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Pur troppo era vero!
La signora Emilia mi aveva rapidamente svegliato nel cuore tutti gli ardori dei miei sedici anni e con la stessa freschezza d’una volta. No, non vivevo insieme con lei alla Marza, ma con la mia Jela evocata da misteriosa potenza, che soltanto ne aveva alterato alquanto i lineamenti e le gracili forme. Capivo benissimo però che, oltre quei sentimenti, se n’erano sviluppati dei nuovi, collegati con quegli altri quasi per completarli; temevo appunto di questi.
Alcune parole, alcune frasi della signora Emilia, mi turbavano da qualche giorno in modo incredibile. Certe occhiate, certi sorrisi, certe inflessioni della voce che più vivamente riflettevano o rammentavano, anche da lontano, le occhiate, i sorrisi, le inflessioni della voce di Jela, mi davano scosse, tremiti, languori, che talvolta arrivavano fino a spossarmi. Ed io soffrivo di questo sovrapporsi di lei, di questo suo impertinente sostituirsi alla cara immagine, che formava da tanti anni il culto più sacro della mia vita.
Soffrivo, ma non resistevo, non reagivo; mi lasciavo sopraffare. Provavo qualcosa di simile a quelle tiepide correnti sottomarine delle quali parlano i pescatori di corallo, che intorpidiscono nelle mute profondità delle acque il sentimento della vita e fanno assaporare la morte quasi delizia ineffabile. Sentivo che ormai quel fascino mi avviluppava in modo da non poterne più vincere la malefica azione.
— E dopo? — mi domandai una sera indignato, piantandomi di rimpetto a la mia ombra proiettata dal lume sul muro bianco della stanza.
E siccome l’ombra non rispondeva:
— Sei un vile! — dissi a quell’altro me stesso che vedevo coll’immaginazione confuso ed abbiosciato là davanti.