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meridiano incombeva attorno non turbato nemmeno dal ronzio d’un insetto.

Ella non capì quel che avveniva dentro di me.

— Fa troppo caldo, — disse.

— Fa troppo caldo, — ripetei.

E raccolte le canne da pesca, le porsi la mano per aiutarla a montare la rozza scalinata.

Giungemmo a casa senza scambiare una parola.

Avevo il cuore grosso.

Che nottataccia!

Al cader della sera mi si erano ridestate più violente nel cuore le bufere della giornata. Smaniavo, mi strappavo i capelli.

— Perchè non spingevo quell’uscio? Perchè non entravo all’improvviso?

Verso le due dopo la mezzanotte il mio delirio giunse al colmo. Mi tolsi le pantofole e, a piedi scalzi, trattenendo il respiro, traversai il salottino e la stanza, che dividevano la mia dalla sua camera.

Origliai un pezzo all’uscio per persuadermi se Emilia era sveglia. Grattai leggermente l’uscio; nessun movimento. Dal buco della serratura vedevo la lampada agonizzante sul tavolino accanto al letto; da piedi scorgevo le sottane e il corpetto buttati disordinatamente sopra una seggiola e un po’ strascicanti per terra. Che malìa in quelle ombre!

Ritornai vergognoso e disilluso in camera mia, e molto tardi cedetti al sonno.

Chi mi svegliò la mattina dopo? La voce di Paolo. Era arrivato senza avvisarci.

— Poltrone, — urlava dietro all’uscio. — Dormire fino alle dieci, in campagna!...