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della signora Emilia con Jela era così grande; il sentimento (perchè non dirlo?) che colei mi ispirava era un così vivo riflesso del ricordo di questa, da non darmi il coraggio di giustificarne ai miei occhi neppure la possibilità.

Mi limitavo a concedere che non era poi gran delitto riamare Jela in quel suo ritratto vivente; riamarla con la stessa semplicità di cuore, e la stessa purezza dei miei sedici anni. Mi sembrava anzi che il culto del mio spirito per lei si sarebbe rinfocolato meglio al contatto di quella realtà; una seconda giovinezza mi sarebbe rifiorita nel cuore.

La signora Emilia era troppo esperta della vita da non comprendere quel che avveniva nel mio interno. Se ne compiaceva, si divertiva: veniva, alla sua volta, allettata dalla stranezza del caso e dall’amor proprio così fortemente lusingato.

E Paolo? E la fuga? E il loro amore?

Ahimè! Niente è più vero del triste proverbio: Gli assenti hanno torto.

Già ella forse non si accorgeva di venir meno al suo dovere: forse, al pari di me, e lottava e cedeva e transigeva.... Chi lo sa? Forse anche provava, contro quell’incognita amata, gelosie di rivale.

Non sapeva perdonarle di venire fin lì ad invasarmi il cuore e a contrastarle fin quel meschino tributo di simpatia, che la donna più onesta è lieta di ricevere come buffo d’incenso alla propria bellezza o alla propria bontà!

E voleva vendicarsene, voleva umiliare la povera rivale con la stessissima arma della rassomiglianza, con cui ella era venuta ad assalirla nel suo breve regno.

Spesso le intravedevo negli occhi qualcosa di più; una sfida, una rabbia di provarmi che non soltanto