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datamente per la spianata coperta di erbe selvatiche e di stelline gialle e bianche tremolanti sui loro lunghissimi steli, poi si fermò davanti una statuetta greca, che giaceva ancora nel posto dove era stata scavata.
— Ha letto, — mi domandò con tranquillo tono di voce — la iscrizione che orna i lembi del pallio di questa dea?
Seguivo con occhio turbato i movimenti di lei. Avevo sùbito compreso il significato della brusca interruzione, e della simulata indifferenza, e mi sentivo venir meno la forza di fingere di non aver capito.
Senza un ultimo fievolissimo rimprovero della coscienza, mi sarei precipitato a buttarmele ai piedi per baciarle furiosamente le mani e dirle le cose insensate che già mi gorgogliavano in gola.
Quella domanda mi calmò.
— L’iscrizione è monca, — risposi. — Dice: A Hera, la sacerdotessa, (il nome è illegibile) nella festa di marzo.
— Povera dea! — esclamò, quasi non sapesse che dire.
A me intanto parve avesse voluto sottintendere:
— Povera Jela!
E mi sentii stringere il cuore.
⁂
Nella nottata presi un’energica risoluzione. Se per poco cedevo a quella tempesta di sensi scoppiatami così improvvisamente nel petto, insieme col culto ideale di Jela, sarebbero naufragate e la mia dignità di uomo, e la mia lealtà di amico. Decisi di fuggire all’insaputa di Emilia, perchè ero certo che in sua presenza non avrei più posto in atto quell’urgentissima risoluzione.