Appunti sul metodo della Divina Commedia/Arte classica e arte decadente
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ARTE CLASSICA
E ARTE DECADENTE ARTE
CLASSICA
E ARTE DE-
CADENTE
Noi viviamo in tempi in cui la confusione dell’arte non è minore della confusione politica, vale a dire ha raggiunto il suo ultimo stadio, è come un tisico di terzo grado. La prima cosa che ci colpisce quando osserviamo con occhio imparziale gli scontorcimenti di questa moribonda arte moderna, è la scomparsa dei limiti fra le diverse arti particolari. Non soltanto, per esempio, nella letteratura — in cui i romanzieri fanno del teatro come se fosse un romanzo, i poeti scrivono romanzi come prima componevano liriche, e ci sono dei filosofi che canonizzano in sistemi queste aberrazioni — ma in un campo più vasto possiamo vedere la pittura che si insinua pian piano fra le note musicali e la poesia che vuol sostituirsi alla pittura, la quale ha spesso la pretesa di essere poesia. Il Caylus che Lessing prende in giro nel Laocoonte giudicava un poeta buono o cattivo secondo che dalle sue opere si potevano trarre molti o pochi quadri pittorici. Noi non siamo ben lontani da questo principio. Ci sono molti scrittori, che senza formulare una teoria spendono tutta la loro attività descrivendo con la penna come pittori raffigurerebbero coi pennelli. Il Lessing pone con molto acume i limiti fra le due arti, scegliendo due episodi dell’Iliade: Pandaro che scaglia la freccia e il consenso degli Dei. E dice: «Sebbene ambedue gli argomenti, essendo visibili, si prestino ugualmente alla pittura propriamente detta, c’è nondimeno fra loro questa differenza sostanziale, che il primo è un’azione visibile progressiva, le cui varie parti si succedono a poco a poco in un periodo di tempo; il secondo invece è un’azione visibile permanente, le cui varie parti si svolgono l’una accanto all’altra nello spazio. Ora, se la pittura, pei suoi caratteri e pei suoi mezzi d’imitazione che può unire soltanto nello spazio, deve in tutto rinunziare al tempo, le azioni progressive, in quanto progressive, non appartengono ai suoi argomenti, ma essa deve accontentarsi delle azioni coesistenti e di soli corpi che facciano supporre dai loro atteggiamenti un’azione». Questi limiti, che mi paiono definiti molto ragionevolmente, non sono mai stati meno osservati. Ne dovremo riparlare un po’ più in là con maggiore diffusione. Ma un altro difetto grave della nostra epoca è l’assoluta mancanza di una regola per giudicare il bello e il brutto. I principî su cui si basa l’estetica moderna variano coi quarti della luna. E sono tutti ferocemente assoluti e particolari, con la pretesa di essere universali. La stessa opera è giudicata bella con un metro, e brutta con un altro metro. E questa civiltà, che per misurare le stoffe è riuscita a stabilire il sistema metrico decimale unico per tutto il mondo, al posto delle innumerevoli misure del tempo antico, è anche riuscita a stabilire innumerevoli misure, al posto dell’antioo e unico metro, quando si trattava del bello e del brutto.
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Ho udito taluni, senza capirli, sostenere che un artista è isolato nel suo mondo, e che non rappresenta una continuazione, uno sviluppo (o una reazione, e anche qui c’è parentela) di tendenze anteriori, ma un’isola a sè, separata dalle altre infinite, uno di quei punti geometrici, isolato dagli altri punti per quella soluzione di continuità, che impediva ad Achille di raggiungere la tartaruga, e permette a una freccia di essere nello stesso tempo in riposo ed in moto.
Da questo postulato risulta chiara l’origine della nostra «storia dell’arte», immaginata come un museo, di cui lo storico è il direttore. Questa scuola si fonda tutta sulle teorie Morelliane, per le quali non importa conoscere nè l’epoca in cui fiorì l’artista, nè la sua mentalità, nè il suo spirito; non bisogna cercare la luce scaturita da tutte le sue opere osservate tutte insieme, ma bisogna «aderire» all’opera d’arte, come a qualche cosa di assoluto, di aereolitico, capitato giù dall’infinito senza ritrovabile paternità. Perchè, come non v′ha una linea che unisce gli artisti attraverso ai secoli, così non v’ha nemmeno — logicamente — una linea che unisca le opere varie di un artista dalla giovinezza al tramonto. L’opera di un artista è dunque una moltitudine di unità discrete, che stanno l’una all’altra come i sopracitati punti di Zenone eleatieo; la storia dell’arte non è che la critica (o adesione) alle successive discrete unità artistiche, ordinate come in un immenso catalogo. E gli storici, dopo questo gigantesco polverizzamento, si divertono a raccogliere e a incorniciare tutti i granelli di polvere, ingenuamente inginocchiati a contare nella infinità del Sahara...
Ma qui si cade in una contraddizione. Come si fa a parlare di «personalità» di un artista, se si deve soltanto «aderire» all’opera d’arte, individuata e avulsa dal suo creatore? Per ri trovare una «personalità» artistica, bisogna fare quel lavoro di sintesi che riunisce tutte le opere insieme, trovare un filo, dei punti di contatto, delle trasformazioni, delle evoluzioni, e da queste comparazioni fra le varie opere di un autore, e anche fra le opere di un autore e quelle degli altri, scoprire i caratteri comuni di tutte le unità e il fondo sostanziale di chi le ha create. Allora le opere non sono più separate, ed è costrutto il ponte che unisce l’isola all’isola.
Non basta: considerando un artista rispetto al suo secolo, come un’opera rispetto a tutta l’attività del suo creatore, anche la storia dell’arte di quel secolo, trovandosi dinanzi a tanti artisti, cioè a tante unità, dovrà riunirli insieme, come riunì già le varie opere di uno solo. Allora nuovi ponti sono creati anche in questo più vasto arcipelago.
E pure, nonostante i sofismi più o meno logicamente dimostrati che qui osiamo confutare» nessuno può negare l’esistenza di una linea e di uno sviluppo della storia dell’arte, per cui, gradualmente e passo per passo possiamo seguire la trasformazione di una tavola, dai Bizantini della seconda fioritura, a Giotto, ai quattrocentisti, alla Rinascenza di Raffaello, in modo che Raffaello risulta l’ultimo erede di tante così diverse generazioni. Sarà forse dell’evoluzionismo: io non so bene che cosa s’intenda con questa parola, in arte. Certo è una trasformazione continua che dirige l’arte verso la perfezione o verso il caos. Ma i critici vollero salvare le teorie, affermando che in arte conta soltanto lo spirito, e che l’esperienza e la tecnica non hanno valore; onde una tavola bizantineggiante del ’200 potrebbe essere «bella» come una tavola di Leonardo. E’ anche questa una teoria talmente penetrata nella folla stessa dei dilettanti, che si può chiamare «stato d’animo», e tutti l’adoprano a troncare ogni discorso d’arte, nel quale capiti di formulare un giudizio.
Eppure (vien di rispondere) voi non potete affermare che la tavola bizantina sia «bella» come quella di Leonardo, perchè la qualifica «bella» è stata da voi stessi convenientemente sotterrata. Per voi, il bello e il brutto non devono esistere più. Conta soltanto lo spirito dell’opera. Ma chi riesce a misurar lo spirito? Con che diritto riusciamo a dire che lo spirito della tavola bizantineggiante è... — non trovo l’aggettivo — «bello»? No: «uguale» a quello di Leonardo? Che s’intende dire per «uguale»? Siamo costretti a servirci di formule senza senso, per non adoperare l’aggettivo «bello». Infatti, lo «spirito», di cui si discorre, si rivela in forma misurabile e giudicabile, solo esprimendosi nella forma. Consideriamo qui soltanto le arti plastiche. Come si può distinguere lo spirito dell’opera dalla forma che l’esprime? Come si può dire che lo spirito è geniale e la forma imperfetta? Che differenza c’è fra anima e stile? Ma con questo sistema potremmo giudicare qualsiasi crosta (come suol dirsi) un capolavoro. Potremo, tutt’al più, asserire in certi casi, com’è quello di Giotto, che la perfezione negli elementi espressivi, ad esempio, è stata pienamente raggiunta; che però altri elementi hanno conservato la rudezza dei tempi, e che egli l’avrebbe certo affinata se fosse vissuto qualche secolo più tardi.
Ho toccato un tasto delicato. Ma voglio porre sùbito in chiaro che con questo non intendo affatto diminuire il genio di Giotto. Giotto, fenomeno quasi unico nella storia della pittura, ha creato dei maravigliosi capolavori — ma secondo alcuni punti di vista. Se taluno cerca nella pittura l’espressione compieta del sentimento e del dramma, troverà nel Giuda che abbraccia Cristo un’opera di intensità spaventosa. Se ricerca nell’arte la composizione sapiente della forma e l’armonia dei colori, dovrà inchinarsi commosso dinanzi alla Deposizione. Ma se altri vuole la rappresentazione della realtà, apprezzerà intimamente la pittura del Cinquecento. Con quale diritto possiamo noi dire a costui che il suo principio ha meno valore del nostro? La rappresentazione della realtà si è perfezionata a poco a poco, con una somma di esperienze successive, mentre l’espressione dei sentimenti e la composizione dei colori è arrivata al culmine, di colpo, con l’opera di Giotto. Anche tra i Pregiotteschi, si trovano opere che in questo senso hanno raggiunto una grande intensità. Non dicano dunque i critici che la tavola bizantineggiante è «bella», come quella di Leonardo, lasciando a questo aggettivo una equivoca imprecisione; ma dicano: quella tavola, che è arrivata alla stessa forza di espressione e di composizione, è dunque ugualmente bella, se per bella si intende l’opera che raggiunge questi scopi. Ma anche la tesi della rappresentazione naturale, la conquista della luce o dell’aria, non sono, benché oggi poco alla moda, disprezzabili. E perciò, secondo questa teoria, da Giotto al Settecento, c’è stata una evoluzione diretta verso il meglio.
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La tecnica non è, dunque, un elemento da buttar via con tanta disinvoltura. La tecnica si identifica con la forma, e non vedo come si possa trascurare la forma in un giudizio estetico.
Tanto più che, non solo in questo ultimo caso, ma anche nei due precedenti, la tecnica serve a esprimere con più grande perfezione le concezioni interiori dell’artista, per cui egli riesce a far veramente più belle, anche nel senso moderno, le opere d’arte.
La tecnica è la somma delle esperienze secolari. Negare il valore di queste esperienze vuol dire tagliare ancora quel filo, che, a dispetto di tutto, lega in mille maniere un’opera all’altra, un creatore a un altro creatore, un secolo a un altro secolo.
E’ facile dire che un quadro di Tiziano è bello, quando si rischia così poco in un giudizio estetico, certamente riconosciuto e ammesso dai più. Ma se un quadro è di autore ignoto, il problema si complica. Perchè è facile parlare di «pieghe», di «toni», di «tonalità», di «cromatismi», ma non è così facile capire se un quadro è bello o brutto, un capolavoro o una crosta, quando non c’è, nell’opinione da seguire o da combattere, nessuna guida sicura. Ben raramente si trova ora, in chi parla d’arte, il fremito della vera commozione artistica, quella luce interiore e quella beatitudine che fioriscono nel cuore di un critico, quando scopre in un’opera la linea indovinata, la risoluzione di un problema intimamente cercato da lungo tempo. L’ammirazione, anche sincera, è così il risultato di un ragionamento, non effetto della luce di un’intuizione.
Così, in questa fantastica confusione, vediamo i critici d’arte scagliarsi l’un l’altro sul capo il proprio principio, come si trattasse di un proiettile; definirsi a vicenda «idioti», «sorpassati», «senza gusto»; affermare a ogni minuto che gli altri non «capiscono niente», se non hanno appercepito con rapidità le variazioni prodotte dal vento della moda sulla regione dell’Arte, e credono ancora che il tale o tal’altro artista sia eccellente, mentre sarebbe ormai dimostrata la sua completa insufficienza. Ma i più, e questo è peggio, non onorano nessun principio, perchè vogliono possederli tutti. Benedetto sia chi crede in una idea e non consente a tutto quanto ne esorbita! Volendo capire tutto, i critici moderni si pigliano a pugni sopra un’opera, sostenendo che è una meraviglia o uno scarto; riescono a scovare delle croste, e ad additare, in esse, poiché capiscono tutto, l’impronta del genio, mentre riportano nel sottoscala i veri creatori, noiosi ormai per troppa fama...
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Una confusione simile si ritrova nell’arte del III° secolo dopo Cristo. Divampava allora la lotta fra il principio pagano e quello cristiano. Ma il Paganesimo politeista, l’ultimo sostegno dello stato crollante, era ormai vuoto di senso. E il Cristianesimo non si era ancora affermato.
Non c’era dunque un principio solido, in cui gli uomini potessero trovare un appoggio. E nei tempi di anarchia nasce negli uomini la sete e il disgusto di tutte le fedi. Strana contraddizione, che è il tormento delle civiltà moribonde, per cui l’uomo, cercando disperatamente qualcosa di solido e di certo, e volendolo universale ed illimitato, e quindi impossibile, finisce per non credere più in nulla o per credere con frenesia nella più temporale e limitata delle verità, convinto che sia l’eterna e la perfetta. Le lotte teologiche si ritrovano nell’arte e nella letteratura. Le nuove idee cercano di scalzare le antiche, le quali restano in piedi per forza d’inerzia. Il gusto delle classi governanti si pervertisce, perchè la miseria, causata dalle guerre e dalle rivoluzioni, ha impoverito l’antica aristocrazia romana, e sale a poco a poco al suo posto una classe di barbari arricchiti calati dalle più lontane province, che non hanno più nemmeno l’ombra della antica cultura. E diventano di moda le arti rozze ed appariscenti, violente e infantili. Quelle che son sempre piaciute ai barbari dell’età decadenti.
Se invece noi guardiamo l’arte del settecento, potremo trovarla fredda, leccata, antipatica, ma non disordinata. Un metro sicuro per misurare il bello c’era, e l’arte si trovava solidamente arginata fra le sassaie di quei princiî. Aveva un carattere uniforme ed un livello uguale e continuato. E così l’arte del cinquecento e del quattrocento. Che cosa è successo? Come siamo arrivati a quello stadio di convulsioni disperate? Come si possono definire questi due poli artistici?
Si dice con molta facilità, indicando in una biblioteca un volume, o in una galleria un quadro «il tale autore è romantico, o decadente o classico». Ci si trova generalmente d’accordo — cosa rara — . Questo vuol dire che quelle parole suscitano negli uomini di oggi dei sentimenti e delle impressioni comuni o almeno simili. Ma di rado qualcuno riesce a spiegare perchè definisce quell’opera come classica o romantica o decadente. Qui, generalmente, non ci si trova più d’accordo. I più sono persuasi che dire classico, sia come dire «compassato, freddo, artificioso», e romantico, «sentimentale, idillico, strano». Decadente poi li fa vagamente pensare a Mallarmé e a qualcosa che non si capisce.
Credo che saremo dunque d’accordo, quando io dico che l’Arte del settecento, del cinquecento e del quattrocento è un’arte classica. E forse anche quando dico che quella moderna è un’arte decadente. Ma intendiamoci:
Arte classica, per me, è quella che ha coscienza dei propri limiti. Fidia e Policleto, Virgilio, Manzoni e Beethoven, sono classici. E’ un’arte che si pone alcuni problemi, limitati, determina una zona e la chiude con muraglioni; poi cerca di risolvere quei problemi e di raggiungere la perfezione in quel piccolo campo, limitato, come ho detto, volontariamente. Da questa definizione derivano due altri elementi fondamentali dell’Arte classica.
1° Si ispira specialmente alla realtà esterna.
2° E’ un’arte costruttiva e quindi proporzionata.
Se l’Arte classica, infatti, ha coscienza dei propri limiti, vuol dire che è possibile misurarla e controllarla. E questo è lecito soltanto se si ispira e si fonda sulla realtà esterna all’artista, quella che è visibile a tutti. E' così naturalmente condotta all’obbiettività.
Per la stessa ragione tende alla costruzione. Il frammento — caratteristico delle civiltà decadenti — non esiste in una civiltà classica, perchè non ha nè principio nè fine, e sfugge ad ogni misura. Costruire vuol dire disporre le parti di un tutto in modo che stiano fra loro armonicamente — che siano cioè proporzionate — e in modo, che mancando una parte, il tutto debba crollare, e essere irriconoscibile.
Per queste ragioni ho messo fra gli esempi di artisti classici Manzoni, e ho pensato proprio ai Promessi Sposi, l’opera per cui è spesso posto con i Romantici. Gli è che talvolta la gente confonde il soggetto con la forma. Molti, inconsciamente, fanno questo ragionamento: siccome, nel secolo del Romanticismo, sono fioriti i Romanzi storici, le storie paurose, fantastiche e sentimentali, così le storie paurose e i romanzi storici sono il Romanticismo.
Se si determina un’arte per mezzo dei soggetti che può scegliere, la confusione aumenta in modo inquietante. Ma in questo caso la confusione è più grave. Avrete spesso sentito dire che la Divina Commedia è romantica. Infatti, in certo senso corrisponde bene alla qualifica di romantica, come si intende comunemente questo pericoloso aggettivo. Scene infernali, violente e dolcissime, contrasti, affermazioni del solito «io», linguaggio aspro e anche popolare, passione, ecc. Avrete sentito dire che Petrarca è un romantico, perchè c’è in lui la smania dell’introspezione. E che per la stessa ragione è un romantico S. Agostino. Ed è romantica la Bibbia, ed Euripide si contrappone al classico Eschilo (mi sono limitato ad esempi letterari per non fare confusione, ma questo vale per tutte le arti). E bisogna ammettere che, senza dubbio, queste opere hanno del sapore romantico. Ma, se noi pensiamo alla nostra definizione di Arte classica, bisogna anche ammettere che sono assolutamente classiche nella forma. E se paragoniamo la Divina Commedia al Faust, sentiamo benissimo che, nonostante le scene diaboliche, comuni a tutti e due, sono molto lontani l’uno dall’altra.
Ma che cosa è dunque il Romanticismo? Nessuno ve lo saprà dire chiaramente: ne sono state date le più contradditorie definizioni. E la ragione di questa incertezza e di queste contraddizioni è che si è sempre voluto contrapporre l’Arte Romantica all’Arte Classica, come se fossero due antagonisti, come se l’Arte Romantica fosse veramente un nuovo campione venuto da non si sa dove a sfidare l’ Arte Classica, come se fosse stata una Rivoluzione Francese di tutto l’antico sistema, mentre invece il Romanticismo è sempre esistito nell’utere stesso dell’Arte Classica, e figli segreti del Romanticismo sono molte opere dalle forme classiche.
Il classicismo si ispira alla realtà esterna, ma naturalmente in certi periodi assimila con più zelo una parte di questa realtà. E succede dopo qualche tempo la reazione di quelli che vogliono ispirarsi all’altra parte. Quasi sempre, siccome la tendenza classica è obbiettiva, quest’altra è soggettiva. Ma è una semplice reazione meccanica, che si riattacca a un filane di altre piccole reazioni, fino all’origine dell’arte. Diventa una rivoluzione seria, per dir così, solo quando si sviluppano i germi della decadenza, che porta spesso nella carne. La reazione alla forma di classicismo del Settecento si è chiamata Romanticismo. E’ stata una reazione violenta, grandiosa finché si vuole, ma è stata soltanto la reazione contro una parte, una forma, un aspetto particolare del Classicismo, non contro il Classicismo in sè e per sè. Tanto è vero che è ancora, senza volerlo, influenzata dai canoni dlassici. Il Romanticismo ha tanta coscienza dei propri limiti che vuole romperli a tutti i costi saltando, apposta, sul cavallo fatato di Eleonora, cercando di galoppare senza sapere dove. Ha tanta coscienza della costruzione, che cerca, apposta, di rovesciare i pilastri e le cariatidi, per vedere che effetto può dare un edificio rovinato; vuole essere, visibilmente, senza forma, senza proporzioni, senza coerenza armonica. E’ dunque un ribelle alla vecchia legge, ma non è fuori della legge, la sente ancora pesare, tanto è vero che protesta e si divincola.
Il Romanticismo, inteso in questo senso, può essere anche classico. Come si può non chiamare Romantica l’Arte che, cominciando a comparire nel IX secolo dopo Cristo, sboccia poi meravigliosamente nel Trecento? Quell’arte delicata e sensibile a tutto l’amore e a tutto il colore della vita, quell’arte che si avvince, tremando, alla terra, sua sorella, e respira con l’erba e con le zolle e prega Dio con gli ingenui anacoreti delle Tebaidi?
C’è, agli Uffizi, un quadro della Tebaide che doveva commuovere tutti i Romantici del milleottocentocinquanta. I buoni anacoreti sono dispersi intorno a un fiume, tagliato da ponti più corti del loro braccio disteso, solcato da velieri grandi come un sandalo slacciato. Si innalzano, sulle sommità di piccoli balzacci, le chiesette e le capanne che non sorpassano le loro spalle curve. E alcuni zappano, con una barba bianca più lunga del fiume, i piccoli orticelli annessi, ove ogni filo d’erba è diligentemente miniato. E altri pregano Dio, murati nella cella, e altri insegnano ai lupi le sacre scritture e conversan con pantere docili, e rimproverano le volpi perchè hanno strangolato un povero gallo, anch’egli fratello. E pare che il Cielo non possa mai essere meno azzurro, su quelle anime azzurre.
C’è tutta l’ingenuità, l’afflato idillico, il sentimento della natura, il misticismo che si poteva pretendere in un manifesto romantico. Eppure l’Arte del Trecento è la reazione dell’Arte classica contro quella bizantina, ossia contro l’Arte ellenistica, decadente, trapiantata con elementi orientali in Italia nel V secolo. E avviene nel trecento una rivoluzione simile a quella dell’ottocento.
Mi pare dunque di aver dimostrato che l’Arte romantica non si può definire con precisione, perchè è la trasformazione rivoluzionaria, e quindi sempre diversa, di un aspetto particolare dell’Arte classica. Ma questa reazione regionale, ho detto poco fa, può diventare una vera rivoluzione, quando si sviluppano i germi della decadenza, che porta spesso nella carne.
L’Arte decadente! Ecco il vero antagonista dell’Arte classica. Vediamo di riuscire a sviscerare anche questo termine difficile.
Quando parlavo delle confusioni e delle contraddizioni dell’Arte moderna, vi facevo il quadro rappresentativo di un’Arte decadente. Che significa questa mescolanza di teoriche sostanze diverse in una stessa coppa? La sovrapposizione della pittura alla musica, della letteratura alla pittura, della lirica al romanzo, del romanzo al teatro? Come se fossero secondo il verso Virgiliano «uva spremuta ed acqua dell’Acheloo» da mescersi nel tino? Che significa questa incertezza e questa moltitudine di principi fondamentali per cui ogni uomo ha una misura unica ed infallibile colla quale distinguere il bello dal brutto? Questa è, secondo me, la chiave deiranarchia: l’Arte decadente è quella che non ha coscienza dei propri limiti.
Da questa definizione, come dalla definizione di Arte classica, derivano due corollari perfettamente opposti ai due primi e cioè:
1°) Si ispira poco alla realtà esterna o cerca di trasformarla completamente.
2°) E’ un’arte frammentaria e quindi sproporzionata. La miglior maniera per non essere controllati dagli altri, è quella di ispirarsi ad una fonte invisibile e non conosciuta. Quindi ricerca di complicati interiori — i più complicati e malati — quelli che sono poi stati appunto chiamati decadenti.
Per le stesse ragioni, cioè per sfuggire alla misura, l’Arte decadente è molto spesso frammentaria. Il frammento è quella parte di un edificio, mancando il quale l’edificio crolla e che ha una ragione di essere solo in quanto è parte dell’edificio. Fuori del suo tutto non è più nulla. E non bisogna lasciarsi confondere dalla lunghezza e dalla grandezza. Ci può essere un frammento largo o grande, e un edificio breve o piccolo. Il frammento, essendo la parte di un tutto, non ha nè principio nè fine.
Se poi l’Arte decadente s’ispira alla realtà esterna, cerca sempre di operare la trasformazione della sua materia. La natura è filtrata attraverso una sensibilità eccezionalmente diversa. Questa sensibilità è talvolta particolare a un artista, molto spesso, nelle epoche di arte decadente, tutta una generazione sente e trasforma la realtà nello stesso modo. La trasformazione della natura si chiama comunemente «stilizzazione». Infatti la stilizzazione — altra parola adoperata spesso a sproposito — è una «maniera particolare di sentire la natura o anche — diciamo più largamente — la realtà esterna.
Un esempio di stilizzazione in grande è il Bizantinismo, fiorito in Italia specialmente nel V e VI secolo. Se guardiamo i mosaici di S. Apollinare nuovo, saremo colpiti da quelle due lunghe processioni di Martiri e Vergini, tutti simili nel vestito, nelle pieghe, nell’espressione trasognata del viso, che porgono tutti lo stesso oggetto e suscitano, come dice il Muller, l’impressione di cosa che non finisce mai, immutabile, eterna.
Ora il Bizantinismo, come si può facilmente dimostrare, è un’arte decadente, perchè è la derivazione dell’Arte Ellenistica, che era decadente. Gli uomini sono visti tutti nella stessa maniera, e di tutto l’uomo è considerata una parte sola; il vestito. Quelli non sono uomini coperti da un vestito, ma vestiti ripieni di uomo. Tutti gli occhi hanno la stessa espressione, tutte le pieghe sono simili. Non ho mai visto nessuna piega e nessuno sguardo così, nella realtà. Nel VII e VIII secolo, tutte le figure, portando agli ultimi limiti i principi dell’arte bizantina, diventano così stilizzate che in un evangelario anglo-sassone si trova scritto sopra un disegno IMAGO HOMINIS — per non fraintendere. Le stesse parti di una figura si trasformano in ornamentazioni calligrafiche. Le pieghe del S. Matteo — nel magnifico vangelo di Lindisfarne — sono rami e i capelli striscie nastriformi.
Ma l’Arte, stilizzandosi, perde a poco a poco il controllo della stessa realtà che ha trasformato, e può raggiungere gli estremi poli dell’incoerenza, applicando un principio apparentemente logico.
Ora, l’Arte decadente nuota in un mare senza boe. Ma ogni periodo decadente ha dinnanzi a sè, come littore e battistrada, un periodo in cui le boe vengono volontariamente affondate: il periodo che è stato chiamato Romanticismo, nell’ottocento: ma che, come abbiamo visto, si può ritrovare in tutti i secoli, sotto altri nomi. E in questo senso dicevo che il Romanticismo ha in sè i germi della decadenza. Se la volontà abolitrice delle regole e dei limiti si cambia in abitudine a non curarli, in ignoranza di quelle stesse regole e di quei limiti, allora l’Arte classica è divenuta Arte decadente. L’Arte decadente, quindi, segue sempre e non precede mai l’Arte classica. Mi si potrà dire: arte classica, arte decadente: ovo gallina, come si fa a sapere chi è nato prima?
Se noi osserviamo l’origine di qualunque arte ed in qualunque tempo, vediamo che gli uomini, appena hanno coscienza della vasta zona ove possono oprare, si affrettano a limitarla e a circoscriverla con ogni sorta di siepi, muraglie e fili spinosi. In letteratura, per esempio, nasce prima la poesia che la prosa, ossia nasce prima quella forma di espressione più strettamente regolata e misurata.
Nei bambini artisti — che sono un po’ come i popoli giovani — si sveglia prima il senso della poesia che quello della prosa. Nessuno scrittore di dieci anni debutta con una prosa, certo preferisce una contorta e anche sbagliata, ma certo rimata quartina. Questo che io vi ho detto sui limiti e sulle origini dell’Arte è dimostrato dalla storia della scultura greca.
Nei primi secoli i corpi erano rigidi, la sagoma del bacino e del petto si allargava geometricamente, le braccia si allungavano strette al corpo, la faccia era senza espressione, o con un sorriso legnoso. Anche nelle statue migliori dell’arte arcaica, come nel tirannicida Armodio, il busto «si dinteressa» dal movimento del corpo e rimane immobile. Questa immobilità del tronco continua poi nelle grandi epoche della scultura, salvo pochissime eccezioni. Che cosa si proponevano quegli artisti?
Guardando i bassorilievi del Partenone o del tempio di Olimpia si capisce subito che aspiravano soltanto alla perfezione plastica del corpo e all’idealizzamento, come lo chiamano i tedeschi, della figura.
Un critico tedesco, appunto, il Loewy, a proposito della non naturale bellezza di tutte le statue greche, al tempo di Pericle, e dell’aspetto composto che hanno non solo gli uomini, ma anche i cavalli — vedi, per esempio, il cavallo di Selene del frontone del Partenone — osserva che: «La natura crea soltanto individui. Se noi confrontiamo diversi esemplari del medesimo oggetto, come sarebbe un corpo vegetale, una foglia di platano, edera, vite, o una parte del corpo umano, un orecchio, un braccio, tra migliaia di esemplari non troveremo mai l’uguaglianza assoluta, vi saranno sempre differenze individuali. Eppure noi tutti abbiamo nella mente un’immagine ben determinata di queste forme: imagine che in certa misura corrisponde a ciascun oggetto reale, ma al tempo stesso se ne distingue. Le linee che chiudono l’immagine sono molto più semplici e regolari di quelle che delimitano l’oggetto. In una foglia di platano i lobi frastagliati e le nervature non si corrisponderanno mai con simmetria assoluta dai due lati; il contorno, anche nelle minute frazioni, presenterà sempre innumerevoli ondulazioni, e non mai una linea ferma e decisa. Ma la simmetria è perfetta e mancano le ondulazioni nella nostra imagine della foglia. La nostra mente ristabilisce la forma pura».
Questi dunque, erano i problemi di quell’arte, essenzialmente classica: raggiungere la verità della specie e la forma pura del corpo umano e quella rendere con la massima perfezione plastica. Difficile, ma ristretto e limitato il campo.
Giunta a quel punto di insuperabile perfezione in cui cominciava ad essere satura, dopo la trasformazione operata da Scopa e da Prassitele, che vollero esprimere sentimenti più intimi, l’Arte Greca fu rivoluzionata da Lisippo. Lisippo abbandonò le forme pure, ridonò al tronco la sua flessuosità, al dovere ed all’amore la loro espressione naturale. Da quel momento la scultura, rotte le barriere che gli antichi si erano costrutte, cerca di esprimere l’inesprimibile, pazza d’orgoglio, ebbra di libertà. E si prova a tutti i più difficili cimenti, e si crea le difficoltà per superarle, aspirando sempre a qualcosa di nuovo, di diverso, di strano. E si scatena il baccanale ellenistico, il periodo dei soggetti terribili, violenti, in cui la scultura cercò di esprimere tutte le passioni, tutti gli sforzi e tutti i desideri degli uomini.
Questa è ancora un’arte decadente, in tutta l’estensione del termine. Lo è già molto, e lo diventerà, come vedremo in seguito, sempre di più. Si potrebbe credere che l’Arte Ellenistica fosse un’arte realista. Ma questo non è vero: la natura è riprodotta qui più fantasticamente che nelle sculture del Partenone. Perchè è sempre filtrata attraverso uno stato d’animo d’eccezione. La realtà più serena e semplice è convertita qui in paurosa e violenta espressione di dolore, di rabbia, di sforzo. Tutte le vecchie sono grinzose come streghe, sdentate come una reclame di professore odontoiatra, che ha trovato una nuova e perfezionata dentiera. Fra tutte le azioni e tutti i drammi, la scelta cade sempre su quelli terribili. Pare che esistano soltanto guerrieri moribondi, omicidi e suicidi, lotte frenetiche, ove tutti i muscoli si tendono contemporaneamente in uno sforzo che ucciderebbe uomini meno robusti. Questa mi pare una stilizzazione della realtà, che non differisce da quell’altra stilizzazione dell’Arte Bizantina.
Ma perchè in tutte le arti succede sempre questo fenomeno? E come succede?
Uno scrittore moderno scriveva, dell’arte moderna, queste parole: «Noi possediamo un nuovo istinto: l’istinto del complesso. Afferriamo Tutto attraverso il complesso, mentre i passati coglievano Poco, attraverso il semplice». Questa è involontariamente e in termini complicati una prova di quello che poco fa vi dicevo, sui limiti nell’Arte Classica e Decadente.
E’ una illusione che gli uomini, dal principio dell’arte, continuano a farsi, senza stanchezza.
Pensiamo che se in quella prima zona ristretta e ben limitata sono riusciti a creare dei capolavori, uscendo in aperta campagna e prendendo tutta la piana invece di quel campicello, potranno fare dei capolavori altrettante volte più belli, quanti sono i metri quadrati della pianura rispetto a quelli della zona limitata.
Non so se mi sono spiegato chiaro. L’illusione dei decadenti è questa: «Se noi togliamo di mezzo i limiti, avremo tutto l’infinito dinnanzi a noi; potremo quindi creare delle opere infinitamente belle ed infinitamente varie». Questa spinta verso l’incommensurabile è prodotta dalla stanchezza del misurato. Ma i decadenti non pensano che se, come ho già detto, devon nuotare in un mare senza boe, non sapranno più dove vanno, né a che distanza sono dalla spiaggia, nè a che velocità corrono; non pensano che se quelle boe sono un impaccio, possono anche essere dei salvagenti, e che perdendo il sostegno di un principio e di un limite certo, potranno rimanere dentro i confini dell’Arte, ma potranno anche, con la stessa indifferenza, uscirne completamente e creare una cosa senza senso, invece che un’opera di Arte. Questo spiega come certi artisti decadenti mostrino, vicino a creazioni meravigliose, opere prive del minimo gusto estetico. Chi li frena? Lavorano a caso, e il caso o qualche volta l’istinto li guida.
E così succede che certi artisti decadenti rimangano grandi artisti e creino meravigliosamente: perchè, senza saperlo forse, si pongono certi limiti. Ma i discepoli ed i posteri non si possono reggere in equilibrio su quella cresta scivolosa e ruzzolano giù per i dirupi.
E’ indiscutibile però che i decadenti riescono ad esprimere spesso passioni e movimenti complicati in modo stupefacente. E per ottenere questi risultati devono adoperare l’arte delle illusioni e della suggestione. Questa difficile tecnica basata su impalpabili ed invisibili gradazioni di effetti, si chiama comunemente simbolismo. Nelle arti plastiche decadenti, una persona in ginocchio è nata per stare in ginocchio e non è una persona qualsiasi che si è inginocchiata.
Le proporzioni del corpo, armonizzate artificiosamente, danno l’impressione di essere normali, ma sono invece fantastiche, pensate e non copiate, immaginate e non riprodotte. In un movimento non si ritrova l’azione vera e propria, ma il simbolo di quell’azione. Nella figura stessa non c’è, con tutti i dettagli, la figura, ma il simbolo della figura. Il simbolo dell’azione o della figura sta all’azione o alla figura vera e propria, su per giù, come, nelle teorie di Platone, il concetto di uguaglianza sta alle cose uguali.
In letteratura e anche in musica, il simbolismo consiste specialmente nella suggestione, per cui con una parola o con una nota si suscita l’immagine, la sensazione di infinite altre parole o note. Esaminiamo per esempio la famosissima lirica di Verlaine sulla pioggia. Nessun poeta, credo, è riuscito a rendere così profondamente l’intima e inesprimibile angoscia della pioggia, quando scivola dolcemente sulla città. E questi versi, per tutte le ragioni finora esposte, possono essere un esempio tipico di lirica decadente.
Il pleure dans mon coeur
comme il pleut sur la ville;
quelle est cette langueur
4qui penètre mon coeur?
O bruit doux de la pluie
par terre et sur les toits!
Pour un coeur qui s’ennuie
8o le chant de la pluie!
Il pleure sans raison
dans ce coeur qui s’écoeure.
Quoi? nulle trahison?
12Ce deuil est sans raison.
C’est bien la pire peine
de ne savoir pourquoi,
sans amour et sans haine
16mon coeur a tant de peine.
Sono solamente 16 versi brevi. Ma che poema infinito risvegliano nelle intime fibre dell’anima! Ogni verso è il gocciolare di una stilla di pioggia, che cadendo risuona attraverso le pozze picchiettate come se avesse in sè la forza di cento echi. Il poeta è riuscito, con certe ripetizioni di parole e di rima, ad esprimere la monotonia di assonanze ritmiche della pioggia, e l’indeterminato di quel brusio timido, che non si sa dove viene, quando comincia e quando finisce. Non determina niente. Riproduce il suo stato d’animo, senza cercar di capirlo.
Quelle est cette langueur
qui penétré mon coeur?
Non lo sa, non vuol dirlo.
Quoi! Nulle trahison?
Ce deuil est sans raison.
E prima:
Il pleure sans raison
dans ce coeur qui s’écoeure.
Forse il male che lo tormenta è appunto questo; non sapere perchè è triste. Questo sentimento lo suscita in noi con delle interrogazioni, con delle confessioni distratte e malinconiche. Non lo dice mai. E non descrive il mormorio della pioggia nè ci dice in che modo egli vibri insieme a tutte le gocce. Si contenta di scrivere:
O bruit doux de la pluie
par terre et sur les toits!
Eppure con questi due soli versi, facendo rispondere la rima e la parola finale nei versi che seguono, risveglia in noi tutto il fluido gocciolare e tutta la dolce tristezza di una giornata di pioggia. E finisce lasciandoci in uno stato d’animo di aspettazione, come se ascoltassimo una musica di cui non si ricorda il principio e che non può finire; e dopo quell’ultima quartina sentiamo scivolare altri versi, senza fine:
C’est bien la pire peine
de ne savoir pourquoi,
sans amour et sans haine;
4mon coeur a tant de peine...
La rima lunga e non tronca, con la ripetizione della parola «peine» ci dà appunto quell’illusione di indeterminato. E bisogna, a proposito del simbolismo, notare una strana contraddizione dell’arte decadente. Perchè simbolismo vuol dire illusione, o suggestione, e quindi, in certo senso, artifizio. Ora l’arte decadente ha una marcata propensione a distruggere il convenzionale, che è in fondo uno dei tanti necessari artifizi con cui l’arte classica riesce ad esprimersi. Nell’arte c’è sempre una parte di convenzione, che non è assolutamente abolitole. Scegliamo un esempio del teatro. In teatro, prima di tutto, si vede una camera con tre sole pareti; tutte le altre convenzioni teatrali vi sono abbastanza note perch’io non stia a ricordarle. Ebbene: la storia del teatro è una lotta eterna per la continua e sempre crescente distruzione di tutte queste convenzioni. Come se, quando si è sostituita una scala al palcoscenico e i personaggi recitano nel salone e gli alberi sono veri, il dramma sia molto più vicino alla realtà! Per quanto l’imitazione sia pedissequa e meticolosa, la copia sarà sempre troppo lontana dall’originale perchè nasca nello spettatore la sensazione corrispondente. Così è inutile, come fanno i musicisti impressionisti, pestare nei bassi per fare il tuono, operare agili glissants per riprodurre il vento; tanto il tuono che il vento saranno molto diversi. Nelle epoche decadenti si dimentica che la vera arte rappresentativa, quando vuole veramente riprodurre la realtà, non imita, ma esprime i sentimenti suscitati dalla realtà. E la Pastorale di Beethoven darà la sensazione della campagna più di qualsiasi composizione impressionista, dove si sentano scorrere ruscelli e mormorare agresti fronde coi metodi or ora accennati.
Un’altra secca in cui spesso si arena la nave dell’Arte Decadente è, per la ragione che vi esponevo, cioè per riuscire a vincere le catene della natura, la confusione delle arti.
Ogni arte particolare, quando ha esaurito tutte le proprie risorse, cerca di rinnovarsi e di rinvigorirsi assumendo quelle degli altri.
Ho citato, in principio a questo studio, una definizione del campo della pittura, rispetto a quello della letteratura. Il pensiero di Lessing, riassumendolo, è questo: «La pittura, pei suoi caratteri e pei suoi mezzi di imitazione che può unire soltanto nello spazio, deve in tutto rinunciare al tempo; le azioni progressive, in quanto progressive, non appartengono ai suoi argomenti; ma essa deve contentarsi delle azioni coesistenti o di soli corpi che facciano supporre dai loro atteggiamenti un’azione».
Vicino a queste parole, se mi permettete, metterò un brano di Boccioni, critico futurista, il quale ha condensato, nel suo libro sulla pittura e scultura, esagerandoli, tutti i canoni dell’arte decadente:
«Sarebbe poco se noi ci arrestassimo ad una semplice analisi di forme, come gli impressionisti si fermarono ad una analisi di colore. Noi facciamo una sintesi dei risultati delle ricerche di colore e di forma. Ma questa sintesi non ci conduce di nuovo alle immagini statiche e successive (questo è fondamentale per noi), come avviene per i nostri amici di Francia cubisti o altro, ma ci porta a ridare la realtà nella sua essenziale manifestazione. Prima cioè che questa realtà si individualizzi in una distinzione tradizionale degli elementi naturali, noi vogliamo dare la vita della materia, traducendola nei suoi moti».
Lo scopo della pittura, nella teoria futurista, è proprio quello di rendere il movimento, le azioni progressive in quanto progressive. E’ cioè la codificazione di tutte le mescolanze artistiche. E’ anche spesso il segno dell’impotenza; perchè quando un’arte invade il campo di un’altra arte, vuol dire che non sa servirsi delle sue armi o non ne è cosciente. Ma non starò a ripetervi altri esempi di questa confusione di cui vi ho già prima parlato, perchè voglio rispondere a un dubbio che vedo nascere nei vostri occhi, mentre pronunzio la parola «futurismo». Ho adoperato questo vocabolo per esprimere l’estremo dell’arte decadente. Ma «Futurismo», «l’arte del futuro» dirà qualcuno di voi «arte giovane, bambina» che c’entra con l’arte decadente? Non ne è invece l’antagonista? Non è forse un’arte spontanea? libera? primitiva? nuova? Infatti, se noi leggiamo i manifesti futuristi, troviamo delle frasi come questa:
«Respingiamo fin d’ora la facile accusa di barocchismo con la quale ci si vorrà colpire. Le idee che abbiamo esposte qui derivano unicamente dalla nostra sensibilità acuita. Mentre barocchismo significa artificio, virtuosismo maniaco e smidollato, l’arte che noi preconizziamo è tutta di spontaneità e di potenza».
O come questa:
«Voi ci credete pazzi. Noi siamo invece i primitivi di una nuova sensibilità completamente trasformata».
Non bisogna lasciarsi impressionare dalle ingenue e violente affermazioni dei manifesti. I futuristi sono veramente decadenti, appunto perchè vogliono essere liberi, originali, spontanei, primitivi, manie tipiche delle civiltà malate. Prima di tutto non si è nessuna di queste cose quando si vuole esserlo. Non si può essere, di partito preso, nè spontanei, nè liberi, nè primitivi. Bisogna esserlo senza pensarci. Ma esaminiamo più precisamente la questione.
L’Arte decadente, essendo un’arte rivoluzionaria, sorta in reazione ad una preesistente arte classica, è sempre persuasa di essere indipendente dall’arte che ha combattuto, e quindi di essere un’arte giovane, nata dal nulla e da poco tempo. Ecco: persuasa forse no. Vuole sempre convincersi, in ogni modo, di essere il principio di una futura arte nuova, invece che la fine di un’arte vecchia e morente. La sensazione dell’agonia è, per quanto vaga, così angosciosa, che gli uomini cercano in tutti i modi un’illusione, anche incoerente, pur di levarsi di mente il pensiero ossessionante. Come se un vecchio, balbettando, credesse di ritornare bambino.
E con l’ illusione di ringiovanire l’arte decadente torna spesso ai falsi primitivismi. Così abbiamo visto le parole in libertà e la pittura metafisica, case bianche con le finestre a prospettiva sbagliata, le ombre lunghe come nelle tavole trecentesche, e i corpi umani rigidamente stilizzati. La stessa cosa è avvenuta in Grecia. Vi avevo detto, a proposito della scultura greca, che l’Arte ellenistica, se non era già proprio decadente, stava per divenirlo del tutto. A poco a poco i soggetti terribili si esaurirono, diventarono comuni, lo spirito si stufò di quel cibo troppo piccante — nessuno mai ha vissuto di soli peperoni, aceto forte, pepe et similia. Si ritornò ai soggetti idillici, alla natura, copiandola con molto rigore. E rivenne di moda l’arcaico, l’ingenuo. Da molto tempo le bocche eran disavvezze da quel semplice pane. Come si vede nel giovane di Sthephanos, a Roma, e nei gruppi di Napoli e di Madria, si ricominciò ad allargar le spalle, a irrigidire i movimenti, a immobilizzare il tronco, a stilizzare le pieghe. E gli uomini camminarono di nuovo sulle punte dei piedi, e le donne rinnovarono le processioni, una dietro l’altra, vestite ieraticamente coi pepli egiziani.
Primitivismo artefatto e non sentito, quindi, che non può ingannare nessun occhio esperto. E ugualmente falsa è la libertà dell’Arte Decadente. Accade qui come coi regimi attuali. Nessun regime assoluto è stato così violentemente tirannico come quello del secolo XX. Chi governa? Mistero; tutti obbediscono ad una legge fatta da non si sa chi. E così nell’arte decadente. Alle antiche leggi ben conosciute da tutti, si sostituiscono delle nuove e misteriose forme di tirannidi. Quella dei futuristi è veramente specifica. Voi troverete in tutti i libri e in tutti i manifesti futuristici delle frasi come queste: «Non v’è che una legge per l’artista ed è la vita moderna e la sensibilità futurista», o «L’era delle grandi individualità meccaniche è cominciata e tutto il resto è paleontologia»! Boccioni ha formulato la scelta dei soggetti imperiosamente distribuiti fra gli adepti del futurismo. È così tipica che la voglio citare:
«Les affiches gialle, rosse, verdi, le grandi lettere nere bianche e bleu, le insegne sfacciate e grottesche dei negozi, dei bazar, delle «liquidazioni», gli smaglianti waterclosets inglesi, le danze negre nel ritmo brutale degli Tziganes tra le luci e le belle prostitute, ecco ciò che ci ispira e ci affascina».
E la tirannia si estende anche ai principî di critica. Oggi nelle arti plastiche, per esempio, non si deve più vedere altro che «una composizione di forme, colori, volumi».
Un giorno, mi ricordo, stavo guardando le due Veneri del Tiziano con un amico, molto intelligente e impregnato di dottrine decadenti. Quell’amico mi diceva: «Io preferisco questa, delle due Veneri. Ma non bado al disegno, o al colore, o alla perfetta rappresentazione della carne, o al meraviglioso paesaggio della finestra. No; io vedo una forma chiara e curva in uno sfondo scuro; e trovo questo quadro più bello dell’altro perchè i colori della forma chiara, sono, a mio gusto, meglio armonizzati con lo sfondo nero, e più elegante è la curva di quella linea».
Molti poeti decadenti, del resto, cercano di comporre soltanto parole armoniose, senza altre preoccupazioni. Ma allora, quale è la misura del bello? Se si applica questo principio in tutta la sua estensione, nessuno potrà dimostrarmi che una pennellata rossa sopra un «Corriere della Sera» è meno bella della Sistina.
E siamo così ricascati nel problema dei principî. La mancanza assoluta di ogni principio anche elementare per distinguere il bello dal brutto e l’Arte dall’Esercizio, è l’origine di questa anarchia.
Ma c’è un limite anche nell’anarchia. Più in là del bolscevismo non si può andare. E avete visto, infatti, che in Russia si cerca di ritornare all’antico sistema capitalistico. E così, anche in arte, sono visibili delle correnti classicheggianti. Ed al classico si ritornerà, senza dubbio, ma non fondando delle riviste o ricominciando a scrivere con l’ortografia del cinquecento. Vedremo, fra un periodo più o meno lungo di stasi, una fioritura di artisti, che potranno essere definiti classici, ma che non ne avranno minimamente coscienza. Per saperlo, dovrebbero, se mai, leggere le storie letterarie di due secoli dopo.
Firenze, 1922.