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messo il piede nell’orto, mi ero anzi inoltrato sino a mezzo viale, ed ero tornato sùbito indietro per paura di commettere un’imprudenza. Un lume apparve finalmente dietro i cristalli di una finestra e sparì. Aguzzai gli occhi nel buio: due ombre si disegnarono sul bigio della facciata del villino, poi sulla striscia del viale.
— Affrettiamoci, — disse la signora con voce soffocata.
— Mi dia la mano, — risposi. — Il cavallo è dei più tranquilli.
E l’aiutavo a montare in sella, mentre il mio servitore, piegato un ginocchio a terra, le presentava l’altro per servirle da gradino.
Ella saltò leggera, come persona abituata a cavalcare. Lo stradone correva dritto fra due siepi di fichi d’India. Lo scalpitío monotono delle ugne ferrate era il solo rumore che si confondeva coi sibili acuti del vento.
A un’ora dopo la mezzanotte, l’aria pungeva, quantunque fosse di primavera.
Stavamo tutti zitti; già, con quel vento era impossibile parlare. Ella tossicchiava di quando in quando e fermava un pochino il cavallo; poi riprendeva il trotto. Uno dei miei contadini e la cameriera ci seguivano a breve distanza. Il mio servitore e un altro contadino venivano dietro, a cento passi, per avvertirci di galoppo se fossimo stati inseguiti.
In quella stessa ora Paolo ballava allegramente da un parente di lei per allontanare qualunque sospetto.