Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto XXIV
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto ventiquattresimo
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C A N T O X X I V.
1Nè ’l dir l’andar, nè l’andar lui più lento
Facea; ma ragionando andavam forte,
Sì come nave pinta da buon vento.
4E l’ombre, che parean così rimorte,1
Per le fosse delli occhi ammirazione
Traean di me, di mio viver accorte.
7Et io, continuando ’l mio sermone,2
Dissi: Ella sen va su forsi più tarda,
Che non farebbe, per l’altrui cagione;
10Ma dimmi, se tu sai, dov’è Piccarda:
Dimmi s’io veggio da notar persona
Tra questa gente che sì mi riguarda.
13La mia sorella, che tra bella e buona
Non so qual fusse più, triunfa lieta
Ne l’alto Olimpo già di sua corona.
16Sì disse prima, e poi: Qui non si vieta
Di nominar ciascun, da ch’è sì munta
Nostra sembianza via per la dieta.
19Questi (e mostrò col dito) è Bonagiunta,
Bonagiunta da Lucca; e quella faccia
Di là da lui, più che l’altre trapunta,
22Ebbe la santa Chiesa in le suo’ braccia:
D’Altroso fu, e purga per digiuno
L’anguille di Bolsena e la vernaccia.
25Molti altri mi nomò ad uno ad uno;
E del nomar parean tutti contenti,
Sì ch’io però non viddi un atto bruno.
28Viddi per fame a voto usar li denti
Ubaldin de la Pila, e Bonifazio3
Che pasturò col rocco molte genti.
31Vidi messer Marchese, che ebbe spazio
Già di ber a Forlì con men secchessa,4
E sì fu tal, che non si sentì sazio.
34Ma come fa chi guarda, e poi fa pressa56
Più d’un che d’altro, fei a quel da Lucca
Che più parea di me voler contessa.7
37El mormorava; e non so che Gentucca
Sentia io là ov’ei sentian la piaga8
De la giustizia che sì li pilucca.
40O anima, diss’io, che par sì vaga9
Di parlar meco, fa sì ch’io t’intenda,
E te e me col tuo parlar appaga.
43Femina è nata, e non porta ancor benda,10
Cominciò el, che ti farà piacere
La mia città, come ch’uom la riprenda.11
46Tu te n’andrai con questo antivedere;
Se nel mio mormorar prendesti errore,
Dichiareranti ancor le cose vere.
49Ma dì, s’io veggio qui colui che fore
Trasse le rime nove, incominciando:1213
Donne, ch’avete intelletto d’amore.
52Et io a lui: Io mi son un che, quando
Amore spira, noto, et a quel modo14
Che ditta dentro, vo significando.
55O frate, issa vegg’io, disse egli, il nodo15
Che il Notaro, e Guittone, e me ritenne
Di qua dal dolce stil novo ch’io odo.
58Io veggio ben come le vostre penne
Di dietro al dittator sen vanno strette,
Che de le nostre certo non avvenne.
61E qual più oltre a riguardar si mette,16
Non vede più dall’uno all’altro stilo;
E quasi contentato si tacette.
64Come li augei, che vernan lungo ’l Nilo,17
Alcuna volta di lor fanno schiera,18
Poi volan più in fretta e vanno in filo;
67Così tutta la gente che lì era,
Volgendo ’l viso raffretta ’l suo passo,19
E per magrezza e per voler leggiera.
70E come l’om che di trottar è lasso,
Lassa andar li compagni, e si passeggia20
Fin che si sfoga l’affollar del casso;21
73Sì lassò trapassar la santa greggia22
Forese, e dietro meco sen veniva
Dicendo: Quando fie ch’io ti riveggia?
76Non so, rispuos’io lui, quant’io mi viva;23
Ma già non fi’ il tornar mio tanto tosto,24
Ch’io non sia col voler prima a la riva:
79Però che ’l loco, u’ fui a viver posto,
Di giorno in giorno più di ben si spolpa,
Et a trista ruina par disposto.
82Or va, diss’el, che quei che più n’à colpa,
Vegg’io a coda d’una bestia tratto
In ver la valle ove mai non si scolpa.
85La bestia ad ogni passo va più ratto,
Crescendo sempre fin ch’ella ’l percuote,
E lassa ’l corpo vilmente disfatto.
88Non ànno molto a volger quelle rote,
(E drizzò li occhi al Ciel) che a te fi’ chiaro
Ciò che ’l mio dir più dichiarar non puote.
91Tu ti rimane omai, che ’l tempo è caro
In questo regno sì, ch’io perdo troppo,
Venendo teco sì a paro a paro.
94Qual esce alcuna volta di gualoppo25
Lo cavalier di schiera che cavalchi;
E va per farsi onor del primo intoppo;26
97Tal si partì da noi con maggior valchi,
Et io rimasi in via con essi due,
Che fur del mondo sì gran mariscalchi.27
100E quando inanzi a noi sì entrato fue,28
Che li occhi miei si fero a lui seguaci,
Come la mente alle parole sue,
103Parvermi i rami gravidi e vivaci29
D’un altro pomo, e non molto lontani,
Per esser più allora volto in laci.30
106Viddi gente sott’esso alzar le mani,
E gridar non so che verso le fronde,
Quasi bramosi fantolini e vani,
109Che pregano, e ’l pregato non risponde;
Ma per far esser ben la vollia acuta,
Tien alto il lor disio, e nol nasconde.
112Poi si partì sì come ricreduta;
E noi venimmo al grande arbore adesso,
Che tanti preghi e lagrime rifiuta.
115Trapassate oltra senza farvi presso:
Legno è più su che fu morso da Eva,
E questa pianta si levò da esso.
118Sì tra le frasche non so chi ’l diceva;31
Per che Virgilio, Stazio et io stretti32
Oltra andavam dal lato che si leva.
121Ricordivi, un dicea, de’ maladetti33
Ne’ nuvuli formati, che satolli
Teseo combattèr coi doppi petti;
124E de li Ebrei, ch’al ber si mostrar molli;
Per che non volle Gedeon compagni,34
Quando inver Madian discese i colli.
127Sì accostati ad un dei du’ vivagni,35
Passammo udendo colpe de la gola36
Seguite già dai miseri guadagni.
130Poi, rallargati per la strada sola,
Ben mille passi e più ci portammo oltre,37
Contemplando ciascun senza parola.
133Che andate pensando sì voi sol tre?
Subitamente disse; ond’io mi scossi,38
Come fan bestie spaventate e poltre.
136Drizzai la testa per veder chi fossi;39
E già mai non si viddero ’n fornace
Vetri e metalli sì lucenti e rossi,
139Com’io viddi un che dicea: Se a voi piace,
Montate in su: qui si convien dar volta,40
Quinci si va chi vuole andar per pace.
142L’aspetto suo m’avea la vista tolta;
Per ch’io mi volsi dietro ai miei dottori,
Com’om che va segondo ch’elli ascolta.
145E quale annunziatrice delli albori
L’aura di Maggio muovesi, et olezza
Tutta impregnata dall’erbe e da’ fiori;
148Tal mi senti’ un vento dar per mezza
La fronte, e ben senti’ muover la piuma,
Che fe sentir d’ambrosia l’orezza;
151E senti’ dir: Beati cui alluma
Tanto di grazia, che l’amor del gusto
Nel petto lor troppo disir non fuma,41
154Esuriendo sempre quanto è giusto.
- ↑ v. 4. C. A. cose rimorte
- ↑ v. 7. C. A. continuando mio
- ↑ v. 29. C. A. dalla
- ↑ v. 32. C. A. secchezza,
- ↑ v. 34. C. M. e poi s’appressa
- ↑ v. 34. C. A. poi si prezza
- ↑ v. 36. C. A. Che parea di me voler contezza.
- ↑ v. 38. C. A. sentia
- ↑ v. 40. Par; pari. Pon, vien per poni, vieni ec. sono troncamenti non ammessi dai Grammatici; ma usati dagli antichi e nel verso e nella prosa. Meo Abbracciavacca «Uom par di poco affare» E.
- ↑ v. 43. Benda; acconciatura di capo che portava sola la fanciulla o la sposa. E.
- ↑ v.45. C. A. ch’or la riprenda.
- ↑ v. 50. C. A. le nuove rime cominciando:
- ↑ v. 50. C. M. cominciando
- ↑ v. 53. C. A. Amor mi spira noto, e
- ↑ v. 55. Issa; ora, dall’ipsa latino, suppostovi hora. E.
- ↑ v. 61. C. A. più a guardare oltre
- ↑ v. 64. C. A. verso il Nilo,
- ↑ v. 65. C. A. volta in aer fanno
- ↑ v. 68. C. A. raffrettò suo
- ↑ v. 71. C. M. C. A. Lascia
- ↑ v. 72. C. A. sfoghi
- ↑ 73. C. M. C. A. lasciò
- ↑ v. 76. C. A. risposi lui, quanto
- ↑ v. 77. C. A. fia il tornar mio sì tosto,
- ↑ v. 94. C. A. galoppo
- ↑ v. 96. C. M. E fa
- ↑ v. 99. C. M. C. A. maliscalchi.
- ↑ v. 100. C. A. innanzi a noi intrato fue,
- ↑ v. 103. C. A. Parvemi rami
- ↑ v. 105. C. A. pure allora
- ↑ v. 118. C. A. chi diceva;
- ↑ v. 119. C. A. ristetti
- ↑ v. 121. C. A. Ricordivi, dicea,
- ↑ v. 125. C. A. non gli ebbe Gedeon
- ↑ v. 127. C. A. all’un de’ due
- ↑ v. 128. C. A. Passando udimmo
- ↑ v. 131. C. A. ci portaro
- ↑ v. 134. C. A. Subita voce disse;
- ↑ v. 136. Fossi; terza persona singolare dell’imperfetto congiuntivo, dagli antichi terminata in i, affine di pareggiarla a quella del presente: ami. E.
- ↑ v. 140. C. A. Montare
- ↑ v. 153. C. A. Troppo nel petto lor disio
C O M M E N T O
Nè ’l dir l’andar, ec. Questo è xxiv canto de la seconda cantica, nel quale lo nostro autore ancora tratta de’ golosi. E dividesi questo canto in du’ parti principali: imperò che prima finge come elli ebbe ancora parlamento con Forese preditto, che li nominò ancora di quelli che erano quive persone famose e nomate nel mondo; e come ebbe parlamento con Bonaiunta1 da Lucca; e come quella gente, ch’era restata per vederlo, si partitte et andò all’arboro simile a quello ch’era rimaso. E finge come anco avesse parlamento con Forese preditto, e ch’elli predicesse alcuna cosa. Ne la seconda parte finge come Forese2 partitte da lui; e, come partito da lui, pervennono all’arboro; e come uditteno voci ritrattive dal peccato de la gola, dimostrando li suoi mali per esempli; e come all’ultimo trovonno l’angiulo, che lo assolvè3 del peccato de la gola, e confortòlo a montare al settimo cerchio, et incominciasi quive: Qual esce alcuna volta ec. La prima, che serà la prima lezione, si divide in sette parti: imperò che prima finge come continuò lo suo sermone con Forese di quil che ditto avea di sopra, e dimandollo di sua suore e de li altri; ne la seconda finge che Forese li risponda de la sua suore, e manifestali di quelli ch’erano quive, et incominciasi quive: La mia sorella, ec.; ne la tersa finge l’autore come vi ricognove de l’Italiani e nominane alcuni, et incominciasi quive: Viddi per fame ec.; ne la quarta finge come intrò a ragionamento con Bonagiunta da Lucca, et incominciasi quive: O anima, diss’io, ec.; ne la quinta finge come Bonagiunta preditto ricognosce lo suo errore, et incomincia quive: O frate, issa ec.; ne la sesta finge come la gente, che s’era restata per vedere lui4, si univa al suo cammino, et incominciasi quive: Come li augei, ec.; nella settima finge come elli risponde a Forese, e come Forese si parte da lui e prediceli alcune cose che denno venire in Fiorensa, et incominciasi quive: Non so, rispuos’io ec. Divisa ora la lezione, è da vedere lo testo co le esposizione allegoriche e morali.
C. XXIV — v. 1-12. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come, andando con Forese, intrò ancora in ragionamento con lui, dicendo: Nè ’l dir; che facevamo insieme Forese et io Dante, Facea l’andar più lento; cioè benchè noi parlassemo, non lassavamo d'andare, nè l’andar Facea lui; cioè lo dire, più lento: imperò che accortamente parlavamo, e non si impedia lo parlare per l’andare, ma ragionando andavam forte; cioè elli et io, Sì come nave pinta da buon vento; ecco ch’adduce la similitudine, che andavano fortemente come la nave quand’ella è spinta del5 buon vento, così noi ch’eravamo condutti su dal buon volere, guidati de la6 grazia di Dio. E l’ombre, che parean così rimorte; come ditto è di sopra, Per le fosse delli occhi; cioè per li occhi loro, ch’erano cavati a modo che due fosse, ammirazione Traean di me; cioè vedendomi coi loro occhi fitti7, come è ditto di sopra, si meravilliavano ch’io era vivo, di mio viver accorte; cioè avvedute ch’io era vivo. Et io; cioè Dante, continuando ’l mio sermone; lo quale incominciai di sopra, parlando di Stazio, Dissi; a Forese: Ella; cioè l’anima di Stazio, sen va su; cioè in vita eterna, forsi più tarda, Che non farebbe, per l’altrui cagione; cioè per cagione di Virgilio, per trovarsi con lui e star più con lui. Questa fizione fa l’autore, per continuare la fizione che à posto di sopra; cioè che Stazio avesse grande amore a Virgilio, e Virgilio a lui, sì che Virgilio si lamentò che ingiummai lo cammino li parrebbe corto, perchè avea desiderio di stare con Stazio. Ma dimmi; cioè tu, Forese, a me Dante, se tu sai; cioè tu, Forese, dov’è Piccarda; cioè in qual luogo è Piccarda tua suore. Dimmi; ancora tu, Forese, s’io; cioè Dante, veggio da notar persona; cioè persona degna di nota e di fama, Tra questa gente che; cioè la quale, sì mi riguarda; cioè m’avvisa, cioè me Dante.
C. XXIV — v. 13-27. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come Forese preditto rispuose a la sua dimanda, prima de la sua suore, appresso li nomò alquanti di quelli ch’erano con lui, dicendo così: La mia sorella; cioè Piccarda, de la quale tu m’ài addimandato, che; cioè la quale, Non so qual fusse più tra bella e buona; quasi dica: Ella era bella, e come era bella così era buona sì, ch’io non saprei dire in quale avansava o in bellessa o in bontà, triunfa lieta già di sua corona Ne l’alto Olimpo; cioè ne l’alto cielo àe lo suo premio lieta de la sua gloria, come li romani principi aveano per loro premio lo triunfo ordinato per li Romani; cioè l’onore che faceva l’università de la città a chi l’avea meritato. Sì disse prima; cioè Forese, rispondendo a la dimanda della sua suore, e poi; cioè di po’ le ditte parole de la sua suore, adiunse8 questo; cioè: Qui; cioè in questo luogo, non si vieta Di nominar ciascun; cioè permesso c’è di nominare ogni uno: imperò che, benchè l’omo sia stato peccatore, onore li è ch’elli a la fine si sia ricognosciuto, e ch’elli sia de’ salvati, da ch’è; cioè poi che è, sì munta; cioè sì mancata, Nostra sembianza; cioè nostra similitudine, via; questo è avverbio intensivo; cioè molto, per la dieta; cioè per lo pomo che c’è vietato e per lo liquore, sicchè noi stiamo digiuni; quasi dica: Poi che noi siamo in atto di purgare lo nostro peccato per lo digiuno e per la fame che sostegnamo; cioè per la contrizione. E questo dice per quelli del mondo che, quando è stato alcuno grande peccatore, e sia di santa vita, è contento a sua maggiore confusione et umilità che sia noto lo suo peccato: imperò che la penitenzia lo scusa. Questi; e dice l’autore che Forese disse costui, (e mostrò col dito); cioè additollo, è Bonagiunta; et adiunge, per dichiararlo mellio: Bonagiunta da Lucca; questi fu Bonagiunta Orbizano9 da Lucca, lo quale fu goloso e fu dicitore e fu noto de l’autore, sicchè l’uno mandò sonetti all’altro. e quella faccia Di là da lui, più che l’altre trapunta; finge qui l’autore che l’uno fusse più magro che l’altro, secondo ch’avea più peccato ne la gola, e però dimostra ora uno più magro che l’altri; e questi fu papa Martino dal Troso di Francia papa iv che sedette anni 3 mese 1 di’ 27, e fu molto goloso, e tra l’altre golosità n’ebbe una la quale conta nel testo; ch’elli si facea recare l’anguille del lago da Bolsena, che è una città nel Patrimonio, le quali sono le milliori anguille che si mangino: tanto sono grasse e di buono sapore, e faceale mettere e morire nella vernaccia e poi battere e meschiare con cacio et uova e certe altre cose, e facevane fare vivande in più maniere, le quali sono tanto ingrassative che ’l ditto papa continuandole moritte di grassezza; e però dice: Ebbe la santa Chiesa in le suo’ braccia: imperò che fu papa. D’Altroso10 fu; Al troso è una terra in Francia, unde fu papa Martino, e purga per digiuno; lo quale fa ora, L’anguille di Bolsena; cioè del lago di Bolsena, e la vernaccia; imperò che le mangiava morte et affogate ne la vernaccia: vernaccia è vino che nasce ne la riviera di Genova, millior vino che si trovi, e forsi che anco ne bea11 volontieri; unde di lui si dice che dicea, quando tornava a la cambera sua da consistoro: Quanta mala patimur pro Ecclesia sancta Dei, ergo bibamus! — Molti altri; cioè spiriti, mi nomò; cioè Forese, ad uno ad uno; com’elli li vedea, e del nomar parean tutti contenti. Questo finge l’autore per più onestà che Forese li nomasse; ma la verità è ch’elli se li redusse a la memoria e scrisse chi li parve degno più di nota; e finge che fusseno contenti d’esser nomati per scusa di sè; cioè licito m’è di nominarli, poi che sono indutti da me emendati e pentuti de’ loro peccati. Sì ch’io; cioè Dante, però non viddi un atto bruno; cioè uno turbamento; cioè non viddi che di ciò si turbasseno, perchè fusseno nominati.
C. XXIV — v. 28-39. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come venisse a ragionamento con Bonaiunta da Lucca; e come prima cognoscesse alquanti di quelli spiriti, dicendo: Viddi; cioè io Dante, che non me12 mostrò Forese, per fame a voto; cioè in vano; impero che non n’avea nulla in bocca, usar li denti; cioè mastucare sensa avere cibo in bocca; e questo finge, per confermare quello che è ditto di sopra che la fame sia la pena con la quale si purgano li golosi, Ubaldin de la Pila; questi fu uno delli Ubaldini che ebbe nome Ubaldino13, e fu molto goloso e fu denominato de la Pila e fu padre di quello che seguita, e Bonifazio; questi fu filliuolo del suddetto messere Ubaldino, e fu arcivescovo di Ravenna, e fu ancora goloso; e perchè è usansa di quelli arcivescovi di non portare lo pasturale ritorto come fanno li altri; ma diviso di sopra a modo di quello scacco che si chiama rocco, dice, Che; cioè lo quale, pasturò; cioè come pastore resse e governò, col rocco; cioè col pasturale fatto a modo di rocco, che significa l’officio del prelato che dè guardare e governare l’anime a lui commesse, come fa lo pastore le suoe pecore col bastone ritorto: solevano usare li pastori lo bastone torto, per acconciare con esso i piedi de le pecore, et a quella similitudine è fatto lo pastorale: imperò che debbeno li pastori dirissare l’affezione dei sudditi co la loro buona dottrina et esempli; ma quello de l’arcivescovo di Ravenna si fa steso col rocco in capo, molte genti; e questo dice, perchè ebbe molte genti sotto ’l suo arcevescovado, o vero pasturò; cioè pascette molte genti col suo beneficio: imperò che tenea grande famillia e corte; e come era goloso elli, così molti ne pascea ingordamente. Vidi messer Marchese; questo fu messere Marchese da Forlì, lo quale fu molto vago di bere; e però dice, che; cioè lo quale, ebbe spazio Già di ber a Forlì; cioè ne la sua città che si chiamava Forlì, che è in Romagna, con men secchessa; cioè con minore asciugaggine, che non avea ora quando io lo viddi, E sì fu tal, che non si sentì sazio; cioè fu sì fatto bevitore, che mai non fu sensa sete. Ma come fa chi guarda, e poi fa pressa; cioè fa sollicitudine, Più d’un che d’altro; cioè mostra di volere più tosto parlare ad uno, che ad un altro, fei; cioè io Dante, a quel da Lucca; cioè a Bonagiunta, Che; cioè lo quale, più parea di me; cioè Dante, voler contessa; cioè cognoscenzia. El; cioè quello spirito, cioè Bonagiunta, mormorava; cioè tra sè, sì ch’io non lo potea intendere, e non so che Gentucca; contava quello spirito ne la sua mormorazione, dice l’autore: non so che Gentucca; finge l’autore ch’elli nol sapesse intendere, perchè secondo la sua fizione non era anco stato quello ch’elli predicea et annunziava; cioè ch’elli dovea essere confinato di Fiorensa a Lucca, e quive si dovea innamorare d’una gentil donna che sarebbe nominata Gentucca14, e così era avvenuto innanti che l’autore scrivesse questa parte che l’autore, essendo a Lucca non potendo stare in Fiorensa, puose amore ad una gentil donna chiamata madonna Gentucca, che era di Rossimpelo, per la virtù grande et onestà che era in lei, non per altro amore; ma perchè questo non era anco stato quando l’autore finge che avesse questa fantasia, però finge che, quando era nel purgatorio, Bonagiunta li dicesse che questo li dovea avvenire in Lucca; e perchè allora non era anco stato, finge di non intenderlo, come ditto è, Sentia io; cioè Dante, là; cioè in quello luogo, ov’ei; cioè ov’ellino, sentian la piaga; cioè lo duolo e la cagione del dolore che inducea contrizione, sicchè sentiano la piaga e lo dolore, De la giustizia che; cioè la quale, sì li pilucca; cioè si li fa dimagrare, com’è stato ditto di sopra; e per questo dolorare o murmurare, che le ditte anime faceano, io non potea bene intendere quil che dicea Bonagiunta, ricordando15 Gentucca, se non che poi lo dichiarò, come finge l’autore.
C. XXIV — v. 40-54. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come elli intrò a parlare con Bonagiunta da Lucca, dicendo: O anima, diss’io; cioè io Dante dissi a Bonagiunta, che; cioè la quale, par sì vaga Di parlar meco; finge l’autore che Bonagiunta da Lucca avesse mostrato vaghezza di parlare con lui, perchè nel mondo spesse volte li mandò sonetti, fa sì ch’io t’intenda; cioè tu mormori et io anco sento in là inverso l’arboro pianti sì, ch’io non ti posso intendere, fa sì ch’io t’intenda, E te e me col tuo parlar appaga; cioè contenta lo tuo desiderio e lo mio. Femina è nata; dice Bonagiunta a Dante che in Lucca era nata una femina, de la quale elli s’inamorerebbe, e però dice: e non porta ancor benda; cioè per ch’è anco giovanetta non porta benda, Cominciò el; cioè Bonagiunta le parole ditte di sopra, che; cioè la qual femina, ti farà piacere La mia città; cioè Lucca, come ch’uom; cioè benchè uomo, la riprenda. Questo dice: imperò che li Lucchesi sono ripresi di loro costumi e del loro parlare, unde sono ditti boiutuli16: imperò che parlano dando accento all’ultime sillabe che non si dè, tirandole a le precedenti e facendo sincope, dovendo dire bonaiuto diceno boiuto; e per questo credo che siano ditti boiutuli, perchè usano molto li diminutivi sì, come tucculo e bontuccolo17, e così boiuto diminuisceno e diceno boiuntolo, e però estimo essere ditti boiutoli. E finge l’autore che Bonaiunta18 predìca lo suo inamoramento de la giovana ditta di sopra, de la quale s’inamorò Dante, poi che finge che avesse la fantasia19 di visitare lo inferno, lo purgatorio e lo paradiso e che li fusse mostrato: imperò che questo tempo, secondo che finge, nel 1300, passato ch’elli avea lo 35° anno20 de la sua età; e questo inamoramento, fu poi, secondo che ora finge che Bonaiunta liel annunziò, inanti che fusse; e però dice: Tu te n’andrai; cioè tu, Dante, te n’andrai e tornerai al mondo, con questo antivedere; cioè con questo annunzio, ch’io t’ò fatto ora del tuo inamoramento e questo è quello ch’io mormorava diansi colà, Se nel mio mormorar; ch’io feci dinansi, prendesti errore; tu, Dante, Dichiareranti ancor; di quil ch’io t’annunzio, le cose vere; cioè li effetti che seranno veri. Ma dì; tu, Dante, s’io; cioè se io Bonaiunta, veggio qui; cioè in questo luogo, colui che fore; cioè fuori, in pubblico, Trasse le rime nove; cioè di certe cansoni morali, le quali Dante avea fatto et era stato trovatore di sì fatta rima; ma Bonaiunta credea che fusse stato altri, incominciando; cioè quelle cansoni: Donne, ch’avete intelletto d’amore, Io vo’ con voi de la mia donna dire, Non per ch’io creda sua lode finire ec. Questa è una cansone, che già Dante con molte altre avea fatto, inanti che s’inamorasse a Lucca de la donna ditta di sopra. E come appare a chi legge quelle cansoni con intelletto, tutte dimostrano l’amore che Dante ebbe alla santa Teologia, la quale elli chiama Beatrice, de la quale s’inamorò infine ne la sua puerizia, come apparrà di sotto nel processo, e similmente de le virtù cardinali e teologiche, sicchè ben si conviene loro lo nome di cansoni morali, e non è nessuna che faccia menzione de lo suo inamoramento di quella da Lucca; ma in questo luogo n’à fatta menzione, per fare chiaro ogni uno, che leggerà lo suo libro, che ’l suo amore fu onesto considerando che quelle cansoni funno fatte inanti che s’innamorasse di quella da Lucca; e lo innamorare di quella da Lucca fu per li suoi belli costumi e per la sua virtù, la quale piaceva a lui siccome all’omo virtuoso. Seguita, rispondendo a la dimanda: Et io; cioè Dante rispuosi, s’intende, a lui; cioè a Bonaiunta: Io; cioè Dante, mi son un che, quando Amore; cioè de la virtù, spira; ne la mia mente, noto; la sua spirazione, et a quel modo Che ditta; cioè l’amore, dentro; cioè ne la mente, vo; cioè vado, significando; cioè dimostrando co le parole; e questo dice, secondo che il Filosofo dice; cioè: Voces sunt earum, quæ sunt in anima, passionum notæ; sicchè onestamente dimostra ch’elli era colui, ch’avea trovate le nuove rime.
C. XXIV — v. 55-63. In questi tre ternari lo nostro autore finge come Bonaiunta, avuta la risposta da Dante, manifesta la cagione per la quale elli non potette intrare, nè anco altri dicitori nel nuovo stilio21 di Dante, lo quale non avea anco veduta; ma ora la comprese da le parole de l’autore, dicendo: O frate; ecco segno di carità, che Bonaiunta chiama Dante, frate, issa; cioè avale, et è vocabulo lucchese, vegg’io, disse egli il nodo; cioè io Bonaiunta veggio la cagione, che ritenne me e li altri dicitori che non venimmo al tuo dolce stilo: imperò che come lo nodo è impossibile che si passi quando è grosso, e l’anello è tanto stretto che non vi può passare; così fu impossibile a quelli tre di passare quella durezza ne la quale erano del dire e passare a la dolcessa; e però dice: Che; cioè lo quale nodo, il Notaro; cioè notaro Iacopo da Alentino, e Guittone; cioè frate Guittone d’Arezzo, che funno dicitori in rima, e me; cioè Bonaiunta da Lucca de li Orbissani, ritenne Di qua dal dolce stil novo ch’io odo; cioè da te, Dante, a lo quale non potè niuno passare. Io; cioè Bonaiunta, veggio ben come le vostre penne; cioè lo vostro scrivere e dire, Di dietro al dittator sen vanno strette; cioè seguitano strettamente i movimenti naturali de la mente dentro, come dice Orazio ne la sua Poetria: Format enim natura prius nos intus ad omnem Fortunarum habitum, iuvat aut impellit ad iram, Aut ad humum mœrore gravi deducit et angit: Post effert animi motus, interprete lingua. — Che; cioè la qual cosa, cioè che lo scrivere rispondesse ai movimenti dell’animo, de le nostre; cioè penne, cioè del nostro scrivere e del nostro dire, certo non avvenne; cioè che andasseno strette di rieto al dittatore. E qual più oltre a riguardar si mette; cioè lo tuo dire e lo nostro, Non vede più dall’uno all’altro stilo; cioè non vede più di differenzia dal tuo modo del dire al nostro, che quel che ditto è; che tu vai stretto al movimento dell’animo, e noi larghi, E quasi contentato si tacette; cioè Bonaiunta preditto.
C. XXIV — v. 64-75. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come quella gente, che s’era retta per vederlo, si partì, ditte le parole che sono scritte di sopra, con Bonaiunta; e però dice, facendo una similitudine: Come li augei; cioè li uccelli, che vernan; cioè li quali fanno lo verno, et abitano lo verno, lungo ’l Nilo; questo è uno fiume che è in Egitto, che entra per sette foci in mare, e non si sa dove sia lo suo nascimento et imbagna l’Egitto sì, che basta a la terra a producere li suoi frutti; al quale fingeno li autori che le gruve facciano lo verno loro abitazione, e partenosi da le parli fredde e vanno a le calde, e quando vanno, fanno schiera in varie forme in aire volando, e però dice: Alcuna volta di lor fanno schiera; cioè quando aspettano l’uno l’altro per l’andare più insieme, Poi; cioè che sono raunati insieme, volan più in fretta; che non arebbeno fatto, per ristorare lo stallo, e vanno in filo; come si vede in aire spesse volte, Così tutta la gente; ecco che adatta la similitudine; che così fece quella gente come le gruve, che lì; cioè la quale in quil luogo, era; cioè stata meco, Volgendo ’l viso; cioè in verso man ritta, come andavano prima, raffretta ’l suo passo: per ristorare lo stallo ch’aveano fatto, E per magrezza e per voler leggiera: due cose assegna de la leggeressa cagioni; cioè la magressa e la volontà di fare la loro penitenzia. Et ora induce un’altra similitudine, cioè: E come l’om che; cioè lo quale, di trottar è lasso; cioè è stanco, Lassa andar li compagni; oltra inanti, e si passeggia; cioè va a spasso, Fin che si sfoga l’affollar; cioè lo battere e l’ansiare del polmone, del casso; cioè del luogo voito del corpo umano dove sono le intestina, lo quale si chiama casso; cioè lo luogo voito, a differenzia de la coscia e de la natica, che è tutta piena, Sì; ecco che adatta la similitudine; cioè per sì fatto modo, lassò trapassar la santa greggia; cioè la santa congregazione di quelle anime che si possano dire sante, perchè sono in grazia, Forese; del quale è stato ditto di sopra, e dietro; a tutti, meco; cioè con me Dante, sen veniva Dicendo: Quando fie ch’io; cioè Forese, ti riveggia; cioè te Dante in questo luogo tornato, o in paradiso; cioè di po’ la morte corporale?
C. XXIV — v. 70-93. In questi sei ternari lo nostro autore finge come rispuose a la dimanda di Forese; e come Forese, indutto per quella risposta, li predice lo fine di messere Corso Donati suo fratello; e finge poi come si partì da lui, dicendo così: Non so, rispuos’io; cioè Dante, lui; cioè a lui, a Forese, quant’io; cioè Dante, mi viva; cioè di là nel mondo, Ma già non fi’ il tornar mio; cioè di me Dante, tanto tosto; cioè sì tosto, Ch’io; cioè che io Dante, Non sia col voler; cioè co la volontà e col desiderio, prima a la riva; cioè a la riva dell’isula del purgatorio, dove finse di sopra che22 si posasseno l’anime che veniano per mare guidate dell’angiulo; et ecco che assegna la cagione: Però che ’l loco; cioè Fiorensa, u’; cioè nel quale, fui a viver posto; cioè da la natura, che mi fece nascere quive, Di giorno in giorno più di ben si spolpa; cioè si priva: spolpare è levare la polpa, e però si pillia spolpare per23 privare, Et a trista ruina; qui l’adiettivo è soperchio: imperò che ogni ruina è trista, par disposto; questo dice l’autore di Fiorensa, che li pare disposta a ruina. Or va; tu, Dante, diss’el; cioè Forese, che quei; cioè che colui, che; cioè lo quale, più n’à colpa; cioè de la ruina, a che dici tu che è apparecchiata Fiorensa, Vegg’io; cioè Forese, a coda d’una bestia tratto; cioè stracinato24 a coda d’una bestia, In ver la valle; cioè de lo inferno, ove; cioè ne la quale valle, mai non si scolpa: imperò che ne lo inferno non è remissione alcuna. Qui finge Dante che Forese li predicesse la morte25 di messer Corso Donati suo fratello, lo quale a furore di populo fu stracinato a coda di una bestia; ma questa fizione arreca ad allegoria, dicendo che questa bestia quanto più va, più cresce lo suo andare infine a tanto che lo lassa morto vilmente. E per questa bestia possiamo intendere lo dimonio, lo quale lo conducerà di passo in passo più ratto in sua dannazione e disfazione corporale, in quanto morrà vitoperosamente; e spirituale in quanto lo conducerà ne lo inferno di po’ l’uno peccato, più ratto che di po’ l’altro: imperò che quando s’incomincia a peccare, l’uno viene di po’ l’altro più strabucchevilmente. E finge l’autore che Forese liel abbia ditto, perchè, poi che l’autore finge che avesse questa fantasia, questo avvenne a messer Corso Donati inanti che scrivesse questa parte; e però continua: La bestia; cioè lo dimonio che ’l guida, ad ogni passo; cioè ad ogni trapassamento di iustizia che li fa fare, va più ratto; cioè che più tosto poi lo fa trabuccare nelli altri peccati, Crescendo sempre: così è veramente; che chi incomincia a mal fare, di vizio in vizio corre più la seconda volta, che la prima: imperò che quanto l’omo più pecca, più si dilunga da Dio e da la sua grazia; e quanto più si dilunga, più indebilisce e più è labile ne’ vizi e ne’ peccati, fin ch’ella ’l percuote; cioè a lo scollio de la morte, facendolo morire ostinato, E lassa ’l corpo; cioè di messer Corso la ditta bestia; cioè lo dimonio, vilmente disfatto. Quanto a la lettera vilmente rimase disfatto, se rimase dilacerato per lo stracinamento, o appiccato come si solliano appiccare; et allegoricamente l’anima lassò lo corpo vilmente disfatto, in quanto vilmente si partì da lui et andonne a lo inferno col suo dimonio che l’avea guidata. Et ora li predice lo tempo, dicendo: Non ànno molto a volger quelle rote; cioè dei cieli; e però dice: (E drizzò; cioè Forese, li occhi al Ciel; dimostrando colli occhi inalsati in su li cieli, li quali continuamente si girano) li quali sono nove, come di sopra è stato ditto; cioè vii cerchi di sette pianeti e l’ottavo de le stelle fisse dov’è lo zodiaco, e lo nono che è lo primo mobile. E queste revoluzioui sono quelle che dimostrano lo tempo: imperò che tempo non è altro che lo spazio, nel quale queste revoluzioni si fanno; e questo spazio produce Iddio dal suo essere eterno. che a te; cioè che a te Dante, fi’ chiaro Ciò che ’l mio dir più dichiarar non puote; dice Forese che tosto serà quello che elli non può dichiarare, sicchè Dante lo vederà chiaramente. E questo finge Dante che Forese non dica più, perchè di questi fatti per sè non era ancora più veduto quando scrisse questa parte. Ora s’accommiata Forese da Dante, dicendo: Tu; cioè Dante, ti rimane omai; cioè ingiummai, ch’io non posso stare più teco; et assegna la cagione: Che ’l tempo è caro In questo regno: nessuna cosa è più cara che ’l tempo a quelli che sono in purgatorio, o instato di penitenzia: imperò che quanto più tosto si compie la penitenzia, tanto più tosto si va a godere, sì, ch’io; cioè Forese, perdo troppo; cioè tempo, Venendo teco; cioè con te Dante, sì a paro a paro; cioè sì a pogo a pogo. Questa è fizione poetica per confirmazione de la lettera; e qui finisce la prima lezione del canto xxiv, et incomincia la seconda.
Qual esce alcuna volta ec.; Questa è la seconda lezione del xxiv canto, ne la quale l’autore finge come Forese si partì da lui et andò oltra al suo cammino; e come venneno a l’altro arboro; e come uditte voci dissuasorie del peccato de la gola; e, come passati oltra, l’angiulo l’inviò a montare al settimo girone et ultimo. E dividesi questa lezione in quattro parti: imperò che prima finge come Forese si partì da lui et andò a l’altro arboro che era per lo modo che ’l primo ne la via, e non si lassava adiungere ai suoi pomi da la gente che passava; ne la seconda finge come elli e la sua compagnia iunseno all’arboro et uditteno certe voci, et incominciasi quive: Poi si partì ec.; ne la tersa finge come apparve loro l’angiulo e dimostra loro lo cammino, et incorniciasi quive: Poi, rallargati ec.; ne la quarta finge descrivendo come era fatto quello angiulo, e come lo liberò et assolveo dal peccato de la gola, et incomincia quive: L’aspetto suo ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere l’esposizione litterale, allegorica, o vero morale.
C. XXIV — v. 94-111. In questi sei ternari lo nostro autore finge come Forese si partì da lui; e come, ragguardandosi in anti, di rieto a Forese vidde un altro arbaro fatto, come quello ch’avea trovato prima; e come l’anime vi stavano sotto e pregavano l’arboro che desse loro dei suoi pomi; ma l’alboro si inalsava sì, che aiunger non vi poteano, dicendo così: Qual esce alcuna volta di gualoppo Lo cavalier di schiera che; cioè la quale schiera, cavalchi; cioè vada a qualche meschia; ecco che fa una similitudine che, come quando la schiera, cavalca; ad alcuno stormo alcuna volta, alcuno cavalieri desideroso d’onore esce de la schiera e va gualoppando lo cavallo, per iungere innanti alli altri per farsi onore; e però dice: E va per farsi onor del primo intoppo; cioè del primo incontro coi nimici, Tal si partì da noi; cioè Forese da me Dante, e da le mie guide, con maggior valchi; cioè con maggiori passi che non andavamo noi; e così adatta la similitudine posta di sopra del cavallieri, che esce gualoppando di schiera, a Forese che escì da me e da la mia guida con maggior passi, andò inanti. Et io; cioè Dante, rimasi in via con essi due; cioè con quelli due, cioè Virgilio e Stazio, Che fur del mondo sì gran mariscalchi; cioè sì grandi governatori del mondo, dimostrando ne li loro poemati li costumi del mondo: mariscalco26 è governatore ne le corte e de l’esercito sotto lo imperadore, e dè essere persona esperta de le cose da fare, sicchè sappia comandare quello che si dè fare, come seppeno quelli du’ poeti quello che si convenia fare nel mondo a vivere moralmente e civilmente. E quando inanzi a noi; cioè a me Dante et a Virgilio e Stazio, sì entrato fue; cioè per sì fatto modo, Che li occhi miei; cioè di me Dante, si fero; cioè si feceno, a lui seguaci; cioè a Forese, Come la mente; cioè mia s’era fatta seguace, alle parole sue; cioè di Forese, le quali m’avea ditte di sopra; cioè che come io seguiva co la mente le parole dittemi di sopra da lui, così seguitava colli occhi lui; e le parole di Forese erano state tra l’altre de l’arbore che si dovea trovare più suso, Parvermi; cioè a me Dante, i rami gravidi; cioè pieni di pomi, e vivaci; cioè per la verzura de le frondi, D’un altro pomo; cioè d’un altro arbaro che portava pomi come lo primo, che fu trovato da loro e passato, e non molto lontani; cioè non molto di lungi mi parveno allora quelli rami, Per esser più allora volto in laci; cioè perchè più avavamo27 volto del monte che prima, sì che più presso ci venia l’arbore: imperò che più avavamo girato del monte che non avavamo girato inanti. Viddi gente; cioè io Dante viddi molta gente star di sotto al ditto arbore; e però dice: sott’esso; cioè sotto lo ditto arbore, alzar le mani; cioè per pilliare di quelli pomi, in che si dimostra l’affezione de la salute: imperò che le mane28 significano l’opere, le quali ciascuno che è in stato di penitenzia inalsa, per venire ad effetto del desiderato fine, E gridar non so che; cioè parole che esprimevano lo loro desiderio; ma l’autore finge di non saperlo, perchè non era anco elli venuto a quella perfezione, verso le fronde: le frondi significano l’opere virtuose, che nasceno de la notizia del bene e del male, che dimostrano la vivacità dell’arbaro, che dà lo suo frutto; e sono le frondi ne l’arbore ad adornamento et a segno della sua vivacità, et ad aiuto a recare lo frutto a la sua perfezione; e così l’opere virtuose attive, le quali si fanno per coloro che sono in stato di penitenzia nel mondo, secondo che ànno imparato e compreso ne la notizia del bene e del male, sono segno che tale notizia nell’anima è viva, e produceno lo frutto a sua maturità e perfezione; cioè difendendolo che non sia corrotto da le cose nocive; cioè dai vizi e dai peccati, et adornano tale scienzia; cioè adornano e dimostrano tale omo scientifico e saputo; e finge l’autore che quelli del purgatorio gridasseno in verso le frondi; cioè ch’elli non erano stati attivi virtuosi, quanto si convenia ad avere lo pomo maturo; cioè ad avere la sua felicità perfetta ancora, e di ciò si doleano. Ma perchè l’autore non era anco venuto a quella perfezione, però finge che non sapesse quello che diceano: imperò che, benchè fusse ne lo stato de la penitenzia, non avea anco le virtù purgatorie tutte, e massimamente del peccato de la gola, del quale non era anco assoluto, come appare nel testo. Quasi bramosi fantolini; cioè fanciulli picculini che sono desiderosi e bramosi d’avere la ceragia e ’l fico, quando l’omo dimostra loro, o per sè la vedeno pendere dai rami dell’albaro; e cosi fa l’autore qui propria similitudine, dimostrando che così faceano quelle anime, e vani; cioè voiti di cognoscimento, Che; cioè li quali fanciulli, pregano; cioè l’arbaro che lassi cadere lo suo pomo, e ’l pregato; cioè l’arbaro, non risponde; cioè non fa quello che dimandano e per ciò appaiano vani che dimandano quello che non dè avere effetto; e così quelle anime dimandano a le fronde quello che non dovea anco avere effetto, e questo dimando era secondo lo desiderio naturale; ma non secondo lo talento, del qual fu ditto di sopra, Ma per far esser ben la vollia acuta; cioè lo desiderio bene ardente, Tien alto il lor disio; cioè tiene alta la cosa desiderata, sicchè nolla possano avere, e nol nasconde; cioè noll’appiatta: imperò che tutta via lo vedemo: continuamente l’anima umana vede lo Sommo Bene, e desideralo naturalmente.
C. XXIV — v. 112-129. In questi sei ternari lo nostro autore finge come, partita quella gente dal ditto arbore, elli e la sua compagnia andò ad esso; e finge che quive udisseno diverse voci, dicendo così: Poi; cioè che quella gente ebbe alsato le mani in verso le frondi dell’arbore, e ditto le loro preghiere, si partì; la ditta gente, sì come ricreduta; cioè si come fatta certa che ’l pomo non dovea anco avere, E noi; cioè Virgilio, Stazio et io Dante, venimmo al grande arbore: bene è grande veramente l’arbore de la notizia del bene e del male, adesso29; cioè immantenente, Che; cioè lo quale arbore, tanti preghi e lagrime rifiuta; cioè non esaudisce quanti li sono fatti per quella gente; la quale parola, benchè sia nota per la esposizione allegorica ditta di sopra, anco si può sponere questo ditto moralmente per la scenzia del bene e del male, lo quale ogni uno desidera e prega e lagrima e piange per averla, et a poghi avviene d’averla se non sono già virtuosi, ai quali ella si dà volentieri: imperò che la scenzia è dono di Dio, siccome dimostra l’autore nostro in una sua cansone morale che incomincia: Tre donne intorno al cor ec., quando dice ne la fine: Cansona, ai panni tuoi non pogna om mano, per veder ciò che bella donna chiude: bastin le parti unde lo dolce pomo a tutta gente nega, per cui ciascun man piega ec. Et adiunge l’autore che parole fusse loro ditto di su l’arbaro; cioè: Trapassate oltra; diceva la voce a Dante et a le suoe guide, senza farvi presso; cioè a questo arbore: imperò che non è ancora tempo che doviate avere li du’ di questo pomo; nè ’l terso, cioè Virgilio, mai. Legno; cioè uno arbaro, è più su; cioè nel paradiso delitiarum, che è più su che questi du’ balsi, che fu morso da Eva; cioè fu mangiato da la nostra prima madre contra ’l comandamento di Dio, lo quale si chiama lo legno30 de la scienzia del bene e del male, E questa pianta si levò da esso; ecco che l’autore finge che la voce dica questo, per fare verisimile la sua fizione; che li arbori che finge essere in questo giro siano di quella schiatta: imperò che da quello nacque lo peccato de la gola propriamente, e tutti li altri consequentemente. Sì; cioè sì fatto parlare, tra le frasche; cioè del detto arbore, non so chi ’l diceva; cioè pur diceva le parole ditte di sopra una voce che era tra le fronde del ditto arbaro; ma non so che voce si fusse, Per che; cioè per la qual cosa, Virgilio, Stazio et io; cioè Dante, stretti; inverso la sponda del girone, scostati dall’arbaro, Oltre andavam; al nostro cammino, dal lato che si leva; cioè del lato che taceva lo ditto arbaro; cioè dal lato dove non era la voce. Ricordivi31, un dicea, de’ maladetti; et andando oltra finge che udisse una voce che diceva esempli dissuasori del peccato de la gola, e però dice: Uno dicea: Ricordivi de’ maladetti Ne’ nuvuli formati; cioè dei Centauri li quali nacquero di Issione re de’ Lapiti e de la Nuvula, quando elli, che era camerario di Giunone, richiese Giunone d’amore et ella li apparecchiò la Nuvula in sua specie, e di quella Nube generò li Centauri, li quali funo ditti mezzi omini e mezzi cavalli. E questa fizione inteseno li Poeti in questo modo; cioè che Issione volse coniungersi con Giunone; cioè col regno: chè Giunone è ditta dia dei regni e de le ricchesse, ella li apparecchiò la nube; cioè li beni temporali che sono nube che appaiano quil che non sono, e di quelli generò li Centauri, cioè cento cavalieri, li quali andavano a cavallo discorrendo le parti vicine e vincendole e subiugandole ad Issione; e perchè erano grudeli omini, funno ditti mezzi omini e mezzi cavalli, et anco perchè funno li primi che fusseno veduti a cavallo da lunga, veduti dare32 bere ai cavalli nel fiume funno veduti li omini da la cintola insù e la parte del cavallo da la sella a la groppa: imperò che ’l collo e ’l capo del cavallo stava chinato giù nell’acqua a bere e non si vedea, però parveno mezzi cavalli e mezzi omini. Solevasi inanti andare a le battallie in su li carri, e però questi spaventonno tutta la Grecia per li assallimenti presti e per le fugghe che faceano prestamente, come ditto è nel xii canto de la prima cantica, che satolli; cioè li quali saziati ne le nozze di Piritoo, loro fratello dal lato di padre, et inebriati volseno sforsare e rapire la sposa, cioè la donna di Piritoo; ma Teseo et Ercule che v’erano insieme coi Lapiti, li ucciseno e caccionnoli via, come appare ne la prima cantica nel xii canto; e però dice: Teseo; cioè lo compagno di Piritoo, combattèr; cioè combatterono Teseo che era ne le nozze; altro testo dice: Testeso; cioè incontenente, come funno satolli, combatterono, coi doppi petti; cioè coi loro petti ch’erano doppi d’omini e di cavalli; e questo testo credo che sia più vero, a dimostrar la colpa de la gola e li mali che ne seguitano: imperò che prima che fusseno satolli et inebriati non fenno male; ma poi immantenente, come funno ebri e satolli, volseno fare violenzia a la sposa e combatterono, come dice Ovidio, Met. libro xii; pilli lo lettore qual più li piace. E de li Ebrei; dicea la voce che biasmava la colpa de la gola che s’arricordasseno ancora delli Ebrei, ch’al ber si mostrar molli; cioè golosi nel loro bere, Per che; cioè per la qual cosa, non volle; cioè nolli volse; cioè Gedeon; loro iudici e capitano, compagni; cioè a combattere con li re di Madian; e però dice: Quando inver Madian; cioè in verso quella contrada che si chiamava Madian, discese i colli; cioè discese dei monti, in su li quali era, ne la pianura a combattere co li re di Madian. Leggesi ne la Bibbia nel cap. vii de’ Iudici che Gedeone, essendo iudice e reggitore del populo di Dio, avendo guerra con quelli di Madian che erano vicini, ebbe comandamento da Dio che andasse a combattere con loro, e non menasse seco tutto lo populo; ma solamente coloro che volesseno andare di loro volontà, e rimaseno forsi mille. Et anco disse Iddio a Gedeon che di quelli avvisasse quelli che bevesseno al fiume, come bestie co la bocca nel fiume, lassasse; e quelli che bevesseno co la mano menasse seco, li quali rimaseno 300; e con questi con fiaccule e con lumi discese di su li colli dei monti et assalitte di notte l’esercito de’ nimici ch’erano accampati nel piano, e sconfitteli che erano parecchie milliaia co la grazia di Dio, et uccise due re di Madian; cioè Gebes. Sì accostati ad un dei du’ vivagni; cioè dei du’ canti, o vero estremitadi: vivagni si chiamano li canti de la tela, e però qui l’autore li pone per l’estremità del girone: imperò che di verso la grotta del monte era l’arbaro, et elli co le suoe guide andava del canto di fuore che non à riparo, Passammo; cioè Virgilio, Stazio et io Dante, udendo colpe de la gola; cioè molti altri esempli, che quelli che funno ditti di sopra, biasmanti lo peccato de la gola, Seguite già dai miseri guadagni. Questa è moralità: chè li mali guadagni sono cagione spesse volte de la colpa de la gola, e la colpa de la gola è cagione di fare fare l’illiciti e vituperosi guadagni, come appare ne le meretrici, che per la gola si danno a tanta miseria.
C. XXIV — v. 130-141. In questi quattro ternari finge lo nostro autore come andando pervenneno a luogo da sallire al vii girone; e come fu loro mostrato de l’angiulo, dicendo così: Poi; cioè che noi udimmo li preditti biasmi del peccato de la gola, rallargati; cioè in verso la grotta, non andando inverso l’estremo come prima, perchè avavamo passato l’arbore, per la strada sola: imperò che la gente era ita e passata oltra; e questo finge, perchè nolli occorrea di far menzione più d’alcuna persona, Ben mille passi; questo serebbe uno mezzo millio, contando l’uno passo e l’altro: imperò che du’ sì fatti passi sono una pertica, e mille pertiche sono uno millio, e più; cioè di mille passi, ci portammo oltre; cioè più là che ’l ditto arbore, Contemplando; sopra le cose vedute et udite da noi, ciascun; di noi tre, senza parola; cioè sensa parlare. Che andate pensando sì voi sol tre; ecco che finge che una voce dicesse a loro: Che andate sì pensando soli voi tre? Subitamente disse; cioè la voce, ond’io mi scossi; cioè io Dante mi scosse per la voce subitamente udita: la sensualità è quella che teme le cose che non si debeno temere, che la ragione, nè lo intelletto non teme, e però finge ch’elli tremasse, Come fan bestie spaventate e poltre; ecco che fa la similitudine e dimostra due esser le cagione, perchè scuoteno le bestie; cioè o per spaventato33 che abbiano, o quando esceno de la stalla per esser stato troppo in agio si scuoteno, per rinvigorirsi e scacciare la poltronia dei nervi e dei sentimenti. Drizzai; io Dante, la testa per veder chi fossi; cioè quelli che parlasse, E già mai non si viddero ’n fornace Vetri e metalli sì lucenti e rossi; come era colui, ch’io viddi che avea parlato; e però dice: Com’io viddi un; cioè come io Dante viddi uno angiulo, s’intende, rosso e lucente, che; cioè lo quale angiulo, dicea: Se a voi piace; questo finge, perchè il ben fare dè essere da la propria volontà, benchè l’angiulo col mette inanti, Montate in su; cioè se vi piace e volete montare su, qui; cioè in questo luogo, si convien dar volta; a la scala del vii girone, Quinci; cioè per questa scala, si va; suso, chi; cioè da colui lo quale, vuole andar per pace; cioè per aver pace eterna.
C. XXIV — v. 142-154. In questi quattro ternari et uno versetto lo nostro autore finge come era fatto l’angiulo che apparve; e come li levò la colpa de la gola, defigurata ne la fronte; e come uditte commendare la sobrietà, dicendo: L’aspetto suo; cioè dell’angiulo ditto di sopra, m’avea la vista tolta; cioè avea col suo splendore abballiatomi sì, ch’io non potea veder lume, come farebbe lo Sole a chi ragguardasse in esso, Per ch’io; cioè per la qual cosa io Dante, mi volsi; cioè volsi me, dietro ai miei dottori; cioè mi volsi a seguitare et andare dirieto ai miei dottori, Com’om; cioè come omo, che va segondo ch’elli ascolta; cioè va al suono de le pedate, non perch’elli vegga, come fanno li ciechi. E quale annunziatrice delli albori; ecco che adduce una similitudine che, come di Maggio la mattina in su l’aurora si leva uno venticello delicato, che è segno de l’albòre che apparisce, L’aura di Maggio; cioè lo venticello di Maggio, muovesi; cioè venteggia delicatamente, et olezza; cioè rende ulimento, Tutta impregnata dall’erbe e da’ fiori; cioè piena dell’ulimento dell’erbe e dei fiori, Tal mi senti’ un vento; cioè così fatto vento, cioè ulimoso come quello che ditto è, Dar per mezza La fronte; dove erano li P segnatimi ne la fronte, e ben senti’ muover la piuma; cioè le penne de l’angiulo, Che; cioè la quale piuma, fe sentir d’ambrosia l’orezza; cioè fece sentire lo venticello de lo odore de l’ambrosia, che fingeno li Poeti che sia erba che mangiano li cavalli del Sole et anco li Dii, e diceno che rende ulimento di divinità, e così ulimitte quil vento mosso de l’ala de l’angiulo, E senti’ dir: Beati; cioè dell’anime del purgatorio che congaudevano de l’assoluzione di Dante, e diceano quella parte de l’Evangelio che dice: Beati qui esuriunt et sitiunt iustitiam, quoniam ipsi saturabuntur — , cui; cioè coloro li quali, alluma Tanto di grazia; cioè illumina tanto de la Grazia Divina, che l’amor del gusto; cioè l’appetito de la gola, Nel petto lor; cioè nel cuore loro, troppo disir; cioè troppo desiderio, o vero diletto, non fuma; cioè non pillia, Esuriendo; cioè avendo fame e desiderando di mangiare, sempre quanto è giusto; e non più. E qui finisce lo canto xxiv, et incomincia lo xxv.
Note
- ↑ C. M. Bonagiunta
- ↑ Forese morì nel 1295 E.
- ↑ Assolvè; cadenza regolare dall’infinito assolvere. E.
- ↑ C. M. lui, s’invia
- ↑ C. M. dal
- ↑ C. M. dalla
- ↑ C. M. occhi, fatti,
- ↑ C. M. aggiunse
- ↑ C. M. Orbiziano
- ↑ C. M. Dal Troso, il Troso
- ↑ C. M. ne bevea volentieri
- ↑ C. M. mi mostrò — Il Codice nostro legge — me mostrò — senza la particella a che talora i nostri antichi tralasciavano innanzi al nome personale e a qualche pronome. E.
- ↑ Ubaldino fu di Mugello degli Ubaldini di Firenze. E.
- ↑ Gentucca fu poi moglie d’un Bernardo Morla degli Antelminelli Allucinghi. E.
- ↑ C. M. raccontando
- ↑ C. M. boiutoli:
- ↑ C. M. bontucculo,
- ↑ C. M. Bonagiunta
- ↑ C. M. questa fantasia
- ↑ C. M. li xxxv anni
- ↑ C. M. stilo
- ↑ C. M. che sposasseno
- ↑ C. M. qui per
- ↑ Stracinato, levato di mezzo l’s, al modo che solevano in talune voci gli antichi. Così dissero arbucello, resucitare, per arbuscello, resuscitare ec. E.
- ↑ Messer Corso Donati morì alla badia di san Salvi a di’ 15 settembre 1307. E.
- ↑ Mariscalco; ora maresciallo, proviene dal mariscalcus della bassa latinità, nato dal germanico march o marach, cavallo, e scalch, potente, maestro, ministro. E. — C. M. maliscalco
- ↑ Avavamo. L’uso rifiuta tale cadenza, che gli antichi adoperarono eziandio nella seconda e terza coniugazione, modificandole sulla prima. V. Inf. c. v — 133 leggiavamo. E.
- ↑ Mane; plurale di mana, che tuttora si ode fra il popolo toscano. E.
- ↑ Adesso; tosto, subito, dal latino ad ipsum, suppostovi tempus. E.
- ↑ Nella Città di Dio lib. xiii c. 21. sta scritto come il legno della scienza del bene e del male possa accennare il proprio arbitrio della volontà. E.
- ↑ Ricordivi; la mente o memoria ricordi a voi. I giovanetti non lascino inosservati questi bei modi ellittici della nostra lingua. E.
- ↑ Dare bere è maniera che s’incontra frequente nei nostri Classici, ove non senza una cotale vaghezza è tralasciata la particella a o da indicante il termine o la derivazione di forma. E.
- ↑ Spaventato; spavento, come imperiato, usata per imperio, uso e simili che leggonsi negli antichi. E.