Annali (Tacito)/XII
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LIBRO DUODECIMO
SOMMARIO
- Anno di Roma dcccii. Di Cristo 49.
Consoli. C. Pompeo Longino Gallo e Q. Veranio.
- An. di Roma, dccciii. Di Cristo 50.
Cons. C. Autistio Vetere e M. Svillio Nerviliano.
- An. di Roma dccciv. Di Cristo 51.
Cons. T. Claudio Cesare V e Ser. Cornelio Orfito.
- An. di Roma dcccv. Di Cristo 52.
C. P. Cornelio Silva Fausto e L. Salvio Otone Tiziano.
- An. di Roma dcccvi. Di Cristo 53.
C. Decimo Giunio Silano e Quinto Aterio Antonino.
- An. di Roma dcccvii. Di Cristo 54.
Cons. M. Asinio Marcello e Manio Acilio Aviola.
I. La morte di Messalina rivolse la corte; gareggiando i liberti per chi dovesse dare moglie a Claudio, sottoposto a non potere star senza, e da quelle esser dominato. Più ardente ambizione era nelle donne, mostrandosi ciascuna bella e nobile e ricca, e degna di cotanto marito. Le più innanzi erano Lollia Paulina figliuola di M. Loliio stato consolo, e Giulia Agrippina di Germanico. Questa proponea Pallante, quella Calisto. E Narciso, Elia Petina dei Tuberoni. Claudio ora a questa, ora a quella, secondo che udiva, voltandosi, gli chiamò tutti a dire le ragioni.
II. Narciso raccontava l’antico matrimonio, la casa comune, avendo di lei avuta Antonia; la famiglia non sentirebbe mutamento, se vi tornasse la moglie solita, che non ha cagione d’esser matrigna a Britannico e Ottavia, ma di tenergli cari come propri. Anzi Lollia (diceva Calisto) li terrà per figliuoli, che niuno ne ha: nè stata è rimandata come colei, la quale ritornando, tanto più fia superba e ritrosa. Ma Pallante lodava soprattutto in Agrippina, il tirarsi dietro il figliuolo nipote di Germanico, degno veramente d’imperio, stirpe Claudia, la quale questa giovane feconda accrescerà, unirà, nè il chiarore dei Claudi Cesari porterà in altra casa.
III. Furono queste ragioni le più entranti e aiutate dall’arte; spesseggiando Agrippina di visitare, quasi per obbligo, il zio; e tanto sopra l’altre il prese, che ella procedeva da moglie prima che fosse; e quando ne fu certa, pensò più oltre: d’ammogliar Domizio suo figliuolo, e di Gn. Enobarbo con Ottavia figliuola di Claudio; che non si potea senza scandolo; avendo Claudio già lei a L. Sillano sposata e fatto dal popolo conoscere e amare questo genero grande per sè, illustrato d’insegne trionfali, e per lo rappresentato spettacolo degli accoltellanti; ma ogni cosa era agevole con quel principe buono, scipito, da essere imboccato e comandato.
IV. Vitellio adunque (come censore, sue maligne viltà ricoprendo) per entrare in grazia d’Agrippina, che vedeva venir padrona, s’impacciava de’ suoi segreti; le rapportava novelle contra Sillano e Giulia Calvina sua sorella, bella e lasciva, stata nuora poco prima di esso Vitellio. Venne poi all’accusarlo, non d’aver fatto con la sorella peccato, ma mal celato d’averle voluto bene. Cesare non fu sordo a’ sospetti del genero, strignendolo più la figliuola. Ma Sillano non sapendo queste girandole (e anche era pretore in quell’anno) per editto di Vitellio si trovò casso del senato, benchè lasciatovi prima nel lustro nella scelta de’ senatori; e insieme Claudio gli disdisse il parentado; fu fatto rinunziare la pretoria, e la fini Eprio Marcello.
V. Entrati consoli C. Pompeio e Q. Verannio, il matrimonio tra Claudio e Agrippina, già per fama, e per lo scellerato amore tenuto per fatto, si conchiùse; non però ardivano far le nozze, non essendosi più udito, uno zio menare la figliuola d’un fratel carnale; e temendo di pubblico inconveniente, se peccato tale si sprezzasse, Vitellio tolse a cavarne le mani, e domandò Cesare: Se si lasserebbe consigliare dal popolo o dal senato. Avendo risposto: Esserci solamente per uno, nè poterne più di loro; disse: Che l’aspettasse in palagio: entra in senato, e chiesta la prima udienza, per cosa che importava allo stato, incomincia: „Le gran fatiche del principe, che regge il mondo, doversi sgravar delle cure di casa, perchè si dea tutto alle pubbliche. E chi meglio ciò poter fare che una, di tutti i beni e mali consorte? a questa dover fidare i segreti del cuore, i teneri figliuoli esso, che non conobbe mai libidini nè piaceri, ma sempre sin da piccolo ubbidì alle leggi„.
VI. Fatto così bello preambolo, e molto dai Padri adulato, seguitò: „Poichè voleano tutti che al principe si ridesse moglie, doversi scerre la più nobile, feconda e santa: tale essere, senza altra cercare, Agrippina; niuna di sangue sì chiaro; aver fatto figliuoli, vedersi colma di virtù, e abbattersi, per divin volere, a esser vedova per maritarsi a principe che mai non isposò moglie altrui. Avere udito dai Padri, veduto essi i Cesari torsi l’altrui donne a lor piacimento. Questi usare altra modestia, insegnare agli altri imperadori di così prenderla. Se sposare figliuola di fratello è nuovo a noi, ad altre genti esser solcane, da legge niuna vietato. Essersi gran tempo astenuti dalle cugine, ora spesseggiarsi. L’usanze accomodarsi al bisogno: col tempo verrà in uso anche questa„.
VII. Vi furon di quelli che protestando, se Cesare la tentennasse, d’andare a fargliele far per forza, usciron di senato con furia vari mucchi; gran calca vi concorre, gridando: Il medesimo chiedere il popol romano; e Claudio senza tardare s’appresenta loro nel Fòro e accetta il buon pro. Entra in senato, e sollecita il partito: Che tra zio e nipote di fratello si possa far giuste nozze, ancora per l’avvenire. T. Alledio Severo, cavalier romano, per acquistar la grazia (diceano d’Agrippina) fu solo a bramare tal parentado. Quindi si mutò il tutto. Governava una donna; nè per disonestà, come Messalina, si faceva giuoco dello Stato, ma si faceva servire, non come donna, e come da schiavi. Era in pubblico severa, spesso superba: in casa onestissima se non se per regnare; d’oro avidissima, diceva, per sovvenire il regno.
VIII. Sillano s’ammazzò il dì delle nozze; o per avere sino a quello sperato, o scelse quello per concitar più odio. Calvina sua sorella fu cacciata d’Italia; e Claudio ordinò farsi i sagrifizi del re Tulio, e le ribenedizioni de’ pontefici nel bosco di Diana, per lo ’ncesto di Sillano con la sorella, ridendosi ognuno che in tal tempo si punissero e purgassero gl’incesti. Ma Agrippina, per farsi conoscere anche per buone opere, fece ad Anneo Seneca perdonare l’esilio, e farlo pretore; pensando di far cosa grata al pubblico per essere gran letterato; e far Domizio allevar da tanto maestro, e valersi de’ suoi consigli, per arrivare al principato; come fedele per lo beneficio, e avverso a Claudio per l’ingiuria.
IX. Parve da non indugiare: e con gran promesse inducono Memmio Pollione eletto consolo a dir sua sentenza: Che Claudio sposasse Ottavia a Domizio; l’età s’affaceva: e ne seguirieno cose maggiori. Pollione quasi con le stesse parole che poco fa Vitellio, fece l’uficio; segue l’effetto; così Domizio di parente è fatto sposo e genero, e pari a Britannico, per li favori della madre, e per le arti delli accusatori di Messalina, che temevano non il figliuolo non li gastigasse.
X. In questo tempo gli ambasciadori dei Parti mandati a chiedere, come dissi, Meerdate, entrati in senato, espongono: „Venir bene scienti di nostra colleganza: non ribelli di casa arsacida, ma per riavere il figliuolo di Vonone, nipote di Fraate, che gli liberi dalla tirannia di Gotarze, intollerabile ai nobili e a’ plebei. Avere uccisi loro i fratelli, i vicini e i lontani, insino le donne pregne e i bambini; per ricoprir con la crudeltà l’esser suo, dappoco in casa, e sgraziato in guerra. Richiedere l’antica pubblica amistà, che noi soccorressimo i compagni nostri, emoli di possanza, ma cedenti per riverenza. Darsi, non per altro, li figliuoli de’ lor re per ostaggi, che per poter, quando son retti male, mandare al principe e a’ Padri per un re buono uscito di loro scuola„.
XI. Cesare all’incontro parlamentò dell’altezza romana, dell’osservanza de’ Parti: essergli, come al divino Augusto, chiesto il re: e non fiatò di Tiberio, che l’aveva mandato. Meerdate, che presente era, ammonì: „Che non pensasse dominar que’ popoli come schiavi, ma reggergli come cittadini con clemenza e giustizia; cose, quanto meno conosciute, tanto più accette a’ Barbari„. Voltosi alli ambasciadori, lodò a cielo questo allievo di Roma, pieno di modestia; ma doversi qualche cosa comportare a’ re, e non esser utile scambiagli tutto dì; noi esser tanto colmi di gloria, che vorremmo vedere ogni altro stato quieto„. A C. Cassio, reggente la Soria, ordina che conduca il giovane in riva d’Eufrate.
XII. Era Cassio in legge lo più ammaestrato di que’ tempi, che l’arti della guerra giacevano per la pace, la quale stima gli oziosi quanto i prodi. Nondimeno quanto senza guerra poteva, rimetteva i modi antichi d’esercitare i soldati, pensare, provvedere, fare come se ’l nimico assalisse; parendogli così esser dignità dei suoi maggiori e di casa Cassia, da quelle genti ancora celebrata. Fatti dunque muover quelli che avevan fatto chiamare il re, accampatosi a Zeuma, dove è più agevole il passo; quando comparvero i grandi de’ Parti, e Abbaro re degli Arabi, Cassio ricordò a Meerdate, sollecitasse sua impresa, perchè i Barbari si muovono con furore, e tardando allentano o tradiscono. Non ne fece capitale per inganno di Abbaro, che il giovane non accorto, e stimante che l’esser re stesse nel vivere con gran lusso, trattenne molti dì nella terra di Edessa: e chiamandogli Carrene, con dire che ogni cosa era presta, venendo presto, non vanno per la corta in Mesopotamia, ma girano per l’Armenia, che si dovea, cominciando il verno, fuggire.
XIII. Stracchi per le montagne e nevi, si congiungono con la gente di Carrene vicino alla pianura; passano il Tigre, e attraversano li Adiabeni, lo cui re Giubate, che facea l’amico di Meerdate, in segreto tenea da Gotarze. Presero per viaggio la città di Nino, sedia antichissima dell’Assiria, e il castello famoso, ove Alessandro con Dario combattè e abbattè la potenza di Persia. Gotarze intanto nel monte Sambulo sagrificava agli Iddii del luogo, ove è in maggior devozione Ercole; il quale in sogno mostra a’ sacerdoti che a certo tempo menino al tempio i loro cavalli a ordine per la caccia; i quali caricati di turcassi pieni di frecce, corrono per boschi, e di notte tornano con molto ansare co’ turcassi voti; e lo Iddio di nuovo mostra loro in sogno in quai boschi corsero e trovanvisi sparsi i salvaggiumi per terra.
XIV. Ma Gotarze, non avendo bastevole esercito, si facea del fiume Corma riparo. Sfidato a battaglia, e punto per trombetti e affronti, metteva tempo in mezzo, mutava luoghi, mandava a’ nemici moneta perchè facessono tradimenti. Tra gli altri Ezate adiabeno e Abbaro re arabo, se ne vanno con gli eserciti, per loro poca levatura, essendo chiaro per isperìenza che i Barbari corrono a chiedere a Roma i re, e poi non gli vogliono. Meerdate di sì forti aiuti spogliato, e degli altri insospettito, deliberò, non potendo altro, rimettersi alla fortuna e combattere, e Gotarze inferocito per gli scemati nemici, accettò. L’affronto fu sanguinoso e dubbio, sino a che Carrene, scorso troppo dietro a una parte fuggente, da un’altra fresca fu circondato. Allora Meerdate perduta ogni speranza, fidatosi di Parrace, creatura del padre, fu da lui preso e dato al vincitore; il quale dicendogli non parente, nè Arsacida, ma forestiero e Romanesco, gli mozzò gli orecchi, e lasciollo andare a mostra di sua clemenza e nostra onta. Morì poi Gotarze, e fu chiamato al regno Vonone, che governava i Medi. Poco visse e nulla operò. Succedetteli Vologese suo figliuolo.
XV. Andando disperso Mitridate Bosforano, e vedendo partito Didio capitano romano, col forte dello esercito, con aver lasciato Coti giovane, non esperto, in regno nuovo, con poche coorti sotto Giulio Aquila cavalier romano, sprezzati ambidue, sollieva popoli, alletta sbanditi, raguna esercito, e toglie lo stato al re de’ Dandaridi, e stava per pigliare il Bosforo. Quando Aquila e Coti intesero queste cose, e che Zorsine re de’ Soraci era ritornato nimico, vedendosi deboli, cercarono anch’essi aiuti di fuori; e mandarono ambasciadori a Eunone principale delli Adorsi, mostrando loro che Mitridate ribello alla potenza romana era niente. Convennero agevolmente, e che Emione con la cavalleria combattesse, e i Romani assediasser le terre.
XVI. Muovonsi schierati così: Gli Adorsi alla testa e alla coda; nel mezzo le nostre coorti, e i Bosforani armati alla romana. Rotto così il nimico, s’andò a Suza città di Dandaria, abbandonata da Mitridate per sospetto de’ suoi, e parve da lasciarvi presidio. Entrato ne’ Soraci e passati il fiume Paude, accerchiano Uspen, città in monte, con buoni fossi, e triste mura di graticci ripieni di terra, agevoli a disfare. Da alte bertesche, fuochi e saette lanciando, travagliavano gli assediati; e se la notte non ispartiva, seguiva l’assalto, e la presa in un dì.
XVII. La dimane màndaro a offerir la terra e diecimila schiavi, salvando i liberi. Troppa crudeltà parve tanti arresi uccidere, o briga a guardargli; meglio essere spegnerli con ragion di guerra. E fu dato il segno a’ soldati, saliti con le scale su le mura, di mandar tutti a fil di spada. Lo sterminio delli Uspensi spaventò gli altri, vedendoci mandare arme, ripari, luoghi aspri e alti, fiumi, città, ogni cosa a un piano, e nulla sicuro. Zorsine adunque, dibattutosi, se dovesse pensare al caso estremo di Mitridate o al suo regno, s’attenne all’utile; e dati ostaggi, si prostese dinanzi all’immagine di Cesare con gloria grande del romano esercito d’avere scorso vincitore senza sangue, sino a tre giornate, come, si vede, presso al Tanai: Non ebbe nel tornarsene egual fortuna, per certe navi trasportate per mare nelle costiere de’ Tauri, le quali que’ Barbari circondarono, e uccisero il prefetto e quasi tutti i centurioni.
XVIII. Mitridate, non avendo più arme, pensa ove trovar misericordia. Di Coti fratello statogli traditore, or nimico, temeva; Romano alcuno ivi non era d’autorità da starsene a sue promesse. Gittasi ad Eunone, nimico suo proprio, e per la nuova nostra amicizia potente, e con abito e volto acconcio alla presente fortuna, entra in palagio, e abbracciatogli le ginocchia, dice: „Eccoti volontario Mitridate, tanti anni da’ Romani cercato per terra e per mare. Fa della prole del grande Àchemene (il che solo non m’hanno potuto torre i nimici) ciocchè tu vuoi„.
XIX. La chiarezza dell’uomo, la mutata fortuna, e ’l pregar generoso commossero Eunone: leval su: lodato d’avere eletto la gente Adorsa, la destra sua per chieder mercè, e a Cesare manda ambasciadori e lettere di questo tenore: „Gl’imperadori del popolo romano, e i re delle grandi nazioni essersi fatti amici per la simigliante grandezza; egli e Claudio, per la comune vittoria. Le guerre non avere più nobil fine che, perdonando, accordare. Così a Zorsine vinto niente essersi tolto. Per Mitridate, che più grave peccò, pregava, non rendergli regno, nè potenza, ma perdonargli il venire in trionfo e la morte.
XX. Claudio, benchè dolce con la nobiltà straniera, dubitò se meglio era ricevere con tal patto cotal prigione o ripigliarlo con l’armi. Premevalo il duolo delle ingiurie e la voglia del vendicarsi; ma gli era detto: „Che qui si vedea guerra in paesi deserti, mare senza porti, re bizzarri, popoli vagabondi, terreno sterile; tedio, durando; pericolo, affettandosi: poca lode, vincendo, e gran vergogna se si perdesse. Che non accettarlo così? La vita sarebbe al meschino continuato supplizio.„ Per queste ragioni scrisse a Eunone: „Che Mitridate meritava la morte, e poteva dargliela; ma per antico costume essere i Romani tanto benigni a’ supplicanti, quanto duri a’ nimici; e si trionfa de’ popoli e de’ regni, non d’un uomo solo„.
XXI. Consegnato dipoi, e portato a Roma Mitridate da Giunio Citone procuratore del Ponto, si dice che a Cesare parlò troppo altiero in quella fortuna, e n’andarono per lo popolo queste parole: „Io non ti sono rimandato, ma torno: se noi credi, lasciami e vedrailo„. E quando in mezzo alle guardie fu mostrato in ringhiera al popolo; non si cambiò. A Gitone furono ordinate le insegne di consolo, ad Aquila di pretore.
XXII. In detto anno Agrippina contro a Lollia, che seco aveva conteso il matrimonio del principe, inviperata, le trova cagioni e accusatore d’aver sopra quello domandalo Caldei, Maghi e Apollo Clario. E Claudio, senza udir lei, disse in senato molto della sua nobiltà: „Nata di sorella di L. Volusio; bisnipote di Cotta Messalino da canto di padre; stata moglie di Memmio Regolo (di Caio, che la rimandò, non volle dire, ma aggiunse): aver mali pensieri contro allo stato. Esser bene prima che ella gli effettui, confiscarle i beni e scacciarla d’Italia„. E così fu; lasciatole delle sue smisurate ricchezze cento venticinquemila fiorini per vivere. E Calpurnia, illustre donna, fu sperperata per averla il principe chiamata bella, ragionandone a caso, non per averne capriccio; però Agrippina non le fe’ il peggio. A Lollia mandò il tribuno a ucciderla. Condannossi ancora di mal tolto Cadio Rufo, accusato da Bitiniesi.
XXIII. Alla Gallia Narbonese, per la molta reverenza al senato, fu conceduto che a’ senatori narbonesi, sì come a’ ciciliani, fusse lecito, senza licenza del principe, riveder casa loro. Gl’Iturei e i Giudei, per morte de’ re loro Soemo e Agrippa, furono aggregati al governo di Soria. L’augurio di salute, già vinticinque anni tralasciato, piacque rimettere e continuare. Avendo Cesare allargato l’imperio, il cerchio ancora della citta, per lo costume antico allargò; per lo quale è conceduto a coloro che hanno ampliato l’imperio, ampliare ancora la città. Non l'usarono già, per grandi nazioni che soggiogassero, i capitani della repubblica, se non L. Silla e poi Augusto.
XXIV. I re ci ebbero, chi dice vana, chi vera gloria. E qui mi par non fuori di proposito notare ove Romolo cominciò il primo cerchio dal Fòro Boario, ove noi vediamo quel bue di bronzo (però che tale animale si mette all’aratolo) cominciò a disegnaido con un solco, includendovi il grande altare d’Ercole. Indi piantò sassi con certa distanza a’ piè del Monte Palatino sino all’altare di Conso a’ magistrati vecchi, al tempietto de’ Lari. Il Fòro Romano e’l Campidoglio si credono aggiunti da T. Tazio. Crebbe poi con la fortuna il cerchio. Ove il terminasse Claudio è agevol conoscere, ed è scritto ne’ libri pubblici.
XXV. Entrati consoli C. Antistio e M. Suilio, s’avacciò l’adottamento di Domizio per l’autorità di Pallante; il quale d’intrinseco d’Agrippina, per le condotte nozze, divenutone adultero, stimolava Claudio che pensasse al ben pubblico; desse alla fanciullezza di Britannico un appoggio. Così avere il divino Augusto, benché di nipoti fondato, fatti grandi i figliastri; e Tiberio, oltre al figliuol proprio, adottato Germanico. Valessesi anch’egli di questo giovane, caricandogli parte delle fatiche. Con queste ragioni fu svolto a mettere innanzi al figliuolo, Domizio di due anni soli maggiore; e ne fece in senato diceria, imboccatagli dal liberto. Notavano i periti, ninno altro trovarsi adottato tra i Claudj patrizi, continuati per naturale lignaggio, da Atto Clauso in qua.
XXVI. Il principe ne fu ringraziato, e Domizio squisitamente adulato; e per legge vinta datogli il casato de’ Claudj e nome di Nerone, e ad Agrippina cognome d’Augusta. Fatte queste cose, non fu uomo sì crudo che non lagrimasse del povero Britannico; che abbandonato fino da vili servidori, per carezze che fuor di ragione faceva loro Agrippina, rimaneva schernito, e bene se n’accorgeva: dicono perché avea ingegno; e forse lo increscerne lo facea lodare senza aver data esperienza di sé.
XXVII. Ma Agrippina, per mostrare sua potenza anche fuori all’amiche nazioni, manda nella terra degli Ubj una colonia, e le pone il suo nome, perchè quivi fu conceputa; e abbattessi che quella gente venuta d’oltre Reno era stata ricevuta a divozione da Agrippa suo avolo. In quel tempo la Germania alta travagliò, per esservi i Catti entrati a rubare. L. Pomponio Legato vi mandò i Vangioni e Nemeti, aiuti nostri, con una banda di cavalli e ordine d’arrivar prima, o lasciarli sbrancare e cignerli alla sprovvista. Al consiglio del capitano aggiunsero i soldati l’industria, dividendosi; una parte a sinistra circondò quelli che tornavano sguazzandosi la preda o poltrendo. E per più allegrezza liberò certi schiavi già quaranta anni fatti nella rotta di Varo.
XXVIII. Gli altri che presero la più corta a man destra, riscontrarono il nimico, che ardì combatter e fecer più sangue; e carichi di preda e fama, se ne tornarono al Monte Tauno, ove Pomponio con le legioni attendeva se i Catti si fossero rappiccati per vendicarsi. Essi per non esser serrati di qua dai Romani, di là da’ Cherusci, nimici eterni, mandarono a Roma ambasciadori e statichi. A Pomponio furono ordinate le trionfali; e glorioso molto più il fanno le sue poesie.
XXIX. In detto tempo Vannio, fatto da Druso Cesare re de’ Svevi, ne fa cacciato: da prima celebrato e caro; col tempo venne in superbia e odio de’ popoli: e lo tradirono Vangio e Sido, figliuoli di sua sorella e Giubillio re delli Ermunduri. Claudio non volle per molti preghi entrar tra loro Barbari con l’arme; a Vannio promise sicuro ricovero se fusse cacciato, e scrisse a P. Attillo Istro, che reggeva la Pannonia, che mettesse in su’l Danubio una legione col fiore di quegli aiuti per soccorrere chi perdesse, e frenare i vincitori che non pigliassero animo a turbare anche la nostra pace. Perciocché i Ligj in gran numero, e altre genti, correvano al fiuto della ricchezza di quel regno, per treni’ anni con gravezze e tirannie accresciuta da Vannio, il quale avea la sua fanteria paesana e cavalli sarmati iazigi; poche forze a tanti nimici. Però voleva tenersi nelle castella e allungare la guerra.
XXX. Ma non tollerando i Jazigi l’assedio, e scorrendo la campagna, convenne al comparire de’ Ligi e delli Ermunduri battagliare. Così Vannio uscì fuori e fu rotto; ma gloriosamente, con l’arme in mano, e ferite dinanzi; e salvossi rifuggendo all’ armata che l’aspettava al Danubio insieme con la sua gente; a cui fu dato in Pannonia luogo e terreno. Spartironsi il regno Vangio e Sido, fedeli a noi: a que’ popoli, nell’acquistarlo, tutta carità: poscia, o per natura di chi domina o di chi serve, odiosissimi.
XXXI. In Britannia giunto P. Ostorio vicepretore, trovò scompiglio; inondando i nemici il paese dei collegati, rovinosi tanto più, che non credettero il capitano novello con esercito non maneggiato, entrato il verno, potergli noiare. Esso sapendo i primi fatti dar lo spavento o l’orgoglio, vola con le coorti, ammazza chi resiste, perseguita, e non lascia far testa gli sbaragliati: non si fida di loro accordi, per non tornare alle medesime: leva l’arme a’ sospetti e voleva chiuderli tra due fiumi Antona e Sabrina, e ’l campo suo. Gl’Iceni fur primi a risentirsene: gente gagliarda, da guerre non battuta; perchè venne volontaria dal nostro, e dietro a questi le nazioni confinanti. Presero per combattere un luogo bastionato di zolle, d’entrata strettissimo alla cavalleria. Ostorio, benché senza nerbo di legioni, con gli aiuti si mette a sforzargli; e partendole coorti, pone in opera anche la gente a cavallo: e dato il segno, rompe i bastioni, e coloro sconfonde, presi nella lor gabbia, e che per uscirne, vedendosi ribelli e rinchiusi, fer prove da dirsene. In quella zuffa M. Ostorio, figliuolo del Legato, meritò corona di cittadino salvato.
XXXII. La sconfitta degl’Iceni fe’ accordare i dubbi, e l'esercito andato ne’ Ganghi guastò per tutto e predò, che non ardiron venire a giornata; bezzicaronlo alla sfuggita, e male ne incolse loro. Appressatosi al mare che guarda ibernia, le discordie dei Briganti fecero ritirare il capitano, risoluto di non tentar cose nuove se le prime non erano accomodate; e avendone certi pochi, che presero l’armi, uccisi, agli altri perdonato, gli lasciò quieti. Non fece già posare l’arme a’ Siluri nè atrocità nè perdono, chè bisognò domarli con le guarnigioni; e prima per più agevolezza, mettere nel paese già vinto la colonia Camaloduno di buon numero di soldati vecchi per nostro aiuto, contro a’ ribelli, e per avvezzare gli amici alle buone leggi.
XXXIII. Poi cavalcaro in esso Siluri feroci, per sè, e per gran fede in Garattaco loro capitano il primo cavaliere de’ Britanni, per alte e varie avventure; il quale vantaggiandoci di notizia de’ luoghi, ma di soldati buoni cedendoci, con astuzia ridusse la guerra nelli Ordovici, e congiuntosi con quelli che temevano di nostra pace, volle tentar fortuna, e si pose in monte ripido, dove l’entrata e l’uscita e tutto fusse a nostro disavvantaggio; e dove salir poteasi, con sassi quasi lo trinceò; e difendea lo fiume pericoloso, oltre a’ soldati migliori paratisi dinanzi a’ ripari.
XXXIV. Intorno a’ capitani, e qua e là per tutto, scorreva Carattaco a confortare, inanimire, levar paura, dare speranze, e altre spronate a combattere: Quella esser giornata, esser battaglia di ricoverata libertà o sempiterna servitù; nominava i loro passati che cacciaron via Cesare dittatore; per la virtù di quelli diceva esser le mannaie, le rapine levate; assicurata l’onestà di lor mogli e figliuoli. A tali parole tutti gridarono, giurando ciascheduna nazione a sua usanza, di non temere armi, nè ferite giammai.
XXXV. Tanta prontezza, lo fiume in mezzo, i fatti ripari, i monti in capo, ogni cosa a noi atroce, a loro usata, atterrirono il nostro capitano; ma il soldato gridò: „Battaglia; virtù vincer tutto„; così ribadivano i tribuni e i prefetti, e l’esercito accendevano. Ostorio allora, fatto riconoscere i passi, gli fece tutti agevolmente guadare il fiume. Giunti al riparo e scaramucciando con armi da lanciare, n’eran feriti, e cadevano più de’ nostri; però, fatta la testuggine, disfecero quelle more, e alle mani venuti e del pari, i Barbari la diedono all’erta, e i nostri lor dietro, così gli armati alla leggiera come alla grave. Combattevano quei co’ tiri: i nostri a corpo a corpo, e gli disordinavano, non essendo coperti di corazza nè di celata; e quando s’appiccavano coi nostri aiuti, i Romani con le daghe e pili; quando si rivolgevano a’ Romani, gli aiuti con le spade e aste li ponevano in terra. Fu la vittoria famosa per la moglie e la figliuola di Carattaco prese, i fratelli arresi:
XXXVI. lui (come non son sicure l’avversitadi) da Cartismandua reina de’ Briganti, a cui si raccomandò, dato prigione al vincitore lo nono anno della guerra britannica. Gran dire se ne feo per l’isole e province vicine, e per l’Italia e Roma; ognuno desiderando vedere colui che tanti anni avea sprezzata la nostra potenza. Cesare per sua maggior gloria magnificava il vinto; e come a nobile spettacolo, chiamò il popolo. Per lo mezzo de’ soldati di guardia, armati in ordinanza, dinanzi a’ loro alloggiamenti passaron prima le coorti del re con ricche collane e cavalli addobbati; le spoglie da lui acquistate nelle guerre straniere: seguitarono i fratelli, la moglie e la figliuola; in ultimo esso Carattaco, non come tutti gli altri raccomandantesi per paura, nè col capo chino; e condotto al tribunale parlò in questa sentenza:
XXVII. „Se io avessi avuto eguale alla mia nobiltà e grandezza, nelle felicità moderanza, sarei venuto a Roma amico e non prigione; nè a te sarebbe pamto poco allegarti con uno di sangue sì chiaro e tanti popoli signoreggiante. La presente fortuna mia quanto a me sozza, tanto a te è magnifica. Ho posseduto uomini, cavalli, armi e ricchezze: qual maraviglia se non l’avrei volute lasciare? A voi, se volete dominare ognuno, seguita che ognuno debba essere schiavo. Se io per tale mi ti dava alla prima, non sarebbe la mia disgrazia nè la tua gloria sì chiara; così il mio supplizio ne scancellerà ogni memoria; dove, se tu mi salverai, sarò della clemenza tua esempio immortale.„ Cesare per queste parole, a lui, alla moglie e fratelli perdonò. Essi sciolti, ne renderono riverenze, grazie e laudi al principe, e le medesime ad Agrippina, che si sedeva in altro vicino seggio. Cosa nuova, e fuori d’ogni antico uso, sedere tra le romane insegne una donna; ma ella si teneva di quello imperio, da’ maggiori suoi acquistato, compagna.
XXXVIII. I Padri ragunati parlarono con molta magnificenza della presa di Garattaco, non meno splendente che quelle mostre che fecero al popol romano P. Scipione di Siface, L. Panilo di Persa, o altri d’altri re incatenati. Ordinarono a Ostorio le trionfali per li successi felici; i quali non seguitarono, o perchè egli badò meno alla guerra, quasi vinta levato Carattaco; o la compassione di tanto re infocò i nemici a vendetta. Circondano il maestro del campo, e le bande romane lasciate ne’ Siluri a fortificare. Otto centurioni, e i più valorosi soldati vi morirono; e rimanevanvi tutti, se non eran soccorsi pienamente dai borghi e castelli vicini. Sbaragliano appresso i nostri, che cercavano vettovaglie e i cavalli, mandati a soccorrergli.
XXXIX. Ostorio vi mandò spedite coorti, che non rattenendo la fuga, con le legioni v’andò; e con la loro forza la pugna fu pareggiata e poi vinta; e scamparono i nemici con poco dannaggio perchè lo giorno se ne andava. Seguirono zuffe spesse e piccole, a guisa d’assassini, per boschi o pantani; per caso o arte, ira o preda, comando o senza; ostinandosi particolarmente i Siluri per un detto sparsosi del romano imperadore: „Che già i Sugambri furon rovinati e traportati in Gallia, ma de’ Siluri bisognava spegnere il seme„. Sorpresero adunque due coorti d’aiuto, per l’avarizia de’ Capi troppo scorsi a rubare; di cui donando spoglie e prigioni, traeano altri popoli a ribellarsi. Onde Ostorio da tanti pensieri afflitto si morì, con allegrezza de’ nemici d’avere spento con la guerra, se non col ferro, quel capitano di qualche stima.
XL. Cesare in luogo del morto, mandò Didio, il quale arrivato con viaggio prospero, trovò le cose non prospere, essendovi stata rotta una legione sotto Manlio valente, e fatta la cosa maggiore per isbigottire il nuovo capitano; e da lui vie più, per più sua gloria se vincesse, o scusa quando perdesse. Questo danno diedono ancora i Siluri; e scorrendo assai paese, Didio gli cacciò. Ma dopo la presa di Carattaco, il maggior soldato tra loro fu Venusio lugantese, fedele a noi, e difeso dalle nostre armi mentre fu marito di Cartismandua reina sopraddetta. Nato poi ripudio tra loro e guerra, divenne anco nimico nostro: ma prima combattevano insieme: ella prese ad inganno il fratello e parenti di Venusio. Onde i nimici tinti d’ira e vergogna d’ubbidire a una donna, col fiore della gioventù armata, assaliscono il suo regno; il che noi antivedendo, le mandammo aiuti. Seguì battaglia feroce; dapprima dubbia, poi lieta; e con simil successo combattè la legione sotto Cesio Nasica; conciossiachè Didio vecchio e pieno d’onori faceva fare, e bastavagli tenere il nimico lontano. Non ho divise queste cose seguite in più anni perchè meglio si capiscano. Ora ripiglio l’ordine de’ tempi.
XLI. Nel consolato quinto di Tiberio Claudio e di Servio Cornelio Orfito, s’anticipò la toga a Nerone, perchè paresse abile al governo, e lasciossi Cesare dalle adulazioni del senato menare a far Nerone consolo per quando corresse venti anni; in tanto avesse podestà proconsolare fuor di Roma, e si chiamasse principe della gioventù. Diedesi ancora in nome suo donativo a’ soldati e mancia alla plebe; e ne’ giuochi circensi, che si facevano per farsi amare dal popolo, Britannico vi andò in pretesta, e Nerone in veste trionfale; perchè dal vedere costui vestito da imperadore, e colui da fanciullo, chi l’uno e l’altro esser dovesse s’argomentasse. Certi centurioni e tribuni, che mostravano compassione di Britannico, furon rimossi sotto spezie di finte cagioni d’onori; e se alcun fedele avea, fu cacciato. In quella occasione i due giovani riscontrandosi, Neron salutò Britannico col suo nome, e egli lui con quel di Domizio; di che, come principio di discordia, Agrippina molto si dolse col marito, dispregiarsi l’adozione, guastarsi in casa quello che avea giudicato il senato, comandato il popolo. Se que’ maligni che mettevano questi punti non si scacciavano, ne seguirebbe rovina pubblica. Claudio di queste quasi malvagità adirato, i custodi ottimi del figliuol suo uccise e confinò; e lo mise in mano a chi volle la matrigna;
XLII. la quale non ardì fare il resto, per levar prima la guardia di mano a Lusio Gela e Rufo Crispino, come troppo obbligati alla memoria e ai figliuoli di Messalina. Per consiglio adunque della moglie che diceva, le coorti, per la concorrenza di due, dividersi in fazioni, e meglio potersi disciplinare comandate da uno, fu dato il comando de’ pretoriani a Burro Afranio, tenuto gran soldato, ma conoscente chi gliel dava. Levossi Agrippina in maggiore altura, e andava in Campidoglio in carretta, come già potevano solamente i sacerdoti e le cose sante; il che accresceva venerazione a questa donna, figliuola d’uno imperador d’eserciti, e sorella, moglie e madre di tre imperadori del mondo; esempio unico sino a oggi. In tanto Vitellio, che l’avea presa per lei più di tutti, favoritissimo, vecchissimo (tanto stanno in bilico i grandi) da Giuno Lupo senatore toccò un’accusa di maestà danneggiata e d’imperio agognato. E vi dava Cesare orecchi, se Agrippina con minacce, anzi che preghi, non lo svolgeva a privare d’acqua e fuoco l’accusatore; chè di tanto si contentò Vitellio.
XLIII. Apparvero in quell’anno di molti segni: uccelli di mal’uria posati in Campidoglio; tremuoti rovinarono molte case, e nella calca de’ fuggenti spaventati affogarono i più deboli; ricolte triste, e quindi la fame. Onde, non pure si mormorava di Claudio, ma rendendo ragione, la gente con le grida assordandolo, e ripinto in un canto del Fóro pigliandolo, la guardia ebbe a fargli far largo. Trovossi non v’esser pane che per quindici dì: ma gl’Iddii benigni, e’l verno dolce ne scampaiono. Già Italia nutriva i paesi lontani, nè oggi è sterile; ma e’ ci giova più tosto coltivar l’Affrica e l’Egitto, e fidare la vita del popol romano alle navi e alla fortuna.
XLIV. Nel detto anno tra gli Armeni e gl’Iberi nacque guerra, che cagionò ancora tra Parti e Romani grandissimi movimenti. Era re de’ Parti per volontà de’ fratelli Vologese, nato di concubina greca; degl’Iberi Farasmane per lungo possesso, degli Armeni Mitradate, suo fratello, per nostra potenza. Aveva Farasmane un figliuolo detto Radamisto; bello e grande e forte, dell’arti paesane scaltrite, e di chiara fama tra quelle genti. Il quale troppo spesso e feroce, scoprendo suo appetito, usava dire: „Abbiamo un dito di regno, e tienlo un barbogio.„ Temendo adunque Farasmane, grave d’anni, di questo giovane; poderoso, fiero e di seguito, lo rivoltò a un’altra speranza dell’Armenia, ricordandogli averla egli data a Mitradate, cacciatone i Parti; ma doversi prima che con la forza, veder di ritorlagli con inganno, quando ei non vi pensa niente. Così Radamisto ne va al zio, infintosi cruccioso col padre per le ingiurie della matrigna: e ricevuto con carezze da figliuolo, persuade i principali Armeni a tal novità,
XLV. sì segreto, che Mitradate gli fu mezzano a rappattumarlo col padre; al quale tornato, gli conta aver con la fraude disposta la materia; doversi ora far con l’armi. Farasmane rompe la guerra, trova a dire, che quando ei combatteva col re d’Albania e chiedeva a’ Romani aiuto, il fratello gli operò contro; e per tale ingiuria vendicare, intendeva distruggerlo. E dato al figliuolo grosso esercito, esso incontanente assaltò, e tolse la campagna a Mitradate, sbigottito e salvatosi nel castello di Cornea, forte e con buona guardia di soldati sotto Celio Pollione reggente, e Casperio centurione. Niente sanno meno i Barbari che prender terre per via di macchine e d’artifizj; noi ne siamo maestri. Radamisto avendo in vano, o con danno, dato l’assalto, incomincia l’assedio; e nulla approdando, corruppe il prefetto, protestando Casperio, non vendesse sì bruttamente quel re amico, non l’Armenia, dono del popolo romano; e rispondendo Pollione, troppi esser d’attorno al Castello, e Radamisto, allegando la commessione del padre, fatto tregua, se n’uscì, per distor Farasmane da questa guerra; se no, avvisar T. Vinidio Quadrato, che reggeva la Sorìa, dello stato d’Armenia.
XLVI. Partito il centurione, il prefetto quasi senza pedagogo rimaso, consigliava Mitradate che s’accordasse, ricordando, Farasmane essergli fratei maggiore, ed ei suo genero, e suocero di Radamisto; gl’Iberi, benchè allora più forti, la pace non recusare; sapersi quanto sieno felloni gli Armeni; altra sicurezza non v’essere che quel castello non vettovagliato; non volesse armi, anzi che patti non sanguinosi. Andava adagio Mitradate a fidarsi de’ consigli del prefetto, che aveva avuto domestichezza con una sua concubina; e credeasi che per danari avrebbe fatto ogni bruttura. Casperio ne va a Farasmane, e chiede che gl’Iberi si partano dall’assedio. Egli dava parole generali, e spesso buone: e a Radamisto mandava eorrieri che strigiiesse la terra per ogni via. Accrescesi la baratteria: e Pollione occultamente corrompe i soldati a chieder pace e minacciare d’andarsene. Colto a tale stretto Mitradate, nel giorno e luogo convenuto, esce del castello per capitolare.
XLVII. Radamisto gli si getta al collo: fìnalmente lo riverisce, chiamalo suocero e padre: e giura non ferro, non veleno volergli usar contea: e tiralo in un boschetto per fermar la pace, presenti gl’Iddìi, diceva egli, con sacrifìzj ordinati là entro. Usano i re, quando si confederano, incastrarsi le dèstre; le dita grosse legarsi strette; e venuto il sangue alla pelle, pugnerla, e succiarlosi l’un l’altro. Cotal pace, come di comune sangue sagrata, tengono per iuviolabile. Allora colui che legava si lasciò cadere, e preso Mitradate per le gambe, il distese: corsero molti, misergli i ferri, e traevanlo per la catena al piede (tra i Barbari gran vergogna): e mal trattato popolo gli si volgea con ignominie e percosse; ad alcuni pure di tanta mutazion di fortuna Incresceva. Venne la moglie eo’ figliuolini, e l’aria empiè di lamenti. Furon messi in carri separati e chiusi, sino all’ordine di Farasmane, il quale per quel regno rinnegò il fratello e la figlinola; e risolvè lo scellerato ammazzarli, ma non vedere. E Radamisto del giuro osservadore, fuori non trasse nè ferro, nè veleno contro la sorella e ’l zio; ma quegli gittati in terra, affogò in molti panni e gravi; e scannò i loro figliuoli perchè gli piagnevano.
XLVIII. Quadrato inteso il tradimento fatto a Mitradate, e regnare i traditori, chiama il consiglio, spone il fatto, domanda se si dee gastigare. Pochi guardavano all'onore pubblico; i più alla sicurezza, dicendo, doversi aver care le rabbie tra loro de’ forestieri, e seminar zizzanie; come spesso hanno usato i principi romani, donando a uno, e togliendo a un altro questa benedetta Armenia, per aizzarli. Farsi per noi, che Radamisto si tenga il male acquistato con odio e infamia, più tosto che Se l’avesse con gloria. Così fu deliberato; ma per non parere d’approvare tanta atrocitade (e forse Cesare sarebbe di altro animo), mandarono a dire a Farasmane, che dello stato armeno sgombrasse egli e il figliuolo.
XLIX. Era procurator di Cappadocia Giulio Peligno, d’animo vile, corpo ridicolo egualmente dispregevole, ma tutto di Claudio, che quando era privato, co’ visi da far ridere passava mattana. Costui, come volesse riaver l’Armenia, fa gente del paese: gli amici più che i nimici saccheggia; i suoi lo piantano, i Barbari l’assaliscono; scarso di partiti, ne va a Radamisto, per li cui presenti corrotto, lo esorta al prender lo scettro reale, e al prenderlo assiste e serve. Divolgatasi tanta vergogna, a fin che tutti non fosser creduti di questa razza, vi fu mandato Elvidio Prisco con una legione a riparare per allora. Passò a fretta il Monte Tauro; e già, molte, cose avendo accomodate più con dolcezza che forza, fu fatto ritornare in Soria per non la romper coi Parti.
L. Avvegnaché Vólogese, parendogli venuto il tempo di riaver l’Armenia, stata de’suoi maggiori, oggi d'un re scellerato straniero, facesse gente per rimettervi Tiridate suo fratello, acciò niuno di quella casa fosse senza imperio. Giunti i Parti, ne cacciaron gli Iberi senza combattere. Artassata e Tigranocerta, città d’Armenia, presero il giogo; ma lo tristo verno, o mal provvedimento di vivere, o l’uno e l’altro, v’ingenerò pestilenza che forzò Vologese a lasciar l’Armenia vota; e Radamisto vi rientrò rincrudelito, quasi contro a’ ribelli e felloni animi. Ad essi, benché usati a servire, scappa la pazienza, e l’assediano armati in palagio.
LI. Solo il correr de’ cavalli gli valse a salvar sé, e la moglie gravida. La quale per paura de’ nimici e amore al marito, resse a fatica al primo correre. Poi sconquassandosele il ventre, e le viscere dignazzandosele, lo prega che, per non lasciarla preda e strazio ai nimici, le dea morte onesta. Ei l’abbraccia, regge, conforta; ora stupisce della virtù di lei; ora arrabbia, pensando che altri la debba godere; finalmente violentato dall'amore o usato a crudeltà, sguainata la scimitarra, lei fìede e strascica alla riva, e gitta in Arasse, perchè nè anche il corpo sia rubato: e corresene a tutta briglia al suo regno d’Iberia. Zenobia (così aveva nome la donna) spirante e sicura di morte, fu veduta da certi pastori andarsene giù per lo lento fiume; i quali giudicandola gran donna, rozzamente le medicano e fasciano la ferita: odono il nome e ’I caso, e la portano in Artassata. Indi fu condotta dal pubblico a Tiridate, ricevuta cortescmente e trattata da reina.
LII. L’anno di Fausto Silla e Salvio Otone consoli, Furio Scriboniano, quasi avesse strologato la morte del principe, fu mandato in esilio, e con lui Giunia sua madre, che aveva rotto il primo confino suo. Camillo, padre dello Scriboniano, mosse armi in Dalmazia; e Cesare si recava a bontà perdonare allora anche al figliuolo del suo nimico. Vi morì prestamente; vollon dire alcuni di veleno. Fecesi in senato di cacciar d'Italia gl’indovini, legge rigida e in vano. Il principe lodò molto certi senatori uscitisi del grado per povertà; e ne cacciò altri simili, che pure il volevano tenere.
LIII. Fu proposta e vinta pena alle liberte, che senza licenza del padrone si congiugnessero con ischiavi, di ritornare esse schiave: ma nascerne liberti. Barca Sórano, consolo eletto, aggiudicò insegne di preture e trecento settantacinquemila fiorini a Pallante, cui Cesare disse trovatore di tal proposta; aggiunse Cornelio Scipione, che Pallante fusse ringraziato in pubblico, poichè per lo ben pubblico egli, nato de’ re antichi Arcadi, si dichinava a essere uno de’ ministri del principe; Claudio fece fede, che il buon Pallante si contentava dell’onor solo, e viversi nella sua povertà. Tosto il senato a questo libertino, ricco di sette milioni e mezzo d’oro, per decreto in bronzo, affisso in pubblico, attribui somme laudi d’antica parsimonia.
LIV. Non così contegnoso fu il suo fratello, detto Felice, messo prima a reggere la Giudea, il quale ogni libito si fe’lecito col caldo sì grande. Veramente i Giudei fecero cenno di ribellarsi, quando udita la morte di Caio, non ubbidiro *** si temeva che un altro principe non comandasse le stesse bestialità. Felice e Ventidio Cumano, con rimedi a rovescio, facevano a chi più accendere a ogni mal fare; governando questi la Galilea e Felice la Samaria, che si nimicavano per natura, e più allora che sprezzavano i mali governanti. Si rubacchiavano, assassinavano, tradivano e venivano alle mani. Le prede portavano a essi governanti, cui da prima ne ridea l’occhio; ma, cresciuti gli scandali, vi tramisero de’soldati, che vi rimasero morti; e ardeva la provincia di guerra, se di Sorìa non venia Quadrato, il quale agli ucciditor de’ soldati mozzò le teste senza pensarvi. Verso Felice e Cumano, avendogli scritto Claudio che giudicasse anche loro, come cagioni della ribellione, stette sospeso: e fecesi seder Felice allato in tribunale per uno de’ giudici, perchè di lui non parlassero gli accusanti. Così dei peccati di due punito fu solo Cumano; e la provincia quietò.
LV. Indi a poco tempo i Cliti, villani di Cilicia, soliti a sollevarsi, si mossero sotto Trosoborre lor capitano, e s’accamparono in monti aspri; indi calando alla città o marine, assassinavano terrazzani, lavoratori, mercatanti e barcaiuoli; e fu assediata Anemur e rotto Curzio Severo, mandatovi di Soria con cavalli, non buoni come i fanti, a combatter per quelle fratte. Antioco, re del paese, con lusingar que’ Barbari e ingannare il Capo, gli sbrancò. Lui uccise con pochi suoi principali, al resto perdonò e quietolli.
LVI. In questo tempo fu tagliato il monte tra il lago di Rossiglione e ’l Garigliano, perchè più gente vedesse la magnilica battaglia navale, ordinata in esso lago, a concorrenza di quella che fece Augusto nel pelago da lui cavato di qua dal Tevere, ma con meno legni e minori. Claudio armò galee e fuste con diciannovemila combattenti; fecevi di travate un cerchio acciò non potessero fuggire; agiato, da potervisi ringirare, maneggiare, vogare e combattere. Fanti e cavalli di guardia stavano in su le travi dietro ai parapetti ov’erano briccole e caricate balestre: soldati d’armata in legni coperti tenevano il restante del lago; i colli, le ripe e le cime de’ monti a modo di teatro, eran gremite di genti, venute dalle vicinanze e da Roma, per vedere o far corte al principe. Risederono, egli in abito imperiale, e poi lungi Agrippina in manto d’oro. Combattevano, benchè malfattori, da forti uomini e valorosi; e dopo molte ferite furon divisi.
LVII. Fatta la festa, fu dato l’andare all’acqua e scoperto l’errore dello spiano, non livellato al fondo, nè a mezz’acqua del lago; onde poi lo raffondò, e per ragunar di nuovo il popolo, gittativi sopra i ponti, vi fece una festa d’accoltellanti a piede; ove apparecchiò un convito allo sbocco dell’acqua, che sgorgò con tal furia, che si trasse dietro le cose vicine, e smosse le lontane; e ognuno stordì per lo romore: e Agrippina servendosi dello spavento del principe, voltasi a Narciso soprantendente dell’opere disse, averla lui fatta male in prova, per farne bottega e rubare; ned egli a lei la sua donnesca superbia e le troppo alte speranze risparmiò.
LVIII. Nel consolato di D. Giunio e Q. Aterio, Nerone di sedici anni sposò Ottavia figliuola di Cesare; e per dargli gloria di letterato e bello parladore, lo fecer difender la causa degl’Iliesi; ove con faconda diceria mostrò, come i Romani vennero da Troia, e Enea fu origine di casa Giulia, e l’altre antichità quasi favole; e ottenne che gl’Iliesi d’ogni gravezza di comune fussero esenti. Orante il medesimo, fu alla colonia bolognese, che patì grande arsione, donato dugento cinquantamila fiorini, e ai Rodiani renduta la libertà, spesse volte data o tolta; secondo che ci avevano fuori nelle guerre servito, o dentro per sedizione offeso; e alli Apamiesi, per gran rovine di tremoti, rilasciato per anni cinque il tributo.
LIX. All’incontro Agrippina con sue arti faceva fare a Claudio ogni crudeltà. Per avere ella il giardino di Statilio Tauro, famoso ricco, lo fece capitar male: e da Tarquizio Prisco, stato Legato suo in Affrica, quando vi fu viceconsolo, accusare di alcune baratterie e molti incantesimi; nè potendo più soffrire l’indegno e falso accusatore, s’ammazzò innanzi al sentenziar del senato; del quale, benché Agrippina s’opponesse, Tarquizio, per odio de’ Padri, pur fu raso.
LX. Più volte fu il principe in quell’anno udito dire, che le cose giudicate da’ suoi procuratori valessero come giudicato da lui. Il senato, perchè il detto non paresse considerato, ne fece decreto ancor più ampio. Volle bene Augusto che i cavalieri romani reggenti in Egitto, rèndessero ragione, e alle loro sentenze si stesse come fossero date da’ Magistrati di Roma: poscia in altre province e in Roma hanno avuto certe podestà, che toccavano a’ pretori; ma Claudio diè loro la giurisdizione intera, di che s’è combattuto tante volte con sollevamenti e armi; quando le leggi Sempronie mettevan l’ordine de’ cavalieri in possesso del giudicare, e le Servilie lo rendevano al senato. Le guerre tra Mario e Silla non furono quasi per altro: chi favoriva l’uno, chi l’altro ordine: e quel che vinceva, giudicava. Col braccio di Cesare C. Oppio e Cornelio Balbo furono i primi a poter disporre della pace e della guerra a lor modo. Della potenza de’ Mazj e Vedj, e altri cavalieri romani, non occorre dire; poiché Claudio i liberti, ordinati a governargli la casa, ha fatti pari a sé e alle leggi.
LXI. Propose di fare esenti da ogni tributo quei di Coo, della cui antichità molto disse: „Essere gli Argivi, o Ceo padre di Latona, venuti i primi in quell’isola; Esculapio avervi portato la medicina, stimata molto da’ suoi descendenti, i cui nomi e tempi contò; e come Senofonte medico suo era nato di quelli, e doversi fare, a’ preghi di quello, esenti del tutto gli abitatori di tale isola, a tanto Iddio consagrata e ministrante.„ Avevano i Coi senza duddio aiutato il popol romano in molte vittorie; ma Claudio, dolce al solito, non abbellì la grazia col ricordarle.
LXII. Il contrario fecero i Bizantini; che avuto udienza in senato, lamentandosi delle troppe gravezze, si fecero da capo a contare della lega fatta con esso noi, quando avemmo guerra col re de’ Macedoni, che ne fu eletto Filippastro, come traligno: e delle genti contro Antioco, Persa, Aristonico, mandate a noi e contro a’ Corsali ad Antonio; e dell’offerte a Silla, Lucullo e Pompeo fatte; e de’ freschi servigi a’ Cesari, per essere in quel sito, a passar eserciti e vettovaglie per terra e per mare tanto comodo.
LXIII. Avendo i Greci piantato Bizanzio nell’estremità d’Europa, diviso per piccolo stretto dall’Asia, per oracolo d’Apolline Pizio, che rispose loro: „Si ponessono dirimpetto alla Terra de’ Ciechi„; significando i Calcedonii, che essendo stati i primi a venir in que’ luoghi, non veduto il meglio, s’appresero al peggiore; essendo di Bizanzio grasso il terreno, e ricco il mare, per l’infinità de’ pesci, che, dal mar maggior e a furia calando, spaventati da biancheggianti sassi sott’acqua lungo l’Asia, torcono a questi porti: e già ne fecero gran traffico e ricchezze; ma poi le si mangiava il comune di Roma con le gravezze: e ne chiedevano fine o moderanza. Il principe, per esser affaticati nella passata guerra di Tracia e del Bosforo, li aiutò, e sgravò dai tributi per anni cinque.
LXIV. L’anno di M. Asinio e M. Acilio consoli molti prodigi mostrarono lo stato dover peggiorare. Arsero di saetta alcune tende e bandiere: uno sciame di pecchie si posò in cima di Campidoglio; nacquero umani parti bisformi; un porco con l’unghie di sparviere; e per mal segno fu preso che in pochi mesi d’ogni magistrato, de’ questori, edili, tribuni, pretori e consoli, ne morì uno. Più di tutti spaventò Agrippina un mal bottone, che gittò Claudio ebbro: „Che era destinato a sopportar le mogli scellerate un pezzo, e poi gastigarle„: onde ella si risolvè a fare, e tosto: e prima spegnere Domizia Lepida per cagionuzze da donne. Costei, per esser figliuola di Antonia minore e per lei, nipote d’Augusto, cugina carnale d’Agrippina, e sorella di Gneo, già marito di lei, non si teneva da meno di essa; giovani, belle, potenti eran quasi del pari: disoneste, infami, supèrbe, e non meno di vizj, che di prospera fortuna, gareggianti; e soprattutto di cui potesse più in Nerone, la zia o la madre. Lepida il giovane attraeva con carezze e presenti; per lo contrario Agrippina gli facea viso brusco e minaccioso, come colei che poteva far signore il figliuolo, ma non sopportarlo signoreggiante.
LXV. Ora di Lepida fu rapportato, d’avere con malie cercato il matrimonio del principe, e poco frenati li schiavi suoi in Calabria per tuibare la pace d’Italia. Per sì fatte cagioni fu dannata a morte; sclamandone molto Narciso, il quale ognora più temendo d’Agrippina, dicono che tra gli amici, disse: „Regni Britannico o regni Nerone, spedito sono. Ma io sono a Claudio tanto obbligato, che metterò la vita per lui volentieri. Convinsi Messalina e Silio: ora ci son da fare le medesime accuse; ma se Nerone succederà, me ne saprà il mal grado: e questa matrigna farà ogni cosa per disperder Britannico vero successore, con tutta sua casa; talchè io faceva minor male a starmi cheto di quelle vergogne prime, perchè non ci mancano queste seconde di Pallante; tanto stima ella poco l’onore, il grado, il corpo, ogni cosa, per regnare.„ Alzava le mani al cielo: abbracciava Britannico, pregando gl’Iddii che lo facesser crescer in età e vigore, per cacciar via i nimici del padre, e vendicarsi degli ammazzatori della madre.
LXVI. Claudio sotto ’l pondo di tanti pensieri ammalò, e andò per riaversi alla buon’aria e bagni di Sessa. Agrippina, già risoluta d’avvelenarlo, e quella occasione sollecitando, nè mancando ministri, si consigliava con qual veleno: repentino, scoprirebbe troppo; a termine e stento, Claudio se n’avvedrebbe, e condotto al capezzale, lo strignerebbe l’amore a lasciare al figliuolo. Piacque veleno che lo facesse uscir di sè, e morir adagio. Composelo Locusta, stata già condannata per maliarda, e poi più tempo tenuta tra le masserizie di stato. Diedelo Aiolo uno de’ castrati, che portava le vivande e facea la credenza;
LXVII. il che si riseppe poi tanto per l’appunto, che gli scrittori di que’ tempi contano che gli fu dato in su gli uovoli, de’ quali era ghiotto: e Claudio ebbro o balordo, non se n’avvide. La natura s’aiutò, e scaricossi di sotto, e parve guarito. Agrippina rimase morta; e, andandone il tutto, lasciò ire i rispetti, e corse a Senofonte medico, già acconcio. Egli quasi per farlo vomitare, gli cacciò in gola una penna, intinta in tossico da far subito; sapendo, i sommi eccessi cominciarsi con pericolo e spedirsi con premio.
LXVIII. Ragunasi il senato: e fanno i consoli e sacerdoti orazioni perchè il principe guarisse, quando egli era basito, e con panni caldi e pittime si celava, per accomodar le cose a fermar l’imperio a Nerone. In tanto Agrippina, quasi dal dolor vinta, e per consolarsi, teneva Britannico abbracciato e stretto, dicendolo esser lutto suo padre, con varie astuzie trattenendolo, che non uscisse di camera. Serrovvi altresì le sorelle Antonia e Ottavia; pose guardie a tutte le porte; e spesso dava voce che il principe migliorava; per tenere i soldati in buona speranza, e per aspettare il punto buono calcolato da’ Caldei.
LXIX. A mezzo il dì, tredici di ottobre, spalancate le porte del palagio, Nerone esce con Burro, e vanne alla coorte, che stava, secondo il costume, in guardia. Ove i soldati, avvertendoli Burro, il riceverono con allegre grida e misero in lettiga. Dicesi che alcuni si rattennero, domandando ove fusse Britannico; ma non v’essendo chi dicesse altro, si tolsero quel che venne; e Nerone portato nel Campo, fece acconce parole: promise il donativo che il padre diede, e fu gridato imperadore. Il fatto da’ soldati seguitarono le consulte del senato, e, senza pensarvi, le province. A Claudio furon ordinati onori divini, e fatte l’esequie come ad Augusto; gareggiando Agrippina con la magnificenza di Livia sua bisavola. Non si lesse il testamento, perchè al popolo non facesse stomaco l’ingiuria e l’odio dell’aver anteposto al figliuolo il figliastro.
fine del volume primo.