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Scrissi una letterina e la posai sul tavolino, in modo che dèsse sùbito nell’occhio. Mi levai prima dell’alba. La mia stanza aveva una finestra molto bassa, che rispondeva sulla terrazza; apersi l’imposta con cautela, scavalcai senza stento il davanzale e mi avviai in fretta verso la stalla.
Il contadino, che custodiva le cavalcature messe a mia disposizione dal fittaiuolo dell’ex-feudo, dormiva vestito su la ticchiena, specie di letto murato. Lo svegliai, lo aiutai a sellare una giumenta e presi la carreggiata.
Contavo di recarmi a Spaccaforno, confidare il mio caso a un vecchio e fido amico e pregarlo di andare, per qualche paio di giorni, a tener compagnia alla signora. Paolo aveva già scritto che fra due settimane sarebbe arrivato. Quell’amico era uomo serio, discretissimo. Da giovane, doveva essere stato molto galante; conservava tuttavia il motto arguto e l’aneddoto gaio a dispetto dei suoi acciacchi, nei quali la galanteria della giovinezza entrava forse per qualche cosa. La signora non si sarebbe certamente annoiata con quel vecchietto, che pareva avesse concentrato tutta la vita negli occhi. E se si fosse anche annoiata? A me premeva soltanto di evitare il pericolo.
La giumenta andava lentamente; chi badava a spronarla? Ero troppo assorto nei miei pensieri. Avevo dispetto di commettere la viltà di quella fuga, e tentavo di trovare in fondo al cuore la dose di fortezza sufficiente a guarentirmi; ma non la trovavo.
Ero ridicolo. Cento altri al mio posto non avrebbero avuto tanti scrupoli. Io stesso, se non ci fosse stata di mezzo la rassomiglianza con Jela, sarei poi rimasto così virtuoso? Non dicevo nè sì nè no, ma sorridevo sarcasticamente; mi sbeffavo da me.
La giumenta rallentava il passo, si fermava a