità, alla cima) senza freddo e senza caldo, sovvegnavi d’attemperare il mio dolore».
C O M M E N T O
Mentre che su per l’orlo ec. In questo canto xxvi lo nostro autore finge1, andando per lo vii girone, elli vidde gente nel fuoco, e con loro ebbe parlamento; cioè con alcuno. E dividesi questo canto in due parti principali, perchè prima finge come, andando per l’orlo del vii girone guardando nel fuoco, vidde genti venire l’una incontra all’altra e baciarsi in bocca e dire certe parole in vituperio et abominazione dello peccato, e come venne a parlamento con messere Guido Guiniselli dicitore in rima; ne la seconda parte, che fi’ la seconda lezione, finge come lo ditto messere Guido li dichiara chi sono quelle genti e la loro condizione, e perchè diceno le parole ditte di sopra e come vegnano a ragionamento dei dicitori in rima, e come li mostrò uno messere Arnando di Francia che avansò ogni uno, e come venne a parlamento con lui, et incominciasi quive: La gente, che non vien ec. La prima, che serà la prima lezione, si divide in sei parti: imperò che prima finge come, andando su per l’orlo de la cornice sollicitato da Virgilio, guardando nel fuoco vidde certe anime che s’accorseno ch’elli era vivo; ne la seconda finge come quelle anime, non escendo del fuoco, si fenno in verso lui e parlonnoli, dimandando chi elli era, et incominciasi quive: Poi verso me, ec.; ne la terza finge come elli si serebbe loro manifestato, se non che elli fu astratto da altra novità ch’elli vidde, et incominciasi quive: Sì mi parlava ec.; ne la quarta parte finge come l’anime ditte di sopra, che aveano vaghezza di parlarli, si raccostonno da capo inverso lui, et incominciasi quive: Poi come gruve, ec.; ne la quinta parte finge come elli parlò con loro, e certificolle ch’elli era ancor vivo, e dimandò loro chi erano, et incominciasi quive: Io, che du’ volte ec.; ne la sesta et ultima finge come messere Guido li parla e come si rallegra con lui, congratulandosi de la sua grazia, benchè anco non cognosca l’uno l’altro, et incominciasi quive: Non altramente ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere lo testo co l’esposizione letterale, allegorica o vero morale.
C. XXVI — v. 1-12. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come, andando su per la cornice che era nel vii girone sopra il sesto, sollicitato da Virgilio et ammonito che andasse accortamente e presto, elli s’accorse che molte anime ch’erano nel fuoco s’incomincionno a meravilliare e parlare di lui, dicendo cosi: Mentre; cioè in quil tempo, che su per l’orlo; de la cornice, come ditto fu di sopra, uno inanzi altro; cioè l’uno innansi l’altro, Ce n’andavamo; cioè Stazio innanti, Virgilio poi, et io di rieto, e così si dè daFonte/commento: Pagina:Commedia - Purgatorio (Buti).djvu/835 l’omo andare in questa vita; cioè che lo intelletto significato per Stazio vada inanti, la ragione significata per Virgilio vegna poi, e poi seguiti la sensualità2 la quale è ben guidata, quando va innansi lo intelletto e la ragione, et ella li seguita: imperò che lo intelletto mosterrà a la sensualità le cose divine, che si convegnano intendere per fede, che la ragione nolle può comprendere; ma ben può aiutare co le suoe ragioni, benchè efficacemente non possa provare, spesso il buon Maestro; cioè Virgilio, Dicea; a me Dante: Guarda; cioè da cadere: questo bene è conveniente a la ragione di far cauta la sensualità, che dell’uno peccato non caggia nell’altro, giovia; ecco che lo sollicità; e questo è anco conveniente a la ragione di sollicitare la sensualità, che non perda tempo, chè io; cioè imperò ch’io Virgilio, che significa la ragione, ti scaltro; cioè ti scorgo la via e faccioti pratico et accorto. Suole dirsi de l’omo pratico e scorto del mondo: Elli è uno scaltrito omo; e cusì si pillia quivi io ti scaltro; cioè ti scorgo e faccio pratico de la via per la via stretta tra i vizi: imperò che agevilmente si potrebbe cadere, necessaria è la guida de la ragione. Feriami ’l Sole in su l’umero destro; perchè chi sallisse in su uno monte tondo che fusse fatto a giri intorno; e, iunto in sul giro, li convenisse volgere in verso mano ritta, converrebbe che la mano ritta venisse di fuora; et essendo lo Sole presso a l’occaso, et elli fusse di ver l’occaso, converrebbe che l’ombra gittasse inverso lo monte, però fa l’autore questa fizione per mostrare vera la sua fizione e per mostrare l’ora ch’era tarda: imperò che il Sole era all’occaso; e però dice: Che; cioè lo quale Sole, già raggiando; cioè risplendendo coi suoi raggi, tutto l’occidente; al quale s’approssimava, Mutava in bianco aspetto di celestro: imperò che ’l cielo occidentale, inanti che ’l Sole vi s’approssimi, è celestro di colore; e poi che ’l3 Sole vi s’incomincia ad accostare per l’abundanzia de lo splendore, muta colore di celestro in bianco, Et io; cioè Dante, facea coll’ombra; la quale lo corpo mio facea, per li raggi del Sole in verso lo fuoco che4 sia da la ripa, più rovente; cioè più rossicante, Parer la fiamma; cioè del fuoco; questo è manifesto che ’l fuoco, veduto dai raggi del Sole, viene gialliccio; e se vi si oppone cosa che ripari li raggi del Sole, lo fuoco ritorna rosso come è di sua natura; e questo è perchè lo maggiore splendore fa5 sparere lo minore, e però lo Sole, che à maggiore splendore che ’l fuoco: fa sparere lo fuoco, e pur a tanto indizio; cioè del giallume del fuoco, che tornava in rosso all’ombra mia. Vidd’io; cioè Dante, molte ombre, andando; cioè mentre che andavano a la lor via per lo fuoco, poner mente; cioè all’ombra mia et a me. Questa fu la cagion; cioè del colore del fuoco e dell’ombra mia, che; cioè la quale cagione, diede inizio; cioè principio, Lor; cioè a quelle anime, ch’erano nel fuoco, a parlar di me; cioè di me Dante, e cominciarsi A dir; cioè tra loro: Colui; cioè dimostrando me Dante, non par corpo fittizio; cioè fitto et apparente come è lo nostro aereo; ma pare vero corpo di carne e d’ossa: imperò che fa ombra ai raggi del Sole, e i nostri non fanno ombra, perchè sono trasparenti. Et è qui da notare: con ciò sia cosa che di sopra abbia fitto6 che i corpi aerei dell’anime sieno visibili e demostrativi de le passioni che sono nell’anima, perchè finge che siano trasparenti ai raggi del Sole, sicchè non fanno ombra? A che si può rispondere che l’autore finge questo, per conservare la natura dell’aire, e mostrare che non sia mutato7 come l’aire è ricettivo dei colori e dimostrativo; così finge che sia recettivo da le passioni dell’anime e8 dimirantivo de’ colori e sia trasparente, come elli è di sua natura, e però non faccia ombra.
C. XXVI — v. 13-24. In questi quattro ternari finge lo nostro autore come quelle anime, che andavano per la fiamma, s’accostonno in ver lui e dimandòlo chi elli era, dicendo: Poi; cioè che le ditte anime9 abbeno ragguardato me, Certi si fecen; cioè di quelli spiriti certi si feceno, verso me; Dante, quanto potean farsi; sicchè non scisseno del fuoco; e però dice: sempre con riguardo Di non uscir unde non fusseno arsi; cioè de la fiamma; e questo finge, per mostrare che avesseno cura di non rompere la loro penitenzia. O tu che vai; ora introduce a parlare alcuna de le ditte anime, la quale disse a lui: O tu; cioè Dante, che; cioè lo quale, vai per non esser più tardo; cioè non perchè tu sii più tardo e negligente, che li altri du’ che ti vanno inansi, dopo alli altri; cioè di rieto alli altri du’, che vanno inanti, Ma forsi per esser riverente; cioè per fare e mostrare riverenzia a loro, che forsi sono persone da essere riverite; e questo finge, per mostrare moralità, che ’l minore dè riverire lo maggiore in tutti li atti andando e stando, e l’andare di rieto mostra riverenzia: imperò che mostra l’omo essere guidato da colui che va inanti, e che abbia a seguitare la volontà sua; e se altri ostasse: Perchè ai signori si va inanti da’ familli? Dèsi rispondere che ai signori si va inanti da coloro che ànno a servire, per cessare l’impedimenti e li nocimenti se avvenisseno; et anco ànno di rieto similmente quelli che sono a la difensione, a ciò che nel mezzo sia più siguro, Risponde a me; dice lo spirito che à incominciato a parlare, secondo che finge l’autore a lui, che ’n sete; quanto a la lettera, per lo ’ncendio; ma a l’allegoria; cioè in desiderio di vedere Iddio, et in foco ardo; cioè in questa fiamma, secondo la lettera; ma secondo l’allegoria; cioè in contrizione del mio peccato. Nè solo a me; dice quello spirito, che parla a Dante, la tua risposta è uopo; cioè la tua risposta non è pur bisogno a me, Chè; cioè imperò che, tutti questi; cioè che sono qui meco, n’ànno maggior sete; cioè maggior desiderio de la tua risposta, Che d’acqua fredda et Indo: l’Indi sono populi posti nell’Asia, di sopra li Arabi e li10 Carmani, che sono sopra l’Egitto che è tra l’oriente e il mezzo di’ sicchè ànno grandi caldi, e però vegnano rubicundi11 ne la faccia, e per li grandi caldi desiderano l’acque gelate, et Etiopo: li Etiopi sono al mezzodi’ e sono di verso l’oriente, e di verso l’occidente al lato a l’oceano meridiano, e per lo fervente caldo che ànno, lo sangue ànno in pelle e vegnano neri, e per li grandi caldi ànno desiderio grande dell’acque fredde; e però, per mostrare lo grande loro desiderio di sapere chi elli era, finge che facesse la ditta comparazione. Dimmi; ecco che dimanda e finge l’autore che dica a lui: Dimmi tu, Dante, com’è; cioè come è questo, che fai di te parete Al Sol; facendo ombra, che non suole essere usansa dei nostri corpi aerei, come; ecco che adiunge per similitudine, mettendo in dubbio quello ch’era certo, se tu non fussi ancora intrato dentro da la rete Di morte; cioè come se tu fussi anco vivo, e non fussi anco morto? Ecco che finge che l’anime abbiano lo corpo trasparente al Sole; ma non a la vista de l’occhio, per dare ad intendere che ’l Sole, che significa la grazia illuminante di Dio, penetra li loro corpi aerei perchè non è in loro cosa che possa impedire lo illuminamento de la grazia, come ne’12 vivi; e però finge che li loro corpi facciano ombra al Sole.
C. XXVI — v. 25-42. In questi sei ternari lo nostro autore finge come elli volea rispondere a la dimanda del sopra detto spirito; ma, atteso ad altra cura, lassò la risposta e dice quello che vidde, dicendo così: Sì mi parlava; cioè così mi parlava, come detto è di sopra, un d’essi; cioè di quelli ch’erano ne la fiamma, che s’erano accostati in verso me, et io; cioè Dante, mi fora; cioè mi sarei, Già manifesto; ai preditti spiriti, s’io; cioè se io Dante, non fusse atteso Ad altra novità; che mi fe lassare la risposta, ch’apparve; cioè la quale novità apparve, allora; cioè ch’io volea rispondere; e manifesta qual fu questa novità, dicendo: Chè per lo mezzo del cammino acceso; cioè per mezzo de la fiamma, Venne gente col viso incontra a questa; la quale venia in verso mano ritta, com’andava io Dante, La qual mi fece; cioè la quale gente fece me Dante, sospeso; cioè dubbioso, a rimirar; cioè ad avvisar da capo quil che facesseno. Là; cioè in quil luogo, veggio; io Dante, d’ogni parte; cioè de la gente13 che venia inverso noi, e da quella che venia con noi, farsi presta; cioè apparecchiata, Ciascun’ombra; cioè l’una in verso l’altra, e baciarsi una con una; cioè rendendosi pace, Senza restar, contente a breve festa; cioè contente di farsi festa brevemente, senza restarsi. E fa una similitudine, ch’elle faceano come le formiche che, quando si scontrano insieme, si reggeno et abboccano l’una l’altra come si volesseno parlare insieme, dicendo: Così per entro loro schiera bruna; cioè nera: imperò che le formiche sono nere, S’ammusa; cioè tocca lo muso dell’una lo muso dell’altra, l’una; formica, coll’altra formica; quando si scontrano, Forsi a spiar lor via e lor fortuna; cioè forsi per dimandare l’una l’altra de la via che dè tenere, e se à trovato de la biada pure assai, e come è faticosa o agevile la via o lunga o breve; e questa è fizione iocosa che l’autore pone qui, per dare qualche recreazione14 a lettore. Tosto che; cioè immantenente che si parteno l’una dall’altra, parten l’accollienza amica; cioè la bella ricevuta et amichevile, che à fatto l’una a l’altra, Prima che ’l primo passo li trascorra; cioè inanti che mutino lo primo passo, sicchè vegnino a l’altro passo, Sopra gridar ciascuna; cioè gente, cioè la venuta di nuovo e quella ch’era prima meco, s’affatica; per esser ben intesa s’affatica di gridare. La nova gente: cioè quella che venne di nuovo: Soddoma e Gomorra; gridava queste parole in opprobrio del peccato loro, come si manifesterà di sotto. Soddoma e Gomorra funno due città di quella contrada che si chiamava Pentapolis, perchè v’erano cinque città grandi et erano in uno piano tra du’ monti, che sono le confine d’Arabia e di Palestina; per la quale valle passava lo fiume Iordano, le quali peritteno tutte per l’abominabile e detestabile peccato contra natura, sì come è stato ditto di sopra nel canto xv de la prima cantica. E finge l’autore che questo gridasseno in confusione del loro peccato, e così accresceva la loro contrizione del peccato co la vergogna: imperò che costoro finge l’autore che fusseno colpevoli di sì fatto peccato. E l’altra; cioè gente che venia con esso noi, s’affatica a gridare: Ne la vacca intrò Pasife; che fu mollie del re Minos di Creta, Perchè ’l torello a sua lussuria corra: imperò che, innamorata del toro per ingegno di Dedalo, ebbe sua intenzione e generò lo Minotauro, come fu detto nel xii canto ne la prima cantica. E questo finge l’autore che quelli spiriti dicesseno: imperò che bestiabilmente vivesseno, seguitando 15 lo peccato de la lussuria, non servando matrimonio; ma adulterando, come adulterò Pasife, secondo la verità come ditto è nel prefato luogo, nè anco 16 servòno lo debito modo ne l’adulterio, o vero fornicazione. E però finge l’autore che rimproverino a sè medesimo Pasife, la quale, secondo la fizione, fu adultera e bestiale, non servando lo matrimonio et usando con modo non dovuto al sesso femineo col toro; e secondo la verità fu adultera, e però la rimproverano a sè medesimo che funno peccatori in sì fatto vizio, per accrescere la loro vergogna e con essa accrescere la contrizione, avendo in grande abominazione lo loro peccato. E finge l’autore che le preditte genti si faccino festa e bacinosi in bocca nel purgatorio, per grande zelo di carità per ristoro di sì fatti atti usati nel mondo per disonesto amore, e per arricordamento d’essi se li rappresentino ne la memoria, acciò che se ne vergognino et abbiane17 grandissimo dolore e contrizione, considerando di quanto merito serebbe stato, avendo usato tali feste e tali atti per onesto amore e fervore di carità. E secondo questa intenzione si può intendere allegoricamente di quelli del mondo, li quali, quando fanno penitenzia di sì fatto peccato, di tutti li atti disonesti fatti s’arricordano e di tutti ànno dolore e contrizione, e vorrebbeli avere inanti usati per onesto amore, et arrecansi farli18 onestamente e caritativamente in vendetta di quelli, sì come fanno quelli che lavano li piedi ai poveri rognosi e lebbrosi, e bacianoli per perfetta carità alcuni, et alcuni per vendetta di quello che già ànno usato e fatto disonestamente.
C. XXVI — v. 43-51. In questi tre ternari lo nostro autore finge come si partitte la gente sopra venuta, e l’altra s’accostò per parlare con lui, e prima pone una similitudine, dicendo: Poi; che ebbeno fatto le feste ditte di sopra, e ditte le parole, come gruve; questi sono uccelli che fanno passaggio, lo verno passano in Affrica a mezzodi’, e la state tornano a tramontana; e così dice che fenno quelle anime, e però dice: a le montagne rife; cioè de’ monti rifei che sono a la parte settentrionale, Volasser parte; cioè de le ditte gruve, e parte inver l’arene; cioè di Libia, o vero d’Africa, Queste del giel schife; cioè queste che volano in verso Africa: imperò che là volano, per aver del caldo e luggeno lo gielo, quelle del Sole schife; cioè quelle che volano ai monti rifei: imperò che a quelli monti è freddo; così, L’una gente sen va; cioè quella, che venne, se n’andò e passò oltra, l’altra; cioè gente, sen vene; cioè con esso noi, dice l’autore. E tornar lagrimando ai primi canti; cioè a l’inno ditto di sopra, cioè Summae Deus clementiae ec. — , Et al gridar; cioè Virum non cognosco, e l’altre voce19 commendative de la continenzia e vituperabili de la lussuria, che più lor si convene: imperò che più si convenia loro lo gridare che ’l cantare, in ristoro del canto fatto già lascivamente per disonesto amore. Et accostarsi a me; cioè Dante, come s’erano accostati di prima, come davanti; cioè come di prima, Essi medesmi; cioè quelli medesmi, che s’erano accostati prima, che; cioè li quali, m’avean pregato; ch’io dicesse loro come era ch’io andava vivo ancora per lo purgatorio, Attenti ad ascoltar; cioè me Dante, nei lor sembianti; cioè come elli mi20 mostravano nelli atti loro.
C. XXVI — v. 52-66. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come elli rispuose a quelli spiriti, che già l’aveano addimandato chi elli era, dicendo così: Io; cioè Dante, che; cioè lo quale, du’ volte; cioè prima, inansi che venisse la nuova gente; e la seconda, quando anco a vale s’approssimonno, lor grato; cioè loro piacere, avea visto; cioè veduto, Incominciai: O anime, secure; parlando a loro, incominciai ne la preditta forma, D’aver quando che sia di pace stato; ecco che dice che erano secure; cioè d’avere, quando che sia, quiete: imperò che l’anime del purgatorio sono nel certo d’avere la gloria, quando aranno purgato le loro peccata: voi vi meravilliate di me, io vi dico: Non son rimase acerbe: imperò che non sono anco morto: ogni volta che si muore inanti la vecchiaia, rimagnano le membra acerbe, nè mature Le membra mie di là; cioè nel mondo; e per questo dà ad intendere che non è morto vecchio: quando l’omo è vecchio è maturo, quando è decrepito allora è fraudo21; sicchè dice che non è anco morto, nè inanti a la vecchiaia, nè vecchio, ma son qui meco; cioè le mie membra, Col sangue suo: però che sono vive: dov’è lo sangue vivo in quil corpo è la vita: imperò che nel sangue sta la vita, e co le suo’ giunture; e per questo dimostra lo corpo essere intero. Quinci; cioè per questo luogo, su vo; cioè in paradiso, per non esser più cieco; cioè ignorante; ma per esser saputo et esperto de le pene con che si purga lo peccato. Donna è di sopra; cioè in cielo, che; cioè la quale, ne acquista grazia; cioè a me da Dio, per la quale io posso venire per questo cammino: questa donna è Beatrice; cioè la santa Teologia, che li acquista grazia da vedere lo modo de la purgazione dei peccati, Per che; cioè per la qual grazia, il mortal; cioè lo corpo mortale, pel vostro mondo reco; cioè per lo purgatorio, che è lo vostro mondo, reco lo corpo mortale per grazia che m’è stata accattata da Beatrice, secondo la lettera; ma, secondo l’allegoria, da la Teologia àe imparato come si convegnano purgare l’anime dai peccati. Ma se la vostra maggior vollia sazia Tosto divegna; ecco che li sconiura per quello che debbia loro essere più in desiderio; cioè d’avere vita eterna tosto, e però li prega per questo; cioè che tosto sia adimpiuto lo loro desiderio, sì che il Ciel v’alberghi; ecco che dichiara in che sta la loro vollia; cioè d’avere vita eterna in cielo, e però dice: Sì che quil cielo vi riceva, Che; cioè lo quale cielo, è pien d’amore: imperò che quello è lo cielo empireo, nel quale è Iddio; e però dice: è pien d’amore; — quia ubi caritas et amor, ibi Deus est — , e più ampio si spazia: imperò ch’è maggior di tutti li altri: imperò che tutti li contiene dentro da sè, Ditemi; cioè dite a me Dante; ecco che dimanda e dimostra infine, a ciò che ancor; cioè che ancora, carte ne inverghi; cioè ch’io lo scriva: scrivere è invergare le carte: imperò che si fanno ne la carta le lettere a riga riga, come si fanno le verghe nel panno, Chi siete voi22 e che è quella turba, Che; cioè la quale, se ne va di rieto ai vostri terghi; cioè di rieto ai vostri dossi, de la qual turba fu ditto di sopra?
C. XXVI — v. 67-75. In questi tre ternari lo nostro autore finge quil che feceno e disseno li sopra ditti spiriti, udita la risposta di Dante, molto meravilliandosi, e però dice: Non altramente; che si turbasseno le23 sante anime, stupido si turba Lo montonaro; cioè lo pastore che guarda li montoni e le pecore; e come da le pecore è ditto pecoraio da le più genti, così dai montoni lo volse chiamare l’autore montonaro: stupido è l’omo quando li sentimenti non fanno le suoe operazione24: allora si turba l’omo, quando la fantasia determinatamente non discerne le cose obiette, e rimirando; cioè le cose vedute anco altra volta, ammuta; cioè ammutulisce e non parla, Quando25 rozzo; de le cose de la città, e salvatico: imperò che è usato di stare pure ne le selve co le bestie, s’inurba; cioè mette sè prima ne la città, Che ciascun’ombra fece; cioè si turbò, in sua paruta; cioè ne la sua apparenzia; e questo viene a determinare quello che è ditto di sopra; cioè non altramente si turba lo montonaro. Ma poi che funno di stupore scarche; cioè poi che fu cessata l’ammirazione da le ditte anime, Lo qual; cioè stupore, nelli alti cuor; cioè magnanimi, tosto s’attuta; cioè si spegne e viene meno, dice: Incominciò colui; cioè quello spirito, che; cioè lo quale, pria; cioè prima, ne inchiese; cioè mi dimandò: Beato te; cioè Dante, che; cioè lo quale, imbarche: cioè mette nel tuo animo: come si mette quil che si vuole portare ne la barca; così quello che l’omo vuole tenere a mente mette nell’animo, esperienzia; cioè prova, de le nostre marche; cioè de le nostre contrade, Per morir meglio; che non seresti morto, se non avessi veduto l’esperienzia de la nostra purgazione: felice è colui che impara de l’esemplo d’altri! E qui finisce la prima lezione del xxvi, et incominciasi la secunda.
La gente, che non vien ec. Questa è la seconda lezione del canto xxvi, ne la quale l’autore finge come lo spirito che li à parlato, li manifesta quale era quella gente che se n’era ita, e per che dicea le sopra ditte parole e la condizione di loro, e perchè diceno le ditte parole; e manifesta sè, che fu messere Guido Guiniselli dicitore in rima e parlano insieme dei dicitori; e come lo ditto messere Guido dimostra messere Arnaldo di Francia che fu ottimo dicitore in lingua francesca; e com’elli viene a parlamentar con lui. E dividesi questa lezione in parti sei: imperò che prima finge come messere Guido li manifesta chi è la gente che se n’è ita a rieto, e chi sono ellino, e perchè diceno le ditte voci in vitoperio del loro peccato; ne la seconda finge come lo ditto messere Guido si manifesta a lui, e delli altri si scusa, e com’elli si meravillia del ditto messere Guido, e come n’ebbe pensieri, et incominciasi quive: Or sai nostri atti, ec.; ne la terza finge come vennono a parlamento de la scienzia del dire in rima, e come in ciò lodava l’uno l’altro, et incominciasi quive: Poi che di riguardar ec.; ne la quarta finge come messere Guido li dimostra messere Arnaldo sopra ditto e dice sua26 scienzia di molti altri dicitori, et incominciasi quive: O frate, disse, questi ec.; ne la quinta finge come messere Guido lo prega che, quando sera inanti a Dio, preghi per lui, et incominciasi quive: Or se tu ài sì ampio ec.; ne la sesta et ultima finge come venisse a parlare insieme con messere Arnaldo, quive: Io mi fei al mostrato ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere lo testo co l’esposizione27 allegoriche, o vero morali e litterali.
C. XXVI — v. 76-87. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come lo spirito, che si nomerà poi messere Guido, parlando con lui li manifesta la condizione de la gente andata di rieto a loro, e la condizione sua e la cagione de le voci che l’una e l’altra grida, dicendo: La gente, che non vien con noi; anco se n’è ita di rieto a noi, venuta prima contra a noi: impero che ’l peccato loro fu contrario al nostro: imperò ch’ellino pecconno in peccato contra natura, e noi in peccato naturale, come appare di sotto, quando disse: offese Di ciò; cioè ebbe peccato per quello, per che già Cesar, triunfando; cioè ricevendo il triunfo: nel quale triunfo era licito a dire ogni villania al triunfante, Regina, chiamar s’intese; da quelli che li erano d’intorno al carro, in sul quale triunfava, contra sè; cioè contra l’onore suo, come è stato ditto di sopra nel canto xxiv. Quando li Romani triunfavano era licito, di dire al triunfante ogni villania che l’omo volea; e però quando Giulio Cesare triunfava, come recita Svetonio in primo libro de la vita e dei costumi dei dodeci principi romani, incominciando da Cesari e procedendo infine a Domiziano, erano chi li andavano dintorno al carro, dicendo: Dio ti salve, Reina, rimproverandoli che quando fu iovano, perseguitato da Silla andato a re Nicomede di Bittinia, stette con lui disonestamente a modo de la reina; e però finge che altri andasseno cantando intorno al carro: Ecce Caesar nunc triumphat qui subegit Gallias; Nicomedes non triumphat qui subegit Caesarem. Vorrei volontieri che ’l nostro autore e li altri autori avesseno taciute sì fatte materie, almeno di non aver posto in esemplo li notabili omini: imperò che è grande periculo, parlando alli omini non perfetti in virtù: imperò che dice s. Agostino: Legis litera quæ docet non esse peccandum, si spiritus vivificans desit, occidit. Sciri enim facit peccatum potius, quam caveri; ideo magis vult augeri quam minui, quia malæ concupiscentiæ etiam prævaricatio legis accedit. Ma lo nostro autore fe lo suo libro a coloro che dovesseno diventare perfetti, e però niente volse tacere. Però si parten; li ditti peccatori; cioè perchè pecconno in sì fatto vizio, si parteno da noi che peccammo contrario vizio, Soddoma gridando; cioè gridando contra sè e rimproverandosi lo peccato di Soddoma che arse co le cinque città, come ditto fu di sopra, per quello detestabile peccato, Rimproverando a sè, com’ài udito; lo ditto peccato, Et aiutan l’arsura; cioè de la fiamma, ne la quale sono, reputandosi ben degni d’essa, vergognando; cioè prendendo vergogna e confusione dello peccato. Poi che à detto di quella gente che era passata, dice di sè dicendo: Nostro peccato; cioè di me e delli altri che vegnano oltra con voi, fu ermafrodito; questo Ermafrodito fu filliuolo di Mercurio e di Venere, e però fu chiamato Ermafrodito da Ermes che è Mercurio, et Afrodita che è Venere. E scrive Ovidio Metamorfosi nel libro iv che, essendo bellissimo iovano et andando per le selve perchè molte lo richiedeano, et elli volea servare sua onestà, ogni una rifiutava; trovata una fonte chiarissima, uno di’ che era grande caldo, spolliossi et incominciò a notare; per la qual cosa una Ninfa, che era chiamata Salmace, vedendo costui che già grande tempo avea desiderato e richiestolo disonestamente d’amore nell’acqua, spolliossi et incominciò a notare con lui et afferòsi a lui sì strettamente, che di due diventonno uno, sicchè uscito de la fonte si trovò avere lo sesso maschio e femineo; e rimase poi la potenzia di trasmutare lo sesso in quella acqua per li prieghi di Ermofrodito28, che fe al padre et a la madre; cioè a Mercurio e Venere, sicchè chiunqua v’intrava, o maschio o femina che fusse, n’essiva29 duplicato nel sesso, cioè maschio e femina, e però la Grammatica chiama questi così fatti ermafrodita. Et io mi ricordo che, essendo garsone, mi fu mostrato uno che andava vestito come omo e stava in30 sul sullieri co la rocca e filava e chiamavasi mona Piera; e sono potenti alquanti all’uno e all’altro atto; e però la legge vuole che a questi così fatti si dia elezione, secondo qual costume volliano vivere, e secondo quello denno vivere. E se si trovano vivere altramente debeno essere puniti come soddomiti; e per questo, secondo la lettera, vuole intendere questi così fatti; ma non credo che questa fusse l’intenzione de l’autore. Non ne sono tanti, che l’autore intendesse che tutti quelli fusseno stati di ciò, nè eziandio si trova che messere Guido Guiniselli fusse di tale sesso: imperò che questi sono mostri de natura e rade volte si trovano; ma per questi intese le femine che, usando col sesso virile, o coloro che usando col sesso femineo, non servano l’ordine e ’l modo debito. E secondo l’allegorico intelletto s’intendeno coloro che non servano matrimonio; ma usano adulterio o fornicazione sì, come dà ad intendere l’uno e l’altro intelletto la voce, che finge che dicesseno in opprobrio di loro; e però dice: Ma perchè non servammo umana legge; questo si può intendere de li ermafroditi, che non ànno osservato quello che la legge à loro comandato; anco si può intendere per quelli, che non ànno servato debito modo et ordine; anco per quelli che non ànno servato lo matrimonio, lo quale ben che fusse istituito da Dio, anco le legge umane l’ànno ordinato; et anco si può intendere per ogni illicito uso, benchè s’osservi la convenienza del sesso, Seguendo come bestie l’appetito; ecco per questo si certifica quello che è ditto di sopra; cioè che sì fatti peccatori sono stati in ciò bestiali, che ànno fatto come le bestie che non osservano matrimonio, nè parentado, In opprobrio di noi; cioè a confusione del nostro peccato, per noi si legge; cioè si grida, raccomandandoci31 del nostro fallo e leggendolo nel libro de la coscienzia nostra, Quando partianci, il nome di colei; cioè di Pasife mollie del re Minos di Creta, Che; cioè la quale Pasife, s’imbestiò; cioè si fe simile a la bestia, cioè a la vacca de la quale era inamorato32 lo toro, del quale ella era inamorata, ne le imbestiate schegge; cioè ne la vacca fatta da Dedalo di legname e coperta col cuoio di quella vacca, de la quale lo toro era inamorato. E secondo questa fizione pare che vollia riprendere lo peccato contra natura in qualunqua modo fatto, oltra e sensa quello di Soddoma; ma secondo la verità de la fizione, come mostrato è nel canto xii de la prima cantica, questa voce riprende l’adulterio: imperò che, secondo ’l vero, Pasife fu adultera; ma lo nostro autore àe usato qui grande maestria, dando ad intendere ogni illicito atto che può essere nel peccato de la lussuria, oltra quello di Soddoma.
C. XXVI — v. 88-102. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che, poi che messere Guido li ebbe ditto le condizioni de la gente passata e de la presente, e le voci che gridavano a confusione del loro peccato, ora si manifesti a lui per nome, e delli altri si scusi, dicendo così: Or; cioè ora, sai nostri atti; tu, Dante, e di che; cioè di che colpa, fummo rei; cioè peccatori. Se forsi a nome vuoi saper chi semo; cioè ch’io ti dica nomatamente chi noi siamo, Tempo non è da dir; cioè nol pate ora il tempo, e non saprei; io Guido dirtelo. Farotti ben di me volere scemo; cioè sazierò lo tuo volere di me e nomineròti me; e questo finge l’autore per onestà di sè, considerando che ’l peccato de la lussuria, ben che sia di minor colpa, pur è di maggior infamia che li altri; e però non volse nominare più d’uno di quelli che li paresseno degni di quello luogo, et inducelo a nominarsi sè stesso per scusa di sè, dicendo: Son Guido Guinissello33; questi fu uno cavallieri di Fiorensa lo quale fu grande dicitore in rima, anco maestro di tutti li altri che a quil tempo erano; e, come finge l’autore, fu infetto di lussuria, e però induce lui a nominarsi in questo luogo, e già mi purgo; cioè, benchè non sia molto ch’io mori’, io sono già venuto a purgarmi e non sono stato ne la piaggia, nè per la costa molto tempo: imperò che io non indugiai la mia penitenzia all’ultimo; ma di grande tempo inanti a la mia34 morte, Per ben pentirmi; del mio peccato, prima ch’a lo stremo; io venissi, si dè intendere: imperò che se io avessi indugiato all’ultimo la mia penitenzia, io serei ne la piaggia o ne la costa, dove tempo per tempo si ristora. Quali ne la tristizia di Ligurgo; adduce qui l’autore una similitudine sotto una istoria o fizione poetica, secondo che pone Stazio nel libro de la sua Tebaide; quando li sette regi di Grecia andonno ad assediare Tebe, pervenneno in Nemea dove signoreggiava lo re Ligurgo che avea uno suo filliuolo, ch’era chiamato Archemoro minore di sette anni che l’avea allevato Isifile filliuola del re Toante di Lenno, la quale perchè avea campato il padre quando l’altre femine ucciseno tutti li maschi fuggendo per mare, per non esser morta da le suoe fu presa da’ corsali e venduta al ditto re Ligurgo, et aveali allevato quello filliuolo che ditto è di sopra. Et in quil mezzo ch’ell’andò a mostrare la fonte Langia a l’esercito, come fu ditto nel xxii canto, uno serpente uccise Archemoro lassato nel prato a colliere dei fiori, come usansa è de’ fanciulli; unde lo re Ligurgo, udita la morte del fanciullo, andare volea a le prata, per fare morire Isifile che avea male guardato lo filliuolo; et in quil mezzo venneno a la corte sua Toas et Evennio filliuoli di Iasone e de la ditta Isifile, unde s’invionno ad andare col ditto re; et, iunti là, trovato Isifile col fanciullo in collo la quale ella piangeva amaramente e35 cantava nel pianto, come è usanza de le donne, le suoe sciagure, quelli de l’esercito pregonno Ligurgo che non la dovesse uccidere, scusandola; e li ditti suoi filliuoli, udendo nominare Iasone e l’altre cose, ricognosciutala per madre, la corseno ad abbracciare e fennoli grandissima festa; e però l’autore fa la similitudine, dicendo: Quali Si fer; cioè si fenno, duo filli; cioè Toas et Evennio, ne la tristizia di Ligurgo; re di Nemea, ch’era venuto a piangere lo filliuolo et a farne vendetta, al riveder la madre; cioè al ricognoscere Isifile per loro madre; cioè che si fenno molto allegri, Tal mi fec’io; cioè così allegro mi fec’io Dante, quando viddi messere Guido e36 ricognovilo, ma non a tanto insurgo; cioè ma non corro ad abbracciarlo, come corseno Toas et Evennio ad abbracciar la madre: imperò ch’elli era nel fuoco, e però dice che non insurge a tanto; cioè non pillia tanto ardire, ch’elli si mette nel fuoco per abbracciarlo. Quand’io; cioè quand’io Dante, odo nomar sè stesso; cioè nominare sè medesimo, il padre Mio; cioè messere Guido sopra detto lo quale elli chiama padre, perchè da lui ebbe la dottrina del dire in rima vulgare, e delli altri miei millior; cioè non solamente padre mio; ma eziandio delli altri milliori di me, che; cioè li quali, mai usar; cioè usasseno, Rime d’amor dolci e leggiadre; secondo che dice Orazio non vasta esser belle le fizioni dei dicitori; ma convegnano esser dolci: sicchè inducano l’animo del lettore a le passione37 che volliano; et allora sono dolci, quando induceno riso, pianto e simili passioni; leggiadre sono, quando acconciamente e prestamente diceno la sua intenzione conformata co la virtù: imperò che leggiadria è decenzia et attitudine delli atti virtuosi. E senza udir e dir pensoso andai; cioè poscia io Dante, pensando come sì fatto omo si lassò ingannare da la lussuria, così infame et abominevole peccato; e per questo dà ad intendere che ripensò la colpa sua, che commisso avea in sì fatto peccato, Lunga fiata; cioè grande pesso di tempo, rimirando; cioè, allegoricamente, ripensando, lui; che fu sì fatto omo, e cadde in tale vizio e corressesene poi et emendòsene, Nè, per lo foco, in là più m’appressai; cioè bench’io avesse, secondo la lettera, d’abbracciarlo volontà e di farli festa, per lo fuoco non ardiva d’accostarmili; et allegoricamente dimostra lo suo timore, che ebbe d’intrare a fare penitenzia di sì fatto peccato.
C. XXVI — v. 103-114. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come, parlando con messere Guido preditto, contrasse strittissima carità con lui, dicendo: Poi che di riguardar; cioè quelli spiriti, pasciuto fui; cioè io Dante, Tutto m’offersi pronto; cioè apparecchiato, al suo servigio; cioè di messere Guido preditto, Co l’affermar che fa creder altrui; cioè co l’iuramento, che è affermare che fa credere. Et elli a me; cioè messere Guido disse a me Dante: Tu lassi tal vestigio; cioè tale segno d’amore e di carità, in me; cioè in me Guido, Per quel ch’io odo; cioè per lo parlare, ch’io odo da te, e tanto chiaro; cioè e tanto manifesto, Che Lete; che è fiume di dimenticagione, nol può torre; cioè lo ditto segno d’amore nol può torre, cioè non potrà partire da me; cioè che non si potrà dimenticare da me, bench’io abbia a bere dell’acqua del fiume Lete. Fingeno li Poeti che apo l’infernali a le confini dei campi Elisi, dove stanno l’anime felici, sia Lete, del quale bevendo, l’anime dimenticano cioe ch’ànno fatto, veduto e saputo in questa vita; e questo fingeano quelli che teneano che l’anime s’incorporasseno, per dare colore a la loro finzione; cioè che l’anime38 s’incorporavano, non s’arricordavano d’esserci state altra volta, perchè aveano bevuto Lete che è fiume di dimenticagione, sicchè aveano dimenticato ogni cosa e però non s’arricordavano d’esserci state altra volta; ma lo nostro autore acconcia questa fizione a suo proposito, sicchè non sia contra la fede, dicendo che due fiumi escano d’una fonte a la entrata del paradiso delitiarum; che l’uno corre in ver mano ritta, che si chiama Eunoe che fa arricordare l’anima d’ogni bene che à fatto; e l’altro che corre in ver mano sinistra, che si chiama Lete che fa dimenticare ogni peccato e male che l’omo avesse fatto in questa vita; e quello ch’elli intese per questa finzione lo sporremo quando saremo ad essa. Ma ora finge l’autore che messere Guido dica che tale segno di carità39, caente l’autore li à mostrato, non si potea fare dimenticare per lo bere di Lete: imperò che questo è virtù, e però non si può dimenticare, nè far bigio; cioè nè fare oscuro a tempo; cioè non si potea dimenticare in tutto, nè in parte. Ma se le tuo’ parole or ver giuraro; cioè che tengo che abbino iurato lo vero, che mi ti se’ sì offerto, Dimmi; tu, Dante, che è cagion, per che; cioè per la quale, dimostri; tu, Dante, Nel dir; le parole che tu dici, e nel guardar; fiso, come tu mi guardi, d’avermi caro; dimmi che cagion ti muove a ciò? Et io; cioè Dante rispuosi, s’intende, a lui; cioè a messere Guido: Li dolci ditti vostri; sono la cagione, per la quale io v’abbo caro: però che avete ditto propriamente et acconciamente a la materia, Che; cioè li quali ditti, quanto durerà l’uso moderno; cioè del dire in rima; e questo dice, accordandosi con Orazio che dice: Multa renascentur quæ iam cecidere, cadentque Quæ nunc sunt in honore vocabula, si volet usus, Quem penes arbitrium est, et ius, et norma loquendi. — Faranno cari ancora i loro inchiostri; cioè faranno care le suoe scritture e li suoi libri.
C. XXVI — v. 115-127. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come messere Guido li mostrò uno spirito di Francia ch’era stato milliore dicitore a cui dà loda sopra tutti, e danna l’opinione che ebbeno molti di frate Guittone d’Aresso, dicendo così: O frate, disse; messere Guido a Dante, questi ch’io ti cerno; cioè ti mostro, Col dito (et additò; cioè mostrò col dito, un spirto inanzi; cioè inanzi a loro) Fu millior fabbro; cioè millior maestro e componitore: come compone lo fabbro del ferro ogni forma; così de le parole ogni orazione, del parlar materno; cioè del parlare vulgare che insegna la madre al fanciullo, e però lo chiama materno. Elli, s’intende, Soverchiò; cioè avansò, tutti Versi d’amor; cioè sonetti, cansoni, e ballate che trattasseno d’amore, e prose; cioè parlare steso, ch’è differente dal verso: imperò che ’l verso è misurato co le sillabe, la prosa è lunga e stesa orazione, di romanzi40; cioè istorie, ditte forsi così de le romane istorie che si trovano in lingua francesca. e lassa dir li stolti; cioè tu, Dante, Che; cioè li quali, quel41 di Lemosì; questi fu uno dicitore lo quale non nomina se non per la patria, che fu di Lemosì che è una città di Francia, credon ch’avanzi; cioè li altri dicitori. A voce; cioè a la fama, più che al ver drizzan li volti; cioè le loro volontà: lo volto si pone per la volontà: imperò che ’l volto è42 dimirazione de la volontà; a la fama più ch’à la verità dirissano, E così ferman sua opinione; andando di rieto a la fama, e non al vero, Prima ch’altra ragion per lor s’ascolti; opinione è sentenzia dubbiosa e non certa, ingannata dal parere, e43 malagevile si può tollere quando è fermata ne la mente, la quale si ferma inanti che ascoltino l’altre ragione che seranno più vere; et adiunge la similitudine: Così fer; cioè feceno, molti antichi di Guittone44; lo quale fu dicitore, del quale è stato detto nel canto xxiv, che inanti, Di grido in grido; cioè di fama in fama, pur lui; cioè pure a lui, dando pregio; cioè loda a Guittone, Fin che l’à vinto; cioè lo grido e la fama, il ver; che vince sempre il falso, con più persone; cioè approvato per la testimonia di più persone.
C. XXVI — v. 127-135. In questi tre ternari lo nostro autore finge come messere Guido lo pregò ch’elli pregasse per lui quando fusse in paradiso, e sparitte da lui, dicendo: Or; cioè ora ti dico così: se tu; Dante, ài sì ampio privilegio; cioè sì grande autorità: li privilegi sono certezza e prova de le grazie e de le autoritadi concedute da’ signori ai loro minori, e però si può ponere lo privilegio per la grazia; cioè: Se tu ài sì ampia grazia, Che licito ti sia; cioè a te Dante, d’andare al chiostro; cioè a la chiusura lieta de’ beati; cioè in paradiso lo quale è chiusura de’ beati, come lo chiostro è de’ religiosi chiusura consolatoria e refrigeratoria, Nel quale; cioè chiostro, è Cristo abbate del collegio: imperò che come l’abbate è padre e signore dei monaci; così Cristo via maggiormente è padre e signore de’ beati, Falli; tu, Dante, per me; cioè per remissione de le mie peccata, udir; cioè a Cristo, d’un pater nostro; cioè de l’orazione che incomincia: Pater noster, qui es in Cœlis ec. — , Quanto bisogna a noi di questo mondo; cioè del purgatorio, ai quali non è bisogno di dire tutto lo pater nostro: imperò che non possano peccare, e però non è bisogno loro l’ultima preghiera; cioè Et ne nos inducas in tentationem; sed libera nos a malo; ma tutte l’altre sì, e però prega che ne dica per lui tanto quanto a lui bisogna, e però adiunge a prova di quel che ditto è, Dove; cioè nel qual purgatorio, poter peccar non è più nostro; cioè di noi confermati in grazia, sicchè non possiamo peccare. E potrebbesi qui dubitare se l’ultima preghiera è loro bisogno, o no. A che si può rispondere che no, e di sopra fu dichiarato dall’autore nel canto xi, quando disse: Quest’ultima preghiera, Signor caro, Già non si fa per noi, che non bisogna; Ma per color che dietro a noi restaro; unde potrebbeli altri dire: A che si prega per loro? Puòsi rispondere, perchè s’abbrevi lo tempo, e non perchè si manchi la pena la quale non è male, anco è bene per ragione di iustizia. Poi; cioè che ebbe ditto le preditte parole, forsi per dar luogo segondo: imperò ch’elli avea avuto lo primo luogo di parlarmi, altrui; cioè ad altrui, Che; cioè lo quale, presso avea; cioè a sè, acciò che potesse parlare meco, disparve per lo fuoco; sì ch’io nol viddi più, Come per per acqua il pescio andando al fondo; ecco che adduce propria similitudine: l’acqua è trasparente sicchè si vede in essa quil che v’è; e così la fiamma del fuoco è trasparente che si vede in essa quil che v’è; e come lo pescio non si vede per lo profondarsi ne l’acqua, così quell’anima per lo profondarsi ne la fiamma. E per questo dà ad intendere che uscitte de la fantasia sua, perchè s’apparecchiava a dire d’altro.
C. XXVI — v. 136-148. In questi quattro ternari et uno versetto finge l’autore come venne a parlamento con messere Arnaldo di Francia, del quale fece menzione di sopra quando finse che il mostrò messere Guido, dicendo: Io; cioè Dante, mi fei al mostrato: cioè a messere Arnaldo, inanzi un poco: imperò ch’era più inanti quanto al luogo, secondo la lettera; e quanto al trattato, secondo l’allegorico intelletto, E dissi; io Dante al ditto messere Arnaldo, che al suo nome; cioè da esser notato nel mio poema sì, come di notabile e famosa persona, il mio disir; cioè lo mio desiderio, Apparecchiava grazioso loco; cioè laudabile e piacevile: imperò che dovea dire bene di lui, dicendo ch’elli era in grazia di Dio, che era in purgatorio. El; cioè messere Arnaldo, cominciò liberamente a dir; sens’aspettar altro prego: Tan; cioè sì, m’abelhis; cioè mi piace, o mi diletta, vostre cortes deman; cioè vostra cortese dimanda, Qu’ieu m, cioè ch’io me, no puesc; non posso, ni vueilh; cioè nè vollio, a vos cobrir; cioè a voi celarlo; cioè lo nome mio. Ieu; cioè io, sui; cioè sono, Arnautz; cioè Arnaldo45, que; cioè lo quale, plor; cioè piango, e vai cantan; cioè vado cantando, come à ditto l’autore di sopra che li ditti spiriti andavano piangendo e cantando per lo fuoco; et assegna la cagione perchè piange, quando dice: Consiros; cioè considero io, vei la passada falor; cioè lo vecchio passato fallo, nel quale io caddi nel mondo, e però piango io per contrizione del mio peccato, E vei jauzen; cioè vado godendo; e questo è la cagione del canto, le joi: cioè per le gioie e diletti, que sper danan; cioè che speransa mi dona: imperò ch’io sono in speransa d’aver vita eterna, e questa è la cagione per ch’io canto nel fuoco ardendo tanto; è la dolcessa de la speransa. Ancora potrebbe dire lo testo, le ior; cioè per lo giorno ch’io aspetto; e però dice che speransa mi dona; cioè vita eterna u’è sempre di’ et inanti non v’è notte: però che quive sempre risplende lo vero Sole; cioè Iddio, sicchè sempre v’è chiaressa. Ara; cioè ora, us prec; cioè prego voi, per aquella valor; cioè per quello valore; cioè grazia di Dio, Que; cioè lo quale, us guia; cioè voi guida o conduce, al som; cioè al sommo, d’estes; cioè di questa, calina; cioè scala. Souvenha us; cioè che voi vi ricordiate, a temps; cioè quando serà tempo, quando serete inanti a Dio, de ma dolor; cioè del mio dolore, che voi preghiate Iddio che mi spacci di questa mia purgazione per la quale io sento dolori46. Ecco che indutto à l’autore messer Arnaldo a parlare francioso, per mostrare ch’elli fu di Francia, e per mostrare al lettore ch’elli seppe lo francesco. Poi s’ascose; cioè poi che ebbe ditto le ditte parole, messere Arnaldo s’appiattò, nel fuoco; cioè ne la fiamma preditta, che; cioè lo quale fuoco, li affina; imperò che li purga dal peccato de la lussuria; cioè de la sua inquinazione e bruttura, come s’affina l’oro e purgasi nel fuoco de le brutte misture. E qui finisce lo xxvi canto, et incominciasi lo xxvii.
Note
- ↑ C. M. finge come, andando
- ↑ C. M. sensualità significata per Dante la quale
- ↑ C. M. che ’l cielo vi s’incomincia d’accostare per l’abbondanzia
- ↑ C. M. che uscia della ripa
- ↑ Sparere; verbo della terza coniugazione modellato sulla seconda. E.
- ↑ C. M. finto
- ↑ C. M. mutata
- ↑ C. M. dimostrativo
- ↑ Abbeno; terza persona plurale del perfetto, derivata dalla terza singolare abbe, unitovi no; e codesta proviene dall’habuit latino, raddoppiatoci il b acciocchè non si confondesse coll’abe, voce originale del presente. E.
- ↑ C. M. li Caramani,
- ↑ C. M. rubicondi
- ↑ C. M. ne’ rivi;
- ↑ C. M. dalla gente
- ↑ C. M. al lettore
- ↑ C. M. seguitando l’appetito nel peccato
- ↑ Servòno; terza persona plurale del passato venuta dalla terza singolare servò, aggiuntovi il no finale, e che in antico si adoperava con una n sola. E.
- ↑ C. M. abianne
- ↑ C. M. ad farli
- ↑ C. M. voci
- ↑ C. M. ellino mostravano
- ↑ C. M. è fracido; sicchè
- ↑ C. M. voi; che vi siete approssimati in qua, e chi è questa turba; e dimostra la turba che era passata, e però dice, Che; cioè
- ↑ C. M. le suprascritte anime,
- ↑ C. M. sue operazioni:
- ↑ C. M. roco;
- ↑ C. M. sua sentenzia
- ↑ C. M. co l’esposizioni
- ↑ C. M. Ermafrodito
- ↑ C. M. esciva dupplicato
- ↑ C. M. in sul cillieri
- ↑ C. M. raccordandoci
- ↑ C. M. innamorato
- ↑ Guido Guinicelli, natio di Bologna dalla nobilissima casa detta dei Principi, la quale tenevasi a parte d’imperio, fu il massimo tra i poeti volgari prima di Dante. E.
- ↑ C. M. a la mia morte la feci, Per ben dolermi;
- ↑ C. M. contava
- ↑ Ricognovi; passato alla foggia dei Latini. E.
- ↑ C. M. passioni
- ↑ C. M. l’anime che s’incorporavano — il nostro Codice non à il relativo che, tralasciato non raramente dai classici. E.
- ↑ C. M. carità, quale l’autore
- ↑ Romana o romanza dicesi quella lingua che sia informata di romano; e romanzo l’opera distinta da quelle dettate nella lingua delle scritture, che era stata la latina. E.
- ↑ Giraldo Bornello di Limoges o Limosì, rinomato poeta provenzale. E.
- ↑ C. M. è dimostrazione
- ↑ Malagevile; malagevolmente, l’aggettivo in cambio dell’avverbio, ed è guisa ellittica imitata dal latino. E.
- ↑ Guittone, che nato di nobile stirpe in Santa Firmina o Formena, borgo a due miglia da Arezzo, ebbe a padre un Viva di Michele, camarlingo del Comune d’Arezzo, fiorì in sullo scorcio del secolo xiii ed appartenne all’ordine religioso e militare de’ Cavalieri Gaudenti. Morì in Firenze nel 1294, avendo già cominciato la fondazione del Monastero degli Angioli. E.
- ↑ Arnaldo Daniello famoso trovatore. E.
- ↑ Togliamo dal Journal des Savans, Février 1830, la lezione d’Arnaldo tale quale ci venne offerta dal Raynouard. Codesto benemerito letterato per trovare un testo provenzale conforme alla grammatica e lessigrafia di quell’epoca dovette sceglierne le varianti dai Codici della Biblioteca reale di Parigi, da quelli dell’Arsenale, da tutti quelli di Firenze e da’ più riputati di Roma, e siffatta lezione sua concorda con quella della nostra copia dell’Antaldino, eccettuati due luoghi. E.
Tan m’abellis vostre cortes deman,
Cu’ieu non me puesc ni m voil a vos cobrire;
142Ieu sui Arnautz, che plor e vai cantan;
Consiros vei la passada follor,
E vei jauzen lo joi qu’esper denan.x 1
145Aras vos prec, per aquella valor
Que us guida al som sens freich e sens calina,
Sovegna vos atenprar ma dolor.x 2