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Ero già pentito di essere tornato addietro. Mi vedevo sull’orlo dell’abisso e sentivo il terribile fascino delle profondità: una lieve spinta, e cascavo nel vuoto.
Brividi mi correvano per la persona. Oh, quel Paolo benedetto!
E Jela, il mio gentile ideale?
M’ingegnavo di persuadermi ingenuamente che ella avesse bisogno di questa specie di nuova incarnazione per diventare completa; creatura affatto spirituale, prendendo da Emilia le agili dovizie della forma, sarebbe però rimasta sempre la mia Jela.
Futili sottigliezze del cuore che non voleva confessare la propria debolezza; artifizi della coscienza che non aveva il coraggio di accettare la sua colpa apertamente e dire per scusarsi: è irresistibile!
La giornata era calda; l’estate batteva all’uscio.
I raggi del sole insinuavano nel corpo lassezze piacevolissime, quasi di sonno. Le farfalle erravano turbinose di qua e di là; le mosche volavano insistenti attorno con ronzio prolungato, vero adagio musicale di ninna-nanna, che cullava i sensi e li legava col suo torpore. A ogni mover di passo fra le erbe e i fiori, migliaia di insetti si levavano a volo e tornavano quasi sùbito a rannicchiarsi all’ombra delle foglie e dei calici per ripararsi dal sole.
Appoggiata al mio braccio, Emilia ora percoteva colla punta del piedino i cespugli fioriti, ora allungava la sua canna da pesca per disturbare gli amori degli insetti nel letto dorato delle pratoline; e intanto canticchiava parole inintelligibili, dondolando lievemente la testa.
La spiaggia formava un seno scavato nella costa