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Era nel più bel disordine, appena levata da letto. I capelli le scendevano arruffati sul collo; una leggiera sciarpa a strisce di più colori le copriva le spalle e le braccia, lasciando scorgere gli smerli della camicia ampiamente scollata in giù della gola; la pelle del volto era ancora quasi madida del calore delle coltri. Ella accostava la sciarpa alla vita, con atteggiamento che voleva esser pudico e riusciva procace. Le braccia, sfuggenti ignude dalle corte maniche della camicia, reggevano a stento le vesti tirate su in fretta, cadenti da ogni parte con voluttuoso abbandono, e le davano l’aria di persona uscita allora allora dalla stretta di lunghi abbracci, con l’ambrosia sulle labbra dei baci dati e ricevuti.

A quella vista ebbi abbagliamenti e vertigini. La casta e malinconica figura di Jela, offuscata dagli splendori di quell’apparizione sfolgorante, non trovò più forza di farsi scorgere dalle mie pupille intorbidate.

— Stupenda, — ripetei, senza proprio sapere quel che mi dicessi, divorando cogli occhi quel corpo semivestito, a cui la febbre della mia immaginazione levava d’attorno ogni velo.

— A rivederci, — ella disse, arrossendo di scorgersi così avidamente guardata.

E con movimento di gazzella impaurita chiuse le imposte, salutandomi con un grazioso sorriso e un inchino del capo.

Era sparita. Io però, rimasto immobile, la vedevo tuttavia nettamente dietro i vetri, quasi le vibrazioni luminose prodotte dal suo corpo fossero rimaste impresse lì e ve ne mantenessero l’apparenza.