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Ci rimettemmo in viaggio prima dell’alba.

Ella scese le scale in fretta, con mosse da freddolosa, e appena entrata in vettura:

— Vorrei essere già arrivata! — esclamò con accento di grande stanchezza.

La carrozza partì di galoppo, accompagnata da una musica di sonagli, di schiocchi di frusta e di chè! chè! del cocchiere.

Avevo dormito poco, interrottamente, e mi ero svegliato di malumore. Mi sentivo oppresso da uno di quegli inesplicabili sentimenti che non lasciano distinguere se un malessere fisico ne produca in quel punto uno morale, o se un patema d’animo agisca sui centri nervosi, li contragga e li faccia soffrire.

Mentre il piede destro batteva con colpettini irrequieti il fondo zincato della vettura, gli occhi fissavano, macchinalmente, a traverso i vetri, la tinta quasi uniforme delle cose in quell’ora mattutina, e l’immaginazione vi gettava, a intervalli, visioni ridenti come sprazzi di luce: un angolo di paesaggio illuminato dal sole; una stanzetta ben nota; una testina di donna che non giungevo a ravvisare; un tramonto, veduto non ricordavo più quando, una pianticina fiorita, un muro coperto di screpolature bizzarre; e cento altre immagini che si delineavano rapidamente su quel fondo grigio, come per istantaneo aprirsi e chiudersi di una lanterna magica; ed io continuavo, tra sonno e veglia, a fantasticare senza occuparmi d’intendere quali attinenze corressero fra quelle apparizioni disparate e il mio improvviso malumore.... Forse avevo nel cuore una segreta paura d’intenderle.