I. — Jela

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Come l'onda II

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JELA.

I.

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Sono passati tanti anni, ma ancora ricordo lucidamente i più minuti particolari di questo episodio della mia vita.

I cavalli scalpitavano impazienti nella strada, un po’ distante dalla porticina dell’orto dove io stavo a origliare. Sentivo, di quando in quando, il rumore delle catenelle e di tutti gli arnesi a ogni scossone che i poveri animali accompagnavano con una specie di sternuto. Mi pareva impossibile che non nitrissero, e col pensiero li ringraziavo della intelligente riserbatezza mostrata in quel punto.

Aspettavo da un’ora.

Era nuvolo. Il vento stormiva furioso fra gli alberi e mi recava interrottamente all’orecchio rumori cupi, lontani, che somigliavano a urli, a lamenti, a grida confuse e mi facevano trasalire.

Provavo intanto vivissima compiacenza di quelle sensazioni notturne. Passare, d’un tratto, dalla monotona vita di provincia a una bizzarra avventura, che aveva la doppia attrattiva del pericolo e dell’ignoto, per uno che languiva nella noia era anche un po’ troppo. Sentivo ridestato in fondo al cuore [p. 10 modifica]qualcosa rimasto lì da lungo tempo a dormire; respiravo più liberamente; riconoscevo con sodisfazione che non ero già vecchio a trentasei anni.

L’immensa solitudine da cui ero circondato; la vallata che il vento riempiva dei suoi strani sibili; l’oscurità della notte senza luna, che trasformava l’aspetto degli alberi e dei luoghi in un insieme fantastico e pauroso, privo di contorni e di limite, tutto serviva a comporre uno sfondo, che si adattava benissimo alla natura della mia impresa ed alla singolare situazione dell’animo mio.

Aspettavo, ripeto, da un’ora. Nel villino e nell’orto non fiatava anima viva.

— Verrà? Non verrà? Che qualche impedimento abbia sconvolto i nostri piani? Ch’ella si sia pentita all’ultimo momento?

Appoggiato allo stipite della porticina dell’orto, ruminavo da un pezzo queste domande, quando udii girar la chiave nella toppa.

Mi tirai da parte, trattenendo il respiro.

La porta si aperse lentamente; una testa si affacciò indistinta nell’ombra e stette un istante ad ascoltare; poi ecco sul legno i tre colpi convenuti.

— Son qua da un’ora — dissi a bassa voce, facendomi innanzi.

— Siamo già pronte — rispose una voce di donna. — Vado a chiamar la signora.

— Brava! Si spicci.

Le parole mi facevano nodo alla gola. Se la persona che doveva da lì a poco fuggire con me fosse stata mia amante, non avrei potuto essere più agitato.

Trascorsero dieci minuti, che mi parvero un secolo. Non vedevo l’ora di trovarmi lontano un buon paio di miglia e m’impazientivo d’ogni intoppo.

Avevo spinto l’usciolino lasciato aperto, avevo [p. 11 modifica]messo il piede nell’orto, mi ero anzi inoltrato sino a mezzo viale, ed ero tornato sùbito indietro per paura di commettere un’imprudenza. Un lume apparve finalmente dietro i cristalli di una finestra e sparì. Aguzzai gli occhi nel buio: due ombre si disegnarono sul bigio della facciata del villino, poi sulla striscia del viale.

— Affrettiamoci, — disse la signora con voce soffocata.

— Mi dia la mano, — risposi. — Il cavallo è dei più tranquilli.

E l’aiutavo a montare in sella, mentre il mio servitore, piegato un ginocchio a terra, le presentava l’altro per servirle da gradino.

Ella saltò leggera, come persona abituata a cavalcare. Lo stradone correva dritto fra due siepi di fichi d’India. Lo scalpitío monotono delle ugne ferrate era il solo rumore che si confondeva coi sibili acuti del vento.

A un’ora dopo la mezzanotte, l’aria pungeva, quantunque fosse di primavera.

Stavamo tutti zitti; già, con quel vento era impossibile parlare. Ella tossicchiava di quando in quando e fermava un pochino il cavallo; poi riprendeva il trotto. Uno dei miei contadini e la cameriera ci seguivano a breve distanza. Il mio servitore e un altro contadino venivano dietro, a cento passi, per avvertirci di galoppo se fossimo stati inseguiti.

In quella stessa ora Paolo ballava allegramente

da un parente di lei per allontanare qualunque sospetto. [p. 12 modifica]

La strada, dopo un buon tratto, faceva gomito.

— Che cos’è? — domandò la signora, arrestando il cavallo alla vista di un lume.

— È la barriera, — risposi; — non abbia paura. Sta bene in sella?

— Benissimo.

Urtai con le gambe del cavallo la grossa catena di ferro, che sbarrava il passo e feci suonare la campana dentro la baracca di legno. Una voce dall’interno ciangottò non so che parole; poi, allo scarso lume del lanternino attaccato al muro, vedemmo affacciare allo sportello dell’uscio la testa barbuta del custode, con lo sbadiglio alla bocca e gli occhi nuotanti nel sonno. Pagato il pedaggio, lo sportello si richiuse e la catena cadde a terra. Lo stradone tornò a risuonare del trotto dei nostri cavalli.

Il buio non mi aveva permesso di vedere in viso la fuggitiva; ne avevo però udito la voce, dolce, carezzevole.

— È bella? — pensavo.

E tentavo di figurarmela. Le davo occhi cerulei, limpidissimi, e capelli biondi. Perchè? Non lo sapevo neppur io; mi sembrava però che a quelle forme svelte ed eleganti s’addicessero capigliatura bionda e occhi cerulei.

Maritata? Vedova?

Non volevo entrarci. Paolo era sempre stato l’uomo dalle belle avventure. Questa volta mi sembrava l’avesse fatta un po’ grossa. Basta! Doveva pensarci lui.

Le ombre della notte cominciavano a diradarsi. Il vento era quasi cessato; il freddo del mattino [p. 13 modifica]però mordeva più vivo. La strada s’animava di carri carichi d’ortaggi, che dovevano trovarsi ai mercati dei paesetti vicini prima dello spuntare del sole. I carrettieri, sdraiati bocconi su la roba accatastata, fumavano le pipe, canticchiando, e scotevano di tanto in tanto le redini di corda fissate a un pomo della tavoletta di fianco.

Più in là prendemmo una scorciatoia a traverso i campi, per evitare di incontrar gente e per giungere a tempo alla piccola stazione di Bicocca.

Vi arrivammo che già spuntava il sole. Il treno avrebbe tardato appena un quarto d’ora a passare.

Spossata dal viaggio e più, forse, dalla commozione, la signora chiese un bicchier d’acqua. Il Capo stazione la invitò gentilmente a salire in camera di sua moglie; lassù avrebbe anche potuto riposarsi meglio che su le panche di legno della saletta di aspetto.

Le tenni dietro. Smaniavo di vedere in viso la persona che dovevo accompagnare non solamente per altri due lunghi giorni di viaggio, ma finchè il mio amico non avrebbe potuto venire presso di lei senza farsi scorgere.

Quando la moglie del Capostazione le presentò il bicchier d’acqua, la signora alzò il velo poco più in su delle labbra e bevve lentamente. Aveva un collo stupendo. La carnagione bruna traeva un po’ al pallido. Capelli nerissimi, viso ovale piuttosto piccolo, mento gentile, bocca come un anello, ma seria per naturale atteggiamento delle labbra; ecco quel che potei vedere con un’occhiata investigatrice, nell’intervallo di due secondi, tra la alzata e l’abbassata del velo. Avevo proprio indovinato!

Bella, nello stretto significato della parola, non mi parve; intendo di quella bellezza scintillante, sfolgorante, [p. 14 modifica]che non si lascia discutere ma s’impone. Piacente sì; molto piacente, e per me, infine, voleva dire più che bella.

Non avevo però veduto la vera espressione del viso, la vera anima: gli occhi; e bisognava attendere per pronunciare un giudizio. Frattanto m’abbandonavo a un lavoro di ricostruzione simile a quello dei naturalisti. Dato quel collo, quel mento, quella bocca, quella carnagione, quella statura, quei capelli, quale avrebbe dovuto essere l’espressione del volto e, più specialmente, degli occhi? E una serie di visi ora accennati, ora sbozzati, ora disegnati con accuratezza e coloriti con amore, tremolava, brillava, si sbiadiva, spariva, ricominciava ad apparire innanzi a’ miei occhi fissati sulla banchina ghiaiata sottostante alla finestra.

La signora intanto, seduta presso il capezzale del letto su una seggiola impagliata, col capo appoggiato ai guanciali, e le mani ferme su le ginocchia, riposandosi dalla fatica del cavalcare, pensava Dio sa a che cosa!

Nel vagone rimanemmo soli. Speravo che quel velo importuno sarebbe stato alfine rimosso.... Niente affatto. Ella si adagiò in un canto quasi per cercar di dormire, ed io dovetti rassegnarmi a scambiare qualche parola con la cameriera, che non era nè giovane, nè bella, ma aveva una fisonomia intelligente, maliziosa, e prodigava l’eccellenza.

Cavai di tasca il portasigarette e domandai alla donna se la sua signora soffrisse pel fumo.

— Fumi pure — rispose la signora senza rimuoversi dalla sua positura. — Non mancherebbe altro [p. 15 modifica]ch’ella avesse anche questa noia! Sarebbe troppo: fumi, fumi, la prego....

Il Jonio scintillava come un immenso specchio al sole. La spiaggia si piega in quel punto con vasta curva dolcissima, e l’onda del mare viene a morirvi lentamente quasi per languore amoroso.

Giardini ancora bagnati dalla rugiada del mattino e che profumavano l’aria con la loro zàgara, strisce di prati, scogliere, gole di colline, strappi di mare e poi giardini di nuovo; tutto spariva velocemente con la rapida corsa del treno, in visione indistinta, da far credere che il velo della mia fuggitiva si fosse anche steso su quella meravigliosa natura, destatasi fresca e gioconda ai primi raggi del sole. E fantasticavo, secondo le varie impressioni, lieto di seguire i bizzarri capricci della fantasia.

Nella stazione di Siracusa ci attendeva una carrozza a due cavalli; ripartimmo immediatamente.

— Ora che non c’è più timore di importuni, — dissi, appena chiuso lo sportello, — ella può liberarsi della seccatura del velo.

Staccò uno spillo e rimosse via quell’ingombro.

La guardai stupito.

L’avevo già vista altrove? Mi pareva di riconoscerla. Non poteva essere; sapevo con certezza che la vedevo allora la prima volta. Pure nei suoi lineamenti doveva esserci qualcosa che mi produceva quell’effetto. Cercai, ma non trovai una spiegazione plausibile.

Oh, quegli occhi! Neri, vivaci, piccoli, dallo sguardo profondo — che, a un lieve aggrottar delle sopracciglia, assumeva un’espressione d’indefinibile tristezza — quegli occhi, senza dubbio, li avevo veduti prima di allora; quell’indefinibile espressione di tristezza non mi giungeva punto nuova. Ma non mi raccapezzavo. [p. 16 modifica]

Ella mi domandò:

— Si arriverà tardi alla Marza?

— Domani, — risposi, ricomponendomi sùbito.

— E dovremo viaggiare tutta questa giornata e la notte seguente?

— Ci fermeremo a Rosolini; ripartiremo di buon’ora.

— È un bel posto la Marza?

— Stupendo, massime in questa stagione. Vedrà qualcosa di strano, ch’ella non può immaginare.

— Vigne, oliveti?

— Campagna rasa.

Mi fissò tra incredula e dispiaciuta.

Ma abbozzai, per tranquillarla, una breve descrizione, che produsse l’effetto voluto. Dopo, indovinando facilmente il suo naturale ritegno, mi decisi a parlare di Paolo.

— Forse — dissi — non potrà esser là prima dell’altra settimana.

— Come? — ella fece. — Non verrà fra tre giorni?

— Potendo. Bisogna esser cauti.... capisce?

— Non correrà pericolo, è vero? — chiese, voltandosi più direttamente verso di me.

— Oh, per questo, viva tranquilla!

Il ghiaccio del primo incontro era bell’e rotto.

Conversammo lungamente.

Verso il tramonto, assai prima di arrivare a Rosolini, si avvolse nello scialle, si rannicchiò nel suo angolo di carrozza e stette così, pensosa e con gli occhi socchiusi, fino al momento che, a sera inoltrata,

la carrozza si fermò davanti al portone dell’Albergo. [p. 17 modifica]

Ci rimettemmo in viaggio prima dell’alba.

Ella scese le scale in fretta, con mosse da freddolosa, e appena entrata in vettura:

— Vorrei essere già arrivata! — esclamò con accento di grande stanchezza.

La carrozza partì di galoppo, accompagnata da una musica di sonagli, di schiocchi di frusta e di chè! chè! del cocchiere.

Avevo dormito poco, interrottamente, e mi ero svegliato di malumore. Mi sentivo oppresso da uno di quegli inesplicabili sentimenti che non lasciano distinguere se un malessere fisico ne produca in quel punto uno morale, o se un patema d’animo agisca sui centri nervosi, li contragga e li faccia soffrire.

Mentre il piede destro batteva con colpettini irrequieti il fondo zincato della vettura, gli occhi fissavano, macchinalmente, a traverso i vetri, la tinta quasi uniforme delle cose in quell’ora mattutina, e l’immaginazione vi gettava, a intervalli, visioni ridenti come sprazzi di luce: un angolo di paesaggio illuminato dal sole; una stanzetta ben nota; una testina di donna che non giungevo a ravvisare; un tramonto, veduto non ricordavo più quando, una pianticina fiorita, un muro coperto di screpolature bizzarre; e cento altre immagini che si delineavano rapidamente su quel fondo grigio, come per istantaneo aprirsi e chiudersi di una lanterna magica; ed io continuavo, tra sonno e veglia, a fantasticare senza occuparmi d’intendere quali attinenze corressero fra quelle apparizioni disparate e il mio improvviso malumore.... Forse avevo nel cuore una segreta paura d’intenderle. [p. 18 modifica]

Quando l’alba colorò dei suoi miti splendori lo spazio di cielo inquadrato dallo sportello della carrozza, ritrassi le gambe, e mi rizzai su la vita:

— Eccoci a un terzo di strada — esclamai, dopo aver dato un’occhiata al posto che traversavamo in quel momento.

— Lo credevo addormentato — ella disse; — temevo di svegliarlo.

— Non ho dormito, — risposi; — ho sognato.

— Desto?

— È il miglior modo di sognare.

La signora fece un movimento con gli occhi e con le labbra quasi dicesse:

— Sarà; ma stento a crederlo.

Durante il silenzio che seguì, io riflettei che trovarsi accanto a una graziosa signora, nel ristretto spazio di una carrozza, coi vetri tirati su, dentro quell’atmosfera riscaldata dal calore dei fiati, è sensazione gradevole, quasi voluttuosa, che merita di esser provata almeno una volta, specie quando la signora che viaggia con noi non ci appartiene. Appena però mi accorsi di non essere osservato, tornai, come il giorno innanzi, a guardare attentamente la fuggitiva. L’idea della sua rassomiglianza mi tormentava tuttavia. Il non averla ancora trovata m’impensieriva però assai meno di quel che si agitava dentro di me per cagione di lei; senso indefinito di sentimenti dolcissimi provati tempo addietro, venuti ora lentamente a galla dal più profondo del cuore.

— Ma che doveva importarmi di quella benedetta rassomiglianza? [p. 19 modifica]

Me lo domandavo la mattina dopo sulla terrazza del villino di Conca di Pietra, aspettando che la signora Emilia uscisse di camera per far colazione lì, in faccia al mare.

E quando comparve, non seppi frenare un gesto di sorpresa. Ella era trasfigurata!

Indossava un abito d’indiana azzurra e bianca guarnita di trine nere, che davano risalto alla foggia. Il busto le abbracciava stretta la vita e la faceva parere più snella. I capelli, semplicemente tirati su e trattenuti da un nastro di velluto celeste, luccicavano di ondeggianti riflessi violacei attorno alla fronte.

Mi porse la mano domandandomi scusa di essersi fatta aspettare; poi diede una rapida occhiata al mare brulicante di scintillii sotto la vampa del sole già alto, un’altra occhiata alla campagna che scendeva a sinistra, verde di messi quasi fino alla spiaggia, e alzando le sopracciglia e aprendo gli occhi con viva espressione di piacere, esclamò:

— Che magnificenza!

In quel momento mi sentivo interdetto; respiravo appena. La rassomiglianza, così ostinatamente cercata e non potuta trovare, mi era all’improvviso saltata agli occhi, dandomi una fortissima scossa.

Stupido! Come non me n’ero accorto sùbito?

Come avevo potuto aspettare fino a quel momento per riconoscere ciò che avevo confusamente avvertito appena vedutala?

— Perchè mi guarda così?... — domandò quasi mortificata.

— Scusi — mi affrettai a dire. — È proprio un caso incredibile! [p. 20 modifica]

— Che caso?

— Lei somiglia tanto a una persona di mia conoscenza....

— Davvero? — m’interruppe ridendo. — È fortuna per me.

— Ma tanto — continuai senza badare al complimento — che io medesimo non credo ancora ai miei occhi!

— A persona, senza dubbio, molto cara.... — ella soggiunse, pronunziando le parole con tono di graziosa malizia.

— Molto! — risposi vivamente.

— Meglio. Così soffrirà meno la noia di questo esilio alla Marza. Cotesta sua amica però, non sarebbe molto contenta, se sapesse che lei ha stentato due giorni prima di riconoscerla nei miei lineamenti.

— Vi era qualcosa che me lo impediva, — risposi; — il vestito, l’acconciatura della testa, la....

— E poi, forse, — m’interruppe con un sorrisetto di celia — la rassomiglianza non sarà proprio tanto grande....

— Sì, è vero — risposi. — Infatti la sua voce ha un’intonazione diversa, e colei aveva anche aria più dimessa, più seria.

— Così?

E si atteggiò a serietà senz’affettazione, nè caricatura.

— Precisamente, Dio mio!

— Starò seria tutto il giorno, per farle piacere.

— Oh, ma non creda.... — dissi con simulata indifferenza. E per divergere la conversazione, esclamai: — Se ci fosse una tenda, si potrebbe anche desinare qui. Vi ceneremo la sera, al chiaro di luna, come nei romanzi. [p. 21 modifica]

Rimasi tutta la giornata mezzo stordito. Non sapevo capacitarmi come mai i lineamenti della mia Jela si fossero quasi ripetuti in un’altra persona.

Jela! Il dolce sogno della mia giovinezza! L’unica donna che io abbia sempre amata anche amandone altre.

Jela! Jela!... Oh! Dopo tant’anni, non posso tuttavia pronunziar questo nome senza tremare dalla commozione. La immagine di lei non solamente ha resistito nel mio cuore a tutte le offese del tempo e dei mille casi della vita, ma ogni mese, quasi a giorno fisso, torna a stringermi affettuosamente tra le sue braccia ideali, con raccoglimento più che religioso, con dolcissima estasi, per parecchie ore, durante le quali l’idillio della mia giovinezza ricanta lietamente le sue gentili canzoni.

— Fanciullaggini! Ridicolezze! — mi sono spesso ripetuto. Può darsi; ma fanciullaggini divine! Da chi ho mai ricevuto consolazioni più profonde? Da chi conforti più ineffabili?

Purificata, idealizzata da lungo e segreto lavorio, pel quale il mio carattere, le circostanze della vita e l’indole dei miei studi si porsero a vicenda la mano, la malinconica figura di Jela assunse presto pel mio cuore e pel mio spirito valore di simbolo. Pavento anch’oggi come una sciagura il momento in cui potrò forse dimenticarla, o rimanere indifferente. Ed ecco perchè il vederla riprodotta vivente nella persona della signora Emilia mi turbava.

Il gentile e sacro ideale della mia vita avrebbe patito per quest’incontro qualche mutilazione? Mi metteva i brividi il solo pensarvi. [p. 22 modifica]

E tentavo distrarmi da queste idee, ma non riuscivo.

Eravamo andati a visitare l’antico casamento della Marza, poco distante. L’atrio merlato; il cortile ingombro di erbe; la chiesa in rovina e già ridotta a fienile; le stanze vaste ma inabitabili; le rovine di un altro casamento lì accanto, una volta dei frati Carmelitani, deviavano, a intervalli, la mia mente da quella fissazione ostinata. Dovevo far da cicerone, dare schiarimenti, appagare la curiosità femminile destata da un sasso, da una grondaia, da un cespo di rigogliose viole a ciocche cresciuto sull’architrave della porta della chiesa, e rispondere alle cento domande che il posto naturalmente suggeriva.

— Quella bianca cupola in fondo, che stacca sul grigio della pianura?

— È della chiesa di Pachino.

— E quel colle con quel vasto e severo edificio in cima?

— Il colle di San Basilio e la villeggiatura dei proprietari.

— E quello scoglio nero in mezzo al mare, poco lontano dalla spiaggia?

— L’isoletta dei Porri.

La giornata era splendidissima. Sole di primavera; aria profumata dagli odori particolari delle mèssi e delle erbe selvatiche in fiore.

Ma quel sole, quelle mèssi, quelle erbe selvatiche in fiore mi richiamavano alla mente un’altra giornata di maggio e una campagna più bella.

Jela, appoggiata al muro rustico di un pozzo su la spianata accanto all’aia, sorrideva ai piccioni domestici che beccavano i chicchi di orzo e di frumento lasciati cadere a poco a poco dal pugno della mano destra levata in alto; un cane bigio scodinzolava guardandola [p. 23 modifica]fisso, col muso in aria, quasi aspettasse anch’esso qualche regalo mangereccio.

— A che pensa? — domandò la signora, vedendomi così assorto.

— Penso, — risposi, — ch’è bene ci siano al mondo felicità che non si possono mai possedere!

— Una felicità non posseduta è piuttosto un dolore.

— Per possedere certe felicità e possederle per sempre (aggravai la voce sul certe e sul sempre), l’unico mezzo, cara signora, è non possederle mai.

— Una donna, — ella rispose, — non parlerebbe a questo modo.

— Perchè?

— Perchè noi siamo molto più pratiche degli uomini.

— Questo mi stupisce, dopo averla sentita parlare dei mille romanzi che ha letti.

Mi tornò alla memoria quel po’ della sua vita, che ella mi aveva confidato la sera avanti. Sentivo susurrarmi all’orecchio: «Ho sofferto, ho lottato!»

E poi, in tono più severo, quasi ultimo resultato di tristissima esperienza: «Solo il possesso rende felici; tutto il resto è illusione».

Io però protestavo internamente:

— No, non è illusione.

Si accorse presto del mio turbamento, e mi sorrideva in faccia con aria maliziosa, non osando apertamente canzonarmi. Richiamava spesso il discorso sul mio ideale, com’ella diceva, e m’interrogava con curiosità, quasi provasse gusto nel delicato tormento che m’infliggeva.

— Era più bassa, più gracile di me?... — mi [p. 24 modifica]domandò una volta ex abrupto, mentre appoggiata al mio braccio saliva uno dei tanti mucchi di sabbia del piccolo Sahara della Marza.

— Più gracile assai.

— Ed è rimasta gracile sempre?

— Rivedendola dopo un lustro, mi parve soltanto un po’ più pallida e assai più triste.

— Non è felice?

— Ahimè, poverina! — esclamai.

— La colpa è un po’ anche sua, — riprese, sorridendo e piegando di lato il collo per guardarmi negli occhi, mentre agitava in aria l’indice della mano sinistra con gesto accusatore.

— Dica del caso, delle circostanze; eravamo così ragazzi tutti e due!

— L’avrà un po’ consolata.... dopo.

— Oh, no! — dissi trasalendo, e levando alta la fronte. — Quella donna è proprio morta per me. Io amo soltanto la ragazza, un ricordo, un fantasma. Infatti, quel che rende il mio sentimento più bello e più orgoglioso della propria purezza è la convinzione che sia ignorato da lei.

— Che assurdità! — esclamò. — Una donna amata può, se vuole, fingere d’ignorare; ma ignorare davvero....

— Le assicuro che colei ignora, — insistetti.

E intanto sentivo battermi il cuore all’idea che quel mio sentimento non vibrasse ignorato. Avrei però voluto sospettarlo io solo.

La signora Emilia si divertiva a salire, a discendere pei mucchi di sabbia sparsi, come tanti tumuletti, lungo la spiaggia; e col braccio mi spingeva a correre su e giù per quella distesa mobile e gialliccia, deserto in miniatura.

Vi ritornammo parecchie volte nei giorni seguenti, [p. 25 modifica]ora al levar del sole, ora sotto il calore meridiano per formarci un’idea approssimativa del vero deserto, ora al lume di luna.

I raggi lunari, rischiarando con luce bianchiccia quella vasta e brulla estensione di sabbia, davano risalto con le ombre a tutte le disuguaglianze del terreno; e il luogo assumeva così un aspetto strano e pauroso, che di giorno nessuno avrebbe immaginato. Le onde del mare, battendo svogliatamente sulla spiaggia poco discosta, facevano un perfetto contrasto col silenzio che incombeva dall’altro lato su la solitudine desolata.

Pareva di essere chi sa a quante miglia da ogni creatura vivente, sperduti e senza speranza di soccorso, in mezzo a un oceano di sabbia. La configurazione del terreno, celandone i limiti, contribuiva a far credere immensa quell’estensione di poche miglia.

Di tanto in tanto la mia compagna lanciava per l’aria cheta un allegro scoppio di risa, che suonava più argentino del solito e vi si perdeva senz’eco.

Io, quando non ragionavamo, canterellavo. Ella intanto, facendo il giro dei pantani, gettava manate di sabbia fra i giunchi dattorno per far levare le anitre, le folaghe, i gheppi lì rimpiattati.

In verità, non mi divertivo molto.

Nei giorni precedenti mi ero più volte sorpreso a guardarla intensissimamente con sentimento di dolce compiacenza e che non scaturiva soltanto dalla sua somiglianza con Jela.

Ed ora, in quel posto, tornando silenziosi verso casa, avvertivo con stizza che il calore del suo braccio, appoggiato con stanchezza sul mio, mi faceva pensare a qualcosa di vagamente sensuale che s’infiltrava nella pura atmosfera del mio spirito e cominciava ad attirarlo. [p. 26 modifica]

Pur troppo era vero!

La signora Emilia mi aveva rapidamente svegliato nel cuore tutti gli ardori dei miei sedici anni e con la stessa freschezza d’una volta. No, non vivevo insieme con lei alla Marza, ma con la mia Jela evocata da misteriosa potenza, che soltanto ne aveva alterato alquanto i lineamenti e le gracili forme. Capivo benissimo però che, oltre quei sentimenti, se n’erano sviluppati dei nuovi, collegati con quegli altri quasi per completarli; temevo appunto di questi.

Alcune parole, alcune frasi della signora Emilia, mi turbavano da qualche giorno in modo incredibile. Certe occhiate, certi sorrisi, certe inflessioni della voce che più vivamente riflettevano o rammentavano, anche da lontano, le occhiate, i sorrisi, le inflessioni della voce di Jela, mi davano scosse, tremiti, languori, che talvolta arrivavano fino a spossarmi. Ed io soffrivo di questo sovrapporsi di lei, di questo suo impertinente sostituirsi alla cara immagine, che formava da tanti anni il culto più sacro della mia vita.

Soffrivo, ma non resistevo, non reagivo; mi lasciavo sopraffare. Provavo qualcosa di simile a quelle tiepide correnti sottomarine delle quali parlano i pescatori di corallo, che intorpidiscono nelle mute profondità delle acque il sentimento della vita e fanno assaporare la morte quasi delizia ineffabile. Sentivo che ormai quel fascino mi avviluppava in modo da non poterne più vincere la malefica azione.

— E dopo? — mi domandai una sera indignato, piantandomi di rimpetto a la mia ombra proiettata dal lume sul muro bianco della stanza.

E siccome l’ombra non rispondeva:

— Sei un vile! — dissi a quell’altro me stesso che vedevo coll’immaginazione confuso ed abbiosciato là davanti. [p. 27 modifica]

E andavo su e giù, tirando fantastici buffi di fumo dal sigaro spento.

— Miserabile! — continuavo — Tu carezzi desiderii, che non osi confessare nemmeno a te stesso. Già non sei più sicuro se, tradendo la fiducia del tuo amico, commetti un’indegna azione!

E tornavo a passeggiare, stritolando fra l’indice e il pollice la punta del sigaro col pretesto di ravvivarlo.

Quelle parole mi avevano fatto arrossire quasi fossero state pronunziate da un’altra persona, da un amico severo, venerato per gli anni e per l’esperienza della vita. E cercavo di scusarmi; e mentalmente rispondevo:

— Via! Tu esageri. Tradire la fiducia del mio amico? Nemmeno per ridere. Volessi pure, quella donna......

Ma non completavo il periodo. Sentivo di mentire e mi fermavo esitando, un po’ per persuadermi che forse m’illudevo, un po’ per l’involontaria compiacenza di scoprire che pur troppo non m’ero illuso.

Quella donna non sarebbe stata forte, lo indovinavo. Da che? Da cento lievi e quasi impercettibili indizi, che sarebbero sfuggiti a qualunque occhio meno interessato del mio.

— E dopo? — ripetevo con insistenza.

E rimanevo sbalordito, addolorato, vedendo come l’immagine della mia Jela avesse potuto offuscarsi un momento; indignato che la rassomiglianza fosse servita, mio malgrado, da incentivo per sentimenti affatto opposti a quelli ispiratimi da lei.

— Che debolezza! Che vigliaccheria!

Oh, no! Volevo essere uomo; resistere, vincere anche sfidando il pericolo; dovevo al culto della mia Jela questa riparazione sentimentale.

E andai a letto consolato. [p. 28 modifica]

Avevo noleggiato una barca, che venne a prenderci allo spuntare del sole.

Un marinaio, con larghi e corti calzoni rimboccati fin sopra il ginocchio, ci portò in collo di peso, una dietro all’altro; poi diede una spinta alla poppa, e la barca mezza arenata si cullò tosto mollemente su le onde dopo aver traballato un pochino pel peso di lui, che vi era saltato dentro.

Il mare appariva tranquillo. Larghi riflessi, verdognoli, azzurri, rossastri lo colorivano in diverse direzioni, divisi da orli fosforescenti; le varie correnti marine lo striavano a fior d’onda, come solchi di rotaie in un immenso piazzale.

La signora Emilia batteva le mani e dava in esclamazioni di sorpresa e di gioia. L’acqua le produceva fascini violenti, che le lampeggiavano nelle pupille con incredibile vivacità. Di quando in quando, a un’ondata che turbava il moto regolare della barca, ella cacciava un grido — non sapevo ben discernere se di paura o di piacere — e diceva, ridendo:

— Se si cascasse in mare?

E scoteva la testa e la persona quasi già provasse i brividi del freddo contatto dell’acqua.

Io la guardavo tranquillo, dominando le mie impressioni, lieto di vedere che potevo opporre qualcosa alle involontarie seduzioni di lei. I miei sensi erano calmi, l’equilibrio del mio spirito perfetto; ma questa contentezza interiore doveva certamente tradurmisi sul volto in insolita serietà, e in quel raccoglimento che mi faceva star zitto.

— Si annoia? — ella disse dopo un lungo silenzio.

— No, signora. [p. 29 modifica]

— Il suo pensiero non è qui. Lei non dice neppure una parola!

— I grandi spettacoli della Natura rendono muti.

— Mi dispiace che debba annoiarsi per causa mia. Anche l’amicizia ha i suoi pesi.

— Non questa volta.

Approdammo all’isoletta dei Porri, largo scoglio quasi piano, sollevato di qualche metro fuori del mare che vi balla attorno spumante. Lo percorremmo in pochi minuti, poi ci sedemmo nel centro, dirimpetto alla spiaggia. La campagna si stendeva laggiù, laggiù, con linee larghe, con mille sfumature di verde, che si armonizzavano insieme. Lontano, in fondo, dentro una nuvola di vapori dorati, torreggiavano nel cielo opalino le cupole e i campanili di Spaccaforno infiammati dal sole. Il mare rumoreggiava da ogni lato dell’isoletta con urli e scrosci interrotti. Di tratto in tratto vedevamo qua e là sollevarsi gli spruzzi iridati dei cavalloni irrompenti sui fianchi più bassi.

— Ecco un posto, — ella disse, — dove abiterei volentieri, e dove vorrei morire tutt’a un colpo, ingoiata dal mare quasi prima di accorgermene.

— Che desiderii strani! — esclamai ridendo. — E vorrebbe vivervi sola?

— Oh! no, — rispose. — Dicono che soli non si starebbe bene neppure in Paradiso. In due, con un’altra persona che avesse il medesimo gusto, che trovasse nella mia compagnia, come io nella sua, bastevole ragione per non rimpiangere la società.... Sciocchezze, è vero? — soggiunse sospirando. — Invece bisogna contentarsi della dura realtà. Ecco: pel mio cuore, questo misero scoglio potrebbe valere tutto l’universo. Ma pel cuore di un uomo? Come rende triste il pensiero che noi, nella vita dell’uomo, possiamo appena appena essere un accessorio! [p. 30 modifica]

— Scusi, — dissi. — Non è sempre così. Vi sono donne che riempiono tutta la nostra vita del loro benefico influsso; che diventano la parte migliore dell’anima nostra, del nostro spirito, e sopravvivono in noi anche quando le relazioni esterne sono rotte per sempre.

— Jela! — esclamò, fissandomi in volto con uno sguardo in cui sorpresi lampi di dolore e di invidia.

Quel nome, pronunciato dalla sua bocca, mi diede i brividi.

Vedendo che tacevo, la signora Emilia mi prese amichevolmente una mano, e con accento interrotto, pieno di rimpianto e di affetto represso, continuò:

— Come dev’esser felice quella donna! Darei metà della mia vita per essere amata allo stesso modo. Dio mio! Sento già tremare questa mano al solo ricordo, e veggo quegli occhi inumidirsi.... E son già dodici anni! Ma quanti dolori, quante tristezze! Felicità costata troppo cara e che, certamente, non esisterebbe, se invece di essere stati proprio a tempo divisi, avessero potuto vivere uniti, o lei l’avesse posseduta un istante, tutta sua, fra le braccia. Ma, caso o no, quella donna intanto dev’essere troppo felice. Chi non cangerebbe la propria con la sorte di lei? Chi non vorrebbe provare la sua tremenda voluttà di doversi concedere, col corpo, all’uomo che non ama, e di darsi nel punto stesso, collo spirito, al suo assente adorato?

— Oh no, no! — interruppi indignato. — È un amore di altro genere. Ella non lo intende... non può intenderlo.

E mi rizzai in piedi. Avevo bisogno di essere scortese.

La tremenda voluttà di doversi concedere!...

Queste parole mi eran suonate all’orecchio come [p. 31 modifica]una profanazione. Oh! Colei mesceva la sua bassa sensualità a un sentimento che non avrebbe appannato il cuore più puro....

Sì, avevo bisogno di essere scortese. E non solo per protestare, ma anche per difendermi dalle strane impressioni della sua voce, che mi s’insinuavano per tutto il corpo vellicando dolcemente i nervi con irritazione delicata.

Temevo di dimenticare troppo presto le belle risoluzioni della notte.

Fu un istante.

Tornai a sedermi; volevo correggere quell’impeto troppo violento che l’aveva un po’ mortificata.

— Perdoni, — le dissi, — oggi sono nervoso. Il ricordo di Jela mi turba. Senta: ho le mani diaccie. E toccai le sue.

Ella mi guardava ammirando, con le sopracciglia un po’ aggrottate, le labbra strette e la faccia alquanto sollevata verso di me per fissarmi meglio.

Era Jela, proprio Jela!

Distolsi gli occhi.

Me la prendevo con Paolo che non veniva.

I giorni passavano apparentemente uniformi; ma il mio cuore era sconvolto. Non lottavo più, non resistevo; ragionavo e tentavo scusare agli occhi della coscienza quella vigliaccheria.

Non ero ancora arrivato al punto di dimenticare i miei doveri di amico; non osavo ancora pensare che, come tant’altri, quest’amore avrebbe potuto scivolare anch’esso sul mio cuore senza lasciarvi segno, senza ledere i diritti del purissimo affetto di Jela, no, questo ragionamento mi sarebbe parso un’empietà. La rassomiglianza [p. 32 modifica]della signora Emilia con Jela era così grande; il sentimento (perchè non dirlo?) che colei mi ispirava era un così vivo riflesso del ricordo di questa, da non darmi il coraggio di giustificarne ai miei occhi neppure la possibilità.

Mi limitavo a concedere che non era poi gran delitto riamare Jela in quel suo ritratto vivente; riamarla con la stessa semplicità di cuore, e la stessa purezza dei miei sedici anni. Mi sembrava anzi che il culto del mio spirito per lei si sarebbe rinfocolato meglio al contatto di quella realtà; una seconda giovinezza mi sarebbe rifiorita nel cuore.

La signora Emilia era troppo esperta della vita da non comprendere quel che avveniva nel mio interno. Se ne compiaceva, si divertiva: veniva, alla sua volta, allettata dalla stranezza del caso e dall’amor proprio così fortemente lusingato.

E Paolo? E la fuga? E il loro amore?

Ahimè! Niente è più vero del triste proverbio: Gli assenti hanno torto.

Già ella forse non si accorgeva di venir meno al suo dovere: forse, al pari di me, e lottava e cedeva e transigeva.... Chi lo sa? Forse anche provava, contro quell’incognita amata, gelosie di rivale.

Non sapeva perdonarle di venire fin lì ad invasarmi il cuore e a contrastarle fin quel meschino tributo di simpatia, che la donna più onesta è lieta di ricevere come buffo d’incenso alla propria bellezza o alla propria bontà!

E voleva vendicarsene, voleva umiliare la povera rivale con la stessissima arma della rassomiglianza, con cui ella era venuta ad assalirla nel suo breve regno.

Spesso le intravedevo negli occhi qualcosa di più; una sfida, una rabbia di provarmi che non soltanto [p. 33 modifica]l’amor puro, l’amore ideale lascia perenni ricordi nel cuore.... ma che ci sono baci e amplessi tali, da sconvolgere da cima a fondo la vita e assai, assai più durevolmente delle vaghe fantasie da collegiale che io, un tempo, nella mia inesperienza, giudicavo suprema felicità. E allora i suoi sguardi lanciavano fiamme che venivano a lambirmi il viso con lingue di fuoco; e le sue labbra sembravano umide di un liquore inebbriante, che attirava irresistibilmente le mie.

Mi occorreva un grande sforzo per restare ragionevole e savio.

Un giorno ella mostrò il desiderio di voler raccontata, con tutti i particolari, la storia di Jela. Non seppi rifiutarmi.

Dapprima ero deciso di accennarle soltanto per sommi capi quel delirio, quell’estasi di amore durata tre anni. Ma, narrando, mi sentii di mano in mano soavemente travolto dai miei cari ricordi; più non seppi quali scegliere, e mi lasciai andare a briglia sciolta dietro quei dolci fantasmi della giovinezza, che hanno avuto una grande influenza su tutto il resto della mia vita.

Ella ascoltava intentamente, avidamente, con agitazione e commozione che aumentavano, come più il mio racconto si coloriva e si animava. A un certo punto però fece un brusco movimento delle palpebre e del capo:

— Basta per oggi, — mi disse con voluta indifferenza. — Veggo che si riscalda troppo; le può far male.

Si alzò dalla seggiola, che aveva fatto recare sulla terrazza, scese i pochi scalini della gradinata, girò [p. 34 modifica]sbadatamente per la spianata coperta di erbe selvatiche e di stelline gialle e bianche tremolanti sui loro lunghissimi steli, poi si fermò davanti una statuetta greca, che giaceva ancora nel posto dove era stata scavata.

— Ha letto, — mi domandò con tranquillo tono di voce — la iscrizione che orna i lembi del pallio di questa dea?

Seguivo con occhio turbato i movimenti di lei. Avevo sùbito compreso il significato della brusca interruzione, e della simulata indifferenza, e mi sentivo venir meno la forza di fingere di non aver capito.

Senza un ultimo fievolissimo rimprovero della coscienza, mi sarei precipitato a buttarmele ai piedi per baciarle furiosamente le mani e dirle le cose insensate che già mi gorgogliavano in gola.

Quella domanda mi calmò.

— L’iscrizione è monca, — risposi. — Dice: A Hera, la sacerdotessa, (il nome è illegibile) nella festa di marzo.

— Povera dea! — esclamò, quasi non sapesse che dire.

A me intanto parve avesse voluto sottintendere:

— Povera Jela!

E mi sentii stringere il cuore.

Nella nottata presi un’energica risoluzione. Se per poco cedevo a quella tempesta di sensi scoppiatami così improvvisamente nel petto, insieme col culto ideale di Jela, sarebbero naufragate e la mia dignità di uomo, e la mia lealtà di amico. Decisi di fuggire all’insaputa di Emilia, perchè ero certo che in sua presenza non avrei più posto in atto quell’urgentissima risoluzione. [p. 35 modifica]

Scrissi una letterina e la posai sul tavolino, in modo che dèsse sùbito nell’occhio. Mi levai prima dell’alba. La mia stanza aveva una finestra molto bassa, che rispondeva sulla terrazza; apersi l’imposta con cautela, scavalcai senza stento il davanzale e mi avviai in fretta verso la stalla.

Il contadino, che custodiva le cavalcature messe a mia disposizione dal fittaiuolo dell’ex-feudo, dormiva vestito su la ticchiena, specie di letto murato. Lo svegliai, lo aiutai a sellare una giumenta e presi la carreggiata.

Contavo di recarmi a Spaccaforno, confidare il mio caso a un vecchio e fido amico e pregarlo di andare, per qualche paio di giorni, a tener compagnia alla signora. Paolo aveva già scritto che fra due settimane sarebbe arrivato. Quell’amico era uomo serio, discretissimo. Da giovane, doveva essere stato molto galante; conservava tuttavia il motto arguto e l’aneddoto gaio a dispetto dei suoi acciacchi, nei quali la galanteria della giovinezza entrava forse per qualche cosa. La signora non si sarebbe certamente annoiata con quel vecchietto, che pareva avesse concentrato tutta la vita negli occhi. E se si fosse anche annoiata? A me premeva soltanto di evitare il pericolo.

La giumenta andava lentamente; chi badava a spronarla? Ero troppo assorto nei miei pensieri. Avevo dispetto di commettere la viltà di quella fuga, e tentavo di trovare in fondo al cuore la dose di fortezza sufficiente a guarentirmi; ma non la trovavo.

Ero ridicolo. Cento altri al mio posto non avrebbero avuto tanti scrupoli. Io stesso, se non ci fosse stata di mezzo la rassomiglianza con Jela, sarei poi rimasto così virtuoso? Non dicevo nè sì nè no, ma sorridevo sarcasticamente; mi sbeffavo da me.

La giumenta rallentava il passo, si fermava a [p. 36 modifica]strappare grandi boccate di erbe, voltava di qua e di là la testa, quasi per interrogarmi intorno a quel che avrebbe dovuto fare. A intervalli, mi riscotevo; una stretta immeritata di sproni, una strappata di briglia, e la giumenta, poverina, riprendeva sùbito il trotto.

Era già l’aurora. Le allodole trillavano festosamente sui campi di frumento; mille altri uccelli rispondevano dalle siepi e dagli alberi. Le messi, ai lati della strada, ondeggiavano al soffio del venticello mattutino, facendo un rumore secco e stridente con le teghe delle spighe. Un misto di odori di erbe fresche, di profumi di fiori e di acri emanazioni di terreni coltivati mi si affollava alle narici e alla gola, e mi faceva provare la speciale sensazione della campagna, che par fortifichi le fibre e allarghi i polmoni.

Questa sensazione mi produsse l’effetto di un calmante. E quasi incoscientemente feci voltare addietro la giumenta e ripresi il cammino verso la Marza.

Ero vergognoso; non volevo neppure rammentarmi d’avere tentato quella fuga. Dalla strada spiavo le finestre del villino di Conca di Pietra; erano ancora chiuse. La mia lettera fortunatamente non poteva essere stata scoperta. E davo di sproni alla giumenta che scuoteva la testa, costernata dell’insolito trattamento.

Volevo arrivare senz’essere veduto. Eh, sì! Quando fui a pochi passi dal villino, la finestra della signora Emilia si aprì, ed ella sporse fuori il capo curiosa di vedere chi mai potesse arrivare a cavallo.

— Oh, lei, signor Claudio? — esclamò meravigliata.

— Buon giorno, — risposi, cercando di dissimulare il turbamento.

— Ha fatto una passeggiata troppo mattiniera.

— Stupenda, — risposi accostandomi, curioso d’osservarla da vicino. [p. 37 modifica]

Era nel più bel disordine, appena levata da letto. I capelli le scendevano arruffati sul collo; una leggiera sciarpa a strisce di più colori le copriva le spalle e le braccia, lasciando scorgere gli smerli della camicia ampiamente scollata in giù della gola; la pelle del volto era ancora quasi madida del calore delle coltri. Ella accostava la sciarpa alla vita, con atteggiamento che voleva esser pudico e riusciva procace. Le braccia, sfuggenti ignude dalle corte maniche della camicia, reggevano a stento le vesti tirate su in fretta, cadenti da ogni parte con voluttuoso abbandono, e le davano l’aria di persona uscita allora allora dalla stretta di lunghi abbracci, con l’ambrosia sulle labbra dei baci dati e ricevuti.

A quella vista ebbi abbagliamenti e vertigini. La casta e malinconica figura di Jela, offuscata dagli splendori di quell’apparizione sfolgorante, non trovò più forza di farsi scorgere dalle mie pupille intorbidate.

— Stupenda, — ripetei, senza proprio sapere quel che mi dicessi, divorando cogli occhi quel corpo semivestito, a cui la febbre della mia immaginazione levava d’attorno ogni velo.

— A rivederci, — ella disse, arrossendo di scorgersi così avidamente guardata.

E con movimento di gazzella impaurita chiuse le imposte, salutandomi con un grazioso sorriso e un inchino del capo.

Era sparita. Io però, rimasto immobile, la vedevo tuttavia nettamente dietro i vetri, quasi le vibrazioni luminose prodotte dal suo corpo fossero rimaste impresse lì e ve ne mantenessero l’apparenza. [p. 38 modifica]

Ero già pentito di essere tornato addietro. Mi vedevo sull’orlo dell’abisso e sentivo il terribile fascino delle profondità: una lieve spinta, e cascavo nel vuoto.

Brividi mi correvano per la persona. Oh, quel Paolo benedetto!

E Jela, il mio gentile ideale?

M’ingegnavo di persuadermi ingenuamente che ella avesse bisogno di questa specie di nuova incarnazione per diventare completa; creatura affatto spirituale, prendendo da Emilia le agili dovizie della forma, sarebbe però rimasta sempre la mia Jela.

Futili sottigliezze del cuore che non voleva confessare la propria debolezza; artifizi della coscienza che non aveva il coraggio di accettare la sua colpa apertamente e dire per scusarsi: è irresistibile!

La giornata era calda; l’estate batteva all’uscio.

I raggi del sole insinuavano nel corpo lassezze piacevolissime, quasi di sonno. Le farfalle erravano turbinose di qua e di là; le mosche volavano insistenti attorno con ronzio prolungato, vero adagio musicale di ninna-nanna, che cullava i sensi e li legava col suo torpore. A ogni mover di passo fra le erbe e i fiori, migliaia di insetti si levavano a volo e tornavano quasi sùbito a rannicchiarsi all’ombra delle foglie e dei calici per ripararsi dal sole.

Appoggiata al mio braccio, Emilia ora percoteva colla punta del piedino i cespugli fioriti, ora allungava la sua canna da pesca per disturbare gli amori degli insetti nel letto dorato delle pratoline; e intanto canticchiava parole inintelligibili, dondolando lievemente la testa.

La spiaggia formava un seno scavato nella costa [p. 39 modifica]dal continuo rodere dell’onda. Il letto di sassi lisci, arrotondati, e di varii colori, era circondato dalla curva costa all’altezza di due metri; vi si scendeva per una rozza scalinata, che non accusava certamente la mano dell’uomo.

— Vedrà che magnifica pesca, — ella disse, adagiandosi su un sasso da me preparatole per sedile.

— I pesci, — risposi ridendo, — saranno lietissimi d’esser pescati da mano così gentile!

E, inescato il suo amo, lanciai il filo in mare.

L’onda ci lambiva i piedi; la dighetta dei sassi ne limitava la stesa. Nelle fonticine formate fra sasso e sasso dagli spruzzi dell’acqua e dai meati della diga, si vedevano correre i gamberetti marini sul fondo arenoso; le patelle solitarie se ne stavano aggrappate ai sassi col guscio grigio che si scorgeva appena; l’olio di mare agitava le sue filamenta a seconda delle ondate, inarcandosi per assorbire dai muschi impercettibili prede.

Dopo aver dato un po’ la caccia ai gamberelli marini e alle patelle, inescai alla mia volta l’amo e mi sedei sui ciottoli, accanto alla donna.

Atmosfera pesante ed immobile. Silenzio greve intorno. L’acqua che veniva a scherzarci ai piedi, aveva mormorii voluttuosi di sirena, mormorii seduttori. Nessuno dei due diceva una parola. Quella solitudine si faceva complice dei nostri segreti pensieri; pareva che una corrente magnetica ci tenesse in comunicazione e rivelasse all’una i più riposti movimenti del cuore dell’altro.

Ella aveva lasciato abbandonatamente cadere la mano destra poco discosto dalla mia testa. Sedevo più basso di lei e rimasi alcuni minuti a guardarla come un goloso, con l’acquolina in bocca. Piccola, dalla pelle fine e lucente, dalle ugne color di rosa, sfiorarla con la guancia e le labbra divenne tentazione insistente. [p. 40 modifica]

Mi spingevo in là senza parere, quando l’improvviso scostarsi di alcuni ciottoli sui quali poggiavo il gomito accelerò il movimento, e la mia guancia si posò su la mano di lei... che non si mosse!

Allora non mi mossi nemmeno io. Cominciai ad accarezzargliela con tenere pressioni, che mi facevano gustare tutta la delicatezza della pelle. Avevo già perduto ogni conoscenza di me stesso.

Alzai gli occhi. Ella, avvertito forse quel movimento, chinava in quel punto il viso dalla mia parte, con le labbra semiaperte al sorriso quasi ebete che rivela il venir meno della persona per eccessiva commozione, con le pupille lampeggianti di sensualità.

— Claudio!... Claudio!... disse dolcemente, languidamente.

Ero già levato sui ginocchi e la stringevo tra le braccia, soffocandola dai baci.

Fu un minuto.

— Fortuna che nessuno ci abbia visti! — esclamò Emilia quando, rientrato quasi repentinamente in me, le sciolsi le braccia dal collo.

E rise, con un riso allegro, sonoro, che in quel punto mi parve tristamente triviale. Non c’era in esso nessun’eco della profonda commozione, che doveva agitarle tutto il corpo, ma contentezza, appagamento, scoppio di sodisfazione volgare....

Avrei preferito che quella pigra ondata del mare, morente sui sassi, si fosse a un tratto levata su sdegnosa e mi avesse travolto e annegato; avrei preferito che, mentre ricercavo avidamente la sua bocca e la stringevo al mio petto, Paolo fosse comparso all’improvviso sul ciglio della spiaggia e mi avesse fulminato con una parola, o mi si fosse slanciato addosso con furore di amico e di amante tradito. Niente! L’onda continuava il monotono mormorio; il silenzio [p. 41 modifica]meridiano incombeva attorno non turbato nemmeno dal ronzio d’un insetto.

Ella non capì quel che avveniva dentro di me.

— Fa troppo caldo, — disse.

— Fa troppo caldo, — ripetei.

E raccolte le canne da pesca, le porsi la mano per aiutarla a montare la rozza scalinata.

Giungemmo a casa senza scambiare una parola.

Avevo il cuore grosso.

Che nottataccia!

Al cader della sera mi si erano ridestate più violente nel cuore le bufere della giornata. Smaniavo, mi strappavo i capelli.

— Perchè non spingevo quell’uscio? Perchè non entravo all’improvviso?

Verso le due dopo la mezzanotte il mio delirio giunse al colmo. Mi tolsi le pantofole e, a piedi scalzi, trattenendo il respiro, traversai il salottino e la stanza, che dividevano la mia dalla sua camera.

Origliai un pezzo all’uscio per persuadermi se Emilia era sveglia. Grattai leggermente l’uscio; nessun movimento. Dal buco della serratura vedevo la lampada agonizzante sul tavolino accanto al letto; da piedi scorgevo le sottane e il corpetto buttati disordinatamente sopra una seggiola e un po’ strascicanti per terra. Che malìa in quelle ombre!

Ritornai vergognoso e disilluso in camera mia, e molto tardi cedetti al sonno.

Chi mi svegliò la mattina dopo? La voce di Paolo. Era arrivato senza avvisarci.

— Poltrone, — urlava dietro all’uscio. — Dormire fino alle dieci, in campagna!... [p. 42 modifica]

Sei giunto a proposito — gli dissi dopo la colazione. — Ero sul punto di andar via senza più aspettarti.

— Otto giorni di maledetta febbre, altri quattro di prigionia, di riposo in casa per ordine del medico. Un’eternità! Che smanie! Ora mi rifarò del tempo perduto....

Egli rideva, mentre io dovevo apparirgli pallido come un morto. Ripetei:

— Ero sul punto di andar via.

— No. Rimarrai un paio di giorni, ora che ci sono io.... — rispose Paolo.

— Impossibile!

Non sapeva darsene pace. La signora Emilia aggiungeva anche lei qualche parola, ma non insistente e calorosa.

Avevo appena la forza di guardar Paolo in faccia; la sua schietta cordialità mi feriva il cuore. Fui fermo.

Verso le cinque di sera, sul punto di montare a cavallo:

— Senti, — egli mi disse, — sono in collera. Non ti accompagnerò nemmeno fino al limite dell’ex-feudo.

Infatti rimase su la terrazza.

Poi, volgendosi alla signora Emilia che, ritta in mezzo alla spianata, a pochi passi da me, mi guardava con occhi sdegnosi e turbati:

— Pregalo tu, — soggiunse. — Forse l’insistenza di una signora lo piegherà.

La signora Emilia si accostò, guardandomi fisso negli occhi; e con accento represso e vibrato mormorò, impallidendo: [p. 43 modifica]

— Perchè mi fuggi?

Si morse le labbra.

— Ma se rimango — risposi a bassa voce anch’io, — commetteremmo un’infamia.

— Che scrupoli! Ormai!... — brontolò con inesprimibile mossa di sdegno, voltandomi bruscamente le spalle.

Quelle triste parole mi resero la mia coscienza di uomo e la mia fierezza di carattere.

Salutai, montai a cavallo, e mi rivolsi indietro soltanto per rispondere a un ultimo addio di Paolo.

La serata era calma, splendida di tutte le glorie del vicino tramonto. Di mano in mano che mi allontanavo dalla Marza, mi pareva che il cielo si vestisse gradatamente d’un sorriso più bello, e che su quella profonda limpidezza, oh gioia! tornasse ad apparire la soave figura della mia Jela, casta e pietosa come prima, sorridente di perdono.

E quando comparvero le prime stelle, mi sembrò, proprio, che i limpidi occhi di Jela si affacciassero di lassù per un commovente saluto.