Annali (Tacito)/XI
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LIBRO UNDECIMO
SOMMARIO
- Anno di Roma dccc. di Cristo 47.
Consoli. T. Claudio Cesare IV e L. Vitellio III.
- An. di Roma dccci. Di Cristo 48.
Consoli. Aulo Vitellio e L. Vipsanio Publicola.
I. Portentosi principj segnalarono l’anno secolare, in cui Claudio Cesare la quarta volta ma sol surrogato, nuovo esempio in principe, L. Vitellio la seconda furon consoli. Il dì I gennaio, la notte dell’eclissi, tra Gozi e Santerini nell’Egeo spuntò un’isola, fu una fola la fenice portata in Roma da mostrarsi nel Comizio, che se ben marcia fandogna, fu dalla plebe avidamente mirata, e fattone rogito. Il principe altrove intento, col consolato il grado prese di censore dopo Paolo, e Planco non curato, a puntellar la repubblica, che crollava da vecchiaia e da’ vizi predominanti. Rimaser cassi de’ senatori per lusso rovinati e in ispregio. La scamparono i cavalieri per lor numero e ricchezze. Il resto della censura fu come fu, per le tante leggi.
II. Altro sfregio a quella testa vota, che anfana a secco, e con leggi sovra leggi tempesta il mondo, or che in peggior fogna sua casa affoga, era la sempre maggior arroganza de’ liberti. Cesse la lunga pazienza, più timor che rispetto all’indegnità. Al proferir in teatro un pantomimo quel del poeta, „Che rabbia un guidone in detta!„ affisaron tutti Polibio; che rispose di trionfo collo stesso poeta: „Anco de’ caprai sono stati re.„ A tanta tracotanza non fe’ mossa Claudio. Ma i comuni voti empiè Messalina; per virtù no, ma per non serbar fede a’ complici stessi, Polibio tolse di mira e uccise, di reo commerzio seco invischiato; uom di merito per letteratura e bell’ingegno, se l’ingenue arti con ontosa fortuna non disonorava.
III. Ma per non disgustar coll’assidue sozzure di Messalina chi legge, narriam di più lieto de’ Britanni. Il ben pubblico a lenti, ma certi passi curato avea Aulo Plauzio sopra mentovato. Indarno fero i Barbari delle sortite per odio a straniero giogo, e fidati alla pratica de’ luoghi; fe’ petto sempre del duce l’accortezza e l’invitta virtù di Vespasiano. Da’ lor sinistri abbattuti, baloccavan essi, e Plauzio coll’arti della pace dilatava il dominio. In tale stato mandossi Ostorio Scapula propretore a compier la felice opera. A Plauzio fu decretato il minor trionfo. Entrando in Roma uscì incontro il principe; e fugli a lato al salire e tornar del Campidoglio; oltra forse l’imperatoria maestà, ma non oltra al merito di Plauzio. A Vespasiano per due fortissime nazioni dome, e resa dell’isola Wight, dièronsi le trionfali.
IV. Ripullulò intanto l’antica peste in Roma del crimenlese, per far bottino, aonestandolo colla salvezza del principe. Molti furo accusati; l’ignobili difese lor bassezza, sulla massima di Claudio: „Non è a far vendetta d’una pulce come d’un leone;„ e qui restò la clemenza; nobili e potenti alla mazza; che soli bastavano a preda. Si mancava agli oppressi il conforto degli ultimi governi; e gli stessi che moriano, dolersi non sapean di crudeltà in Claudio; e ‘l compiagneano di debole e tutto moglie.
V. Tante stragi, per lei sola piagnendosi, che per abito a libidini, per consorteria di Vitellio, di sue enormità braccio, contro beni e vita altrui scagliavasi impunemente; e bastava per culpa il suo odio. Sì la rovina fe’ di Pompeo Magno, da lei imperversato per sua nobiltà e affinità alla casa sovrana. Tese poscia aguato a Poppea e a Valerio Asiatico; a quella per la gran beltà; per le gran dovizie a questo, e suoi amori con Poppea1, credendo che Valerio Asiatico, stato due volte consolo, già si giacesse con Poppea: e anche adocchiando il giardino che comperato già da Lucullo, egli con superba magnificenza abbelliva, fece lui e lei da Suilio accusare: e Claudio, quasi per Carità avvertire, da Sosibio, aio di Britannico: Che questi tanto ricchi e potenti non fanno pe’ principi: e che Asiatico, principale nella morte di Caio, ardì confessarla in parlamento al popol romano: „E se ne vanta, e vassene per Ruma chiaro: e per le province corre fama ch’ei vada a sollevar gli eserciti di Germania; che come nato in Vienna, e potente por multi e gran parentadi, gli saria facile.„ Claudio, senza altro intendere, spedisce Crispino capitano della guardia, con gente in furia, quasi ad opprimere una guerra: trovalo a Baia, legalo, menalo a Roma:
VI. Non in senato, ma in camera, presente , Suilio gli rinfacciò, aver con danari e lussurie corrotto i soldati ad ogni bruttura, adulterato Poppea, servito col corpo suo per femmina. A questo ruppe il silenzio, e disse: „Ti faran fede i tuoi figliuoli, Suilio, che io son maschio.„ Entrato a difendersi, mosse molto a Claudio l’animo e a Messalina le lagrime. Esce, per asciugarle, di camera e comanda a Vitellio, che non lo lasci scappare, e sollecitando la rovina di Poppea, manda a spàventarla di carcere, e indurla a uccidersi, tanto senza saputa di Cesare, che pochi giorni poi, mangiando seco Scipion suo marito, il dimandò: perchè fusse venuto senza la moglie; rispose, esser morta.
VII. Consigliandosi dell’assolvere Asiatico, Vitellio piagnendo, ricordato quanto tempo erano stati amici e divoti di Antonia madre, e quanto Asiatico fatto avea per la repubblica, e in questa guerra di Britannia, e altre cose, che pareano dette per muover compassione, conchiuse potersi al misero far grazia di morte a sua scelta, e Claudio glie la fe’ con eguali parole pietose. Confortandolo alcuni a morte, per digiuno meno aspra. Asiatico disse: „Io vi ringrazio;„ e dopo sue usate cure, lavatosi, mangiato allegramente, dicendo, che gli sarebbe stato più onore esser morto per sagacità di Tiberio o per furore di Caio, che ora per frode d’una femmina, e per la bocca di Vitellio impudica, si segò le vene. E prima veduto il rogo suo, comandò rifarsi altrove, acciò il vapore non abbronzasse le piante: di sì fermo cuore fu sino all’ultimo!
VIII. Ragunato poi il senato, Suilio seguitò d’accusare due illustri cavalieri romani, detti ambo Pietra, per aver prestato la lor casa agli abbracciari di Poppea con Mnestere: e a uno di loro fu apposto aver sognato Claudio coronato di spighe voltato allo indietro, e indovinatone carestia. Altri dicono di pampani sbiancati, e pronosticato che il principe morrebbe allo scorcio di quello autunno. Certo è che ambi morirono per un sogno. Crispino ne ebbe trentasettemilacinquecento fiorini d’oro e le insegne di pretore. A Sosibio, soggiunse Vitellio, diasene venticinquemila da che ei dà sì buon precetti a Britannico e consigli a Claudio. Richiesto anche Scipione di sua sentenza, disse, „Sentendo io de’ peccati di Poppea come tutti, fate conto che io abbia pronunziato come tutti„ Con sì gentil temperamento fu marito amorevole e grave senatore.
IX. Suilio continuò di fare accuse crudeli, e molti seguitarono il suo ardimento; perciocchè, mettendo il principe le mani nelle leggi e ne’ magistrati, aperse la via alle rapine: nè vi ebbe mercanzia di più spaccio che i tradimenti degli avvocati. Onde Samio cavalier romano de’ primi, avendo a Suilio dato diecimila fiorini, vedutosi messo in mezzo, s’infilzò in casa di lui in su la spada. Per lo qual caso cominciando C. Silio eletto consolo (della cui potenza e morte dirò a suo tempo), si levan su i Padri, e chieggono si osservi la legge Cincia: Che niuno per difender cause pigli presente, nè paga.
X. Sclamando que’ che n’aspettavan vergogna, Silio contro a Suilio dicea vivamente: Gli antichi dicitori aver veduto, il vero premio dell’eloquenza essere la fama eterna; il fare la reina dell’arti sordida bottegaia esserle troppa macchia, nè potere essere lealtade in chi serve chi più ne dà; difendendosi senza mercede, scemerebbono le liti; nutrirsi ora le nimicizie, l’accuse, i rancori, le ingiurie, affinchè, come le molte malattie la borsa empion a’ medici, così la peste del piatire agli avvocati. Ricordassonsi, che C. Asinio e Messala, tra i moderni Arunzio ed Esernino, salirono in grande altura per facondia e per vita candida. Piacque questo dire a tutti, e ordinavasi di condennargli nella legge del mal tolto. Quando Suilio e Cossuziano e gli altri vider trattarsi, non della loro colpa, ch’era chiara, ma della pena, accerchiano Cesare e preganlo che perdoni il passato. Ei chinò il capo, ed essi cominciarono:
XI. „Qual esser di loro sì superbo che si prometta fama eterna? ogni cosa ingoierebbono i potenti se non fussero gli avvocati, che non s’adottarono senza spesa, e per attendere agli altrui fatti lasciano i propri. Chi vive della guerra, chi dell’agricoltura: niuno vorrebbe far nulla che non credesse approdare. Asinio e Messala, arricchiti delle guerre tra’ Antonio e Augusto, e gli Esernini e gli Arrunzj di grosse ereditadi, potettero esser magnanimi; ma P. Clodio e C. Curione posero pregi alle loro dicerie: ognun sa quanto ingordi. Sè esser poveri senatori, dalla repubblica non volere altro che esser lasciati fare nella città quegli avanzi che la pace può dare. L’artefice lavora per andar un dì in civile; chi leva ì premj leva l’industria, come meno pregiata„. Parve al principe questo parlare a proposito, e tassò le mercedi sino a fiorini dugencinquanta; il soprappiù s’intendesse mal tolto.
XII. In questo tempo Mitridate, che fu re dell’Armenia, e presentato a Cesare, come dissi, tornò per consiglio di Claudio al regno, confidato nel poter di Farasmane suo fratello re d’Iberia, che l’avvisava i Parti esser in discordia, la sovranità dell’impero in forse, il resto in non cale. Perchè Gotarze, tra l’altre sue crudeltà, ordinava di far morire Artabano suo fratello, con la moglie e figliuolo; onde gli altri impauriti, chiamaron Bardane. Egli pronto a gran rischi, corre trecentosettantacinqne miglia in fine dì: caccia Gotarze sprovveduto e spaventato; piglia senza dar tempo gli stati vicini; solo i Seleuci lo ricusarono; contra i quali, come ribelli ancora di suo padre, s’accese di più che non chiedea quel tempo; e s’intrigò in assediare quella città, potente, vettovagliata, e forte di mura e fiume. Intanto Gotarze con aiuti de’ Daii e Ircani, rinnova la guerra; e Bardane costretto, lasciato Seleucia, s’accampa ne’ Battriani.
XIII. Le forze d’Oriente così divise, e dubbie ove si gettassero, diedero a Mitridate occasione d’occupare l’Armenia; e co’ soldati romani disfece le fortezze; e insieme con gl’Iberi corse la campagna, senza resistenza, e ruppe Demonatte capitano degli Armeni, che ardì rivoltarsi. Tenne un poco la puntaglia Coti, re dell’Armenia minóre, che vi mandò personaggi; ma per lettere di Cesare si ritirò; e il tutto colò in Mitridate, più atroce che regno nuovo non vuole. Ma ordinandosi i due capitani Parti a far battaglia, repente s’accordano, per le congiure de’lor popoli, da Gotarze scoperte al fratello. Abboccansi dapprima alquanto guardinghi; poi si danno le destre, e giurano su l’altare di vendicare la fraude dei nimici, l’uno all’altro cedersi. Parve più atto Bardane a tenere il regno, e Gotarze per levar gelosia, se n’ andò in Ircania. Seleucia s’arrese a Bardane ritornato, non senza vergogna dei Parti, da lei sola beffati sett’anni.
XIV. Prese poi le più forti province; e ricoverava l'Armenia, se Vibio Marzo, Legato in Sorìa, non lo ritirava con minacciarli guerra. Gotarze dell’aver ceduto il regno si ripente, richiamandolo la nobiltà, cui nella pace è più duro il servire: fa gente. Bardane, al passar del fiume Erindo, assai lo combatte, e vince; e con felice battaglia piglia tutte la nazioni sino al fiume Gindeno, che divide i Daii dagli Arii. Qui finirono le sue felicità; perchè non piacendo ai Parti, benché vittoriosi, il guerreggiar sì discosto, egli tornò in dietro, rizzatovi trofei e memorie di sua potenza; e come a niuno Arsacido innanzi a lui dato aveano quelle genti tributo, gran gloria, che Io fe’ più feroce, e insopportabile a’ suoi; i quali si unirono, e con ordito inganno, in caccia, lui non sospettante, uccisero giovanetto; ma pochi vecchi re fur sì chiari; se egli avesse stimato il farsi amar dai suoi, come temer dai nimici. La morte di Bardane confuse i Parti, non sappiendo chi farsi re. Molti voleano Gotarze; alcuni Meerdate figliuolo di Fraate, datoci per ostaggio. Vinse Gotarze. Ma entrato in possesso con crudeltà e pompe, forzò i Parti a mandare, segretamente pregandolo, al romano principe che lasciasse venir Meerdate al paterno regno.
XV. La festa de' cent’anni si vide quest’ottocentesimo dopo Roma edificata, e sessantaquattresimo da che la celebrò Augusto. Quello che movesse l’uno e l’altro principe a celebrarla lo narro, appieno nella storia di Domiziano, che la fece anch’egli, e io n’ebbi più briga, trovandomi allora de’ quindici, e pretore. Non lo dico per vanagloria; ma perchè questa era di quel collegio antica cura, e per mano dei magistrati passavano le cerimonie. Sedendo Claudio alla festa Circense, ove rappresentavano il gioco di Troia nobili donzelli a cavallo, e tra gli altri Britannico, nato dell’imperadore, e L. Domizio adottato, poi succeduto, e detto Nerone: parve predirgliele il favore della plebe, verso lui più ardente: e contavano che nella culla, quasi a guardarlo, stettero due serpi. Favole e maraviglie da stranieri, perchè egli, che non abbassava le cose sue, solea dire esserglisene veduta in camera una sola.
XVI. Ma recava questo ardore dalla memoria di Germanico, della cui stirpe non v’era altro maschio, e l’accresceva la compassione d’Agrippina sua madre, imperversata sempre dall’empia Messalina, e allora più che mai; ma dal trovar le cagioni e accusatori la svagava il nuovo amore di C. Silio, giovane il più bello di Roma; di cui era sì perduta, che per godersi tutto l’adultero, fece ch’egli scacciò Giunia Sillana sua moglie nobilissima. Conosceva Silio lo suo peccato e pericolo; ma il vedersi, negandole, spacciato; il poterlo forse frodare, i doni grandissimi, il fecero andare oltre, e intanto godere. Ella alla libera gli andava a casa con gran comitiva: uscito, l’accompagnava; gli versava tesori, lanciava onori: finalmente i servi, i liberti, arredo del quasi scambiato principe, si vedevano in casa l’adultero.
XVII. Ma Claudio, che queste tresche non sapeva della sua moglie, badando a fate il censore, riprese agramente la popolar licenza ne’ teatri, d’aver detto vituperi di P. Pomponio, stato consolo (che componeva versi agli strioni), e di donne nobilissime. Contro alle ingorde usure, fece legge: „Che niuno prestasse danari per pagare alla morte del padre„. Condusse nella città l’acqua delle fontane sotto i colli Imbruini. Aggiunse nuove lettere all’abbicì, veduto che anche il greco fu da prima imperfetto.
XVIII. Gli Egizj fur primi a significare i concetti della mente, e le memorie umane, per figure d’animali scolpite in sassi, che ancor se ne veggono delle antichissime; e diconsi trovatori delle lettere. Averle poi i Fenicj, possenti in mare, portate in Grecia: e della cosa apparata, per trovata, fattisi belli, essendo fama che Cadmo con armata di Fenicj passatovi, insegnò leggere a que’ Greci, allora rozzi. Alcuni scrivono che Cecrope ateniese, o Lino tebano, trovarono sedici lettere: e ne’ tempi di Troia, Palamede argivo tre; altri poi l’altre, e massimamente Simonide. Insegnolle in Italia a’ Toscani Damarato corintio; agli Aborigini Evandro d’Arcadia. Furono i latini caratteri quei de’ Greci antichissimi. Avemmo anche noi prima poche lettere, poi se n’aggiunsero, come da Claudio, le tre; mentre dominò usate, poi scartate: e se ne vede nelle tavole di bronzo, murate nelle corti e ne’ tempj, per pubblicare i decreti.
XIX. In senato propose sopra il collegio degli aruspici, che tanta scienza, in Italia antichissima, non si trasandasse: ed essersene in molti travagli della republica chiamati i maestri per rimetterla, e meglio usarla; averla i grandi di Toscana, volontari o spinti dai Padri di Roma, ritenuta e lasciata nelle famiglie, ora non si stimare, per la comune trascuranza delle arti nobili, e per attendersi alle superstizioni forestiere. Andarci ogni cosa prospero, ma doversene ringraziare i benigni Iddii; e non volere i sagri riti nell’avversità osservati, nelle felicità dismettere. I senatori ordinarono che i pontefici vedessero quanto dovessero gli aruspici ritenere e osservare.
XX. Nel detto anno i Cherusci, avendo per le civili guerre spenti i grandi, chiederono da Roma Italo per re, solo rimaso di stirpe reale, nato di Flavio fratel d’Arminio, e di madre nata di Catumero principe de’ Catti. Era bello, e di cavalli e d'armi maneggiator, a nostra e a loro usanza. Cesare gli diè danari, compagnia e animo a ripigliar la grandezza di casa sua. Lui primo nato in Roma, non ostaggio, ma cittadino, uscire a imperio straniero. Fu lieta a’ Germani sua prima giunta, massimamente carezzando egli, che non teneva parte, tutti ugualmente. Era celebrato, osservato: usava cortesie e rispetti, che a niuno dispiaciono: al vino e alle lascivie, che ai Barbari piaciono, spesso si dava; già ne’ vicini, già ne’ lontani risplendeva. Quando quei che solevano per le parti fiorire, sospettando di tanta potenza, se ne vanno agli stati confinanti, fanno fede: L’antica libertà germana essere ita; Romani risurgere; mancarvi forse uno de’ nati quivi da governargli, senza che la razza di Flavio spione gli cavalchi? L’esser nipote d’Arminio, che ei fa? del cui figliuolo, se fosse venuto egli a regnare, potersi temere come allevato in terra nimica, infetto da’ cibi, servaggio, abito, ogni cosa forestiero. Ma se Italo somiglierà suo padre, niuno aver mai voltato armi contro alla patria, e casa sua più traditore.
XXI. Così accesi, fanno gran gente: nè minore seguitava Italo, dicendo: Non esservi entrato per forza, ma chiamato; se agli altri soprastava in nobiltà, darebbe anche a divedere con la virtù se degno è del zio Arminio e di Catumero avolo: del padre non potere vergognarsi, se a’ Romani non ruppe mai quella fede con la quale andò a servirgli di volontà de’ Germani. Bel protesto di libertà pretender questi, che viziosi in privato, perniziosi in pubblico, non posson vivere che di discordie. Il volgo con fremito e baldanza lo favoriva. Fanno battaglia grande i Barbari. Vinse il re; della felicità insuperbì: fu cacciato: rifatto di forze longobarde, con vittorie e rotte travagliava i Cherusci.
XXII. In questo tempo i Cauci, quieti tra loro, e per morte di Sanquinio altieri, venendo Corbulone a trovargli, scorrono nella Germania bassa, sotto Gannasco capitano, di nazione Caninefato, stato lungo tempo tra i nostri aiuti: poi fuggitivo, corseggiava con vascelletti per lo più le costiere de’ Galli, conoscendogli ricchi e poco guerrieri. Entrato Corbulone in provincia, con gran diligenza e sua gloria (che cominciò in quella milizia) condusse le galee per lo Reno: l’altre navi, secondo che atte erano, per fosse e maresi; e nimici vascelli affondò. Cacciò Gannasco: e quietate le cose, le legioni di rubar vaghe, lavorìi nè fatiche non conoscenti, ridusse al costume antico, di non uscir di battaglia: non combattere, non comandare: le poste, le scolte, gli ufici del dì e della notte fare armati. Dicono che punì di morte due soldati perchè zappavano alla trincea, l’uno senz’arme, l’altro col pugnal solo; bestialità, che vere o false, trassero origine dalla severità del capitano, per mostrare quanto ei fusse casoso e spietato nei peccati grandi, lo’ tanto crudo, aspro nei menomi.
XXIII. Questo terrore fece due effetti diversi; accrebbe a’ nostri soldati la virtù, ai Barbari scemò la fierezza: e a’ Frisoni, dopo che sconfissero L. Apronio, fatti ribelli o poco fedeli, dati ostaggi, parve buono starsene a’ terreni, senatori, magistrati e leggi, che diè loro Corbulone; il quale, perchè non iscotessero il giogo, rinforzò la guarnigione, e mandò a sollecitare i principali Cauci allo arrendersi, e Gannasco tradire. Il trattato riuscì, e ben gli stette al fellone fuggitivo; ma la sua morte alterò le menti de’ Cauci; e Corbulone seminava scandoli da farli ribellare. A’ più piaceva: alcuni ne levavano i pezzi: „Perchè stuzzicare i calabroni? Se ei riesce male toccherà alla repubblica; su bene, non è buono per la pace quest’uomo terribile, e a questo principe debole, troppo grave.„ Laonde Claudio, non che dare altra noia alla Germania, fece tornar le guarnigioni di qua dal Reno.
XXIV. Già poneva Corbulone il campo in terra nimica quando ebbe la lettera; e benché sopraffatto in quel subito da più passioni, paura dell’imperadore, dispregio de’ Barbari, riso degli amici, senza dire altro, che: „Oh felici già i capitani romani!„ sonò a raccolta. E per non tenere in ozio i soldati, tirò dalla Mosa al Reno un fosso di ventitré miglia, che ricevesse i reflussi dell’Oceano. Cesare gli concedè le trionfali, benché gli avesse negata la guerra. Il medesimo onore ebbe poi Curzio Rufo, per avere scoperto nel contado di Mattiaco cave d’ariento; non ricche, nè duravano; ma le legioni ne aveano fatica e danno, convenendo zappar nell’acqua, e far sotterra quel che sarebbe duro nell’aria. Onde i soldati, che più non poteano, e questa festa era in più province, fanno segretamente una supplica in nome delli eserciti, pregando l’imperadore, che quando voleva dar loro un generale gli desse prima le trionfali.
XXV. Dell’origine di Rufo, che alcuni dicono nato d’un gladiatore, non direi il falso, e mi vergogno del vero. Fatto uomo, s’accontò col questor dell’Affrica; e trovandosi in Adrumeto, ne’ portici, tutto solo di mezzodì, gli apparve una donna più che’ umana, e gli disse: „Rufo, tu ci verrai viceconsolo„. Incorato da tale agurio, tornò a Roma; e con danari d’amici e vivezza d’ingegno, divenne questore: e poi a competenza di nubili, pretore, col voto del principe Tiberio, che disse per ricoprir sua bassezza: „Rufo mi par nato di se stesso.„ Molto visse: fu brutto adulator co’ maggiori, co’ minori arrogante, con gli eguali fastidioso. Ottenne lo imperlo consolare, le trionfali, e finalmente l’Affrica, ove morì, e l’augurio avverò.
XXVI. In Roma Gneo Novio, illustre cavalier romano, tra molti che salutavano il principe, fu trovato con l’arme sotto, senz’essersene mai saputo il perchè. Straziato da tormenti, confessò di sè; complici, o non vi ebbe o non nominò. Questo anno P. Dolabella pronunziò, che lo spettacolo delli accoltellanti si facesse ogni volta a spese de' questóri di quell’anno. Gli antichi nostri davano la questura per premio di virtù; e poteva ogni cittadino che si sentisse virtuoso chiedere magistrati; e faciensi consoli e dettatori di prima giovinezza, non si guardando a età. Ma i questori furono insino da’ re ordinati; il che móstra la legge Curiata, che Bruto rinovò; e gli faceano i consoli sino a che anche questo onore volle dare il popolo. I primi fatti, furono Valerio Poto ed Emilio Mamerco, l’anno sessantatre dopo la cacciata de’ Tarquini, perchè andassero con l’esercito. Cresciuti i negozi, ne furono aggiunti due per istare in Roma: poi raddoppiati, fatta già tutta Italia tributaria, e aggiunte le gabelle delle province. Indi per legge di Siila ne furon creati venti, per arroti a’senatori, a’ quali soli aveva conceduto il giudicare; e benché i cavalieri l’avessero riavuto, la questura si dava per merito dei chieditori, o per cortesia, senza costo, sino a che la sentenza di Dolabella la mise quasi in vendita.
XXVII. Entrati consoli A. Vitellio e L. Vipsanio, trattandosi di arrogere senatori, e raccomandandosi i grandi della Gallia Comata, già fatti cittadini e confederati romani, di poter goder gli onori della città, innanzi al principe fecesene molto e diverso ragionamento, e garose contese: Non essere Italia sì al verde, che le manchi da rifornire il senato alla sua città: averlo fatto già i naturali del luogo coi popoli parenti e vicini; nè del governo antico poterci dolere; anzi tutto di esempi di quei buon vecchi accenderci a virtù e gloria. Non bastare l’essere in senato balzati gl’Insubri e i Veneti, se gli sciami de’ forestieri non vi corrono, come a presa città? A pochi nobili, che onori poter rimanere? A povero gentiluomo latino chi ne vorrà dare? Inghiottirglisi anzi tutti que’ ricchi, eredi de’ loro avoli e bisavoli, stati capitani de’ nemici ucciditori degli eserciti romani, assediatori del divino Giulio ad Alesia. Queste esser cose fresche: e perchè non ricordarsi che questi son quelli che gittarono il Campidoglio e il romano altare per terra con le lor mani? Godessonsi il nome di cittadini; ma gli splendori de’ Padri, gli onori de’ magistrati non si accomunassono.
XXVIII. Non mossero tali cose, il principe; anzi incontanente contraddisse, e chiamando il senato così cominciò: „I miei antichi (tra i quali il più antico Clauso, di nazione Sabina, fu fatto cittadin romano e senatore a un’otta) m’insegnano governar la repubblica col senno loro, di condur qua ciò che altrove è d’eccellente, sappiendo che i Giuli da Alba, i Coruncani da Camerio, i Porzj da Tuscolo, e per non ricercar l’antichità, dalla Toscana, dalla Lucania, da tutt’Italia furon chiamati uomini in senato; e in ultimo fino dall’Alpi, a fine d’accrescere, non a un uomo per volta, ma a cittadi, a nazioni, il nostro nome. Stemmo dentro in ferma pace e di fuori fiorimmo, allora che facemmo que’ d’oltre al Po cittadini, e che mostrando di metter soldati nostri per tutto il mondo, gli mescolammo col nerbo di que’ paesani, e ne rinvenne lo imperio stanco. Sacci egli male ch’e’ ci sieno venuti i Balbi di Spagna, e non meno grandi uomini della Gallia Nerbonese? I loro descendenti ci sono, e amano questa patria al par di noi. La rovina de’ Lacedemoni e degli Ateniesi, sì forti d’arme, che fu, se non il cacciar via i vinti come strani? Ma il nostro padre Romolo, ebbe tal sapienza, che molti popoli vide suoi nimici e cittadini in un dì. Avemmo de’ re forestieri; si son dati de’ magistrati a figliuoli di libertini: non oggidì, come molti s’ingannano, ma dal popolo antico. Oh, i Senoni, combatterono; i Volsci, e gli Equi non ci voltarono mai punte? I Galli ci presero; demmo anche ostaggio a’ Toscani; patimmo il giogo dai Sanniti. Ma se tutte le guerre riandi, quella co’ Galli fu la più corta, con pace continuata e fedele. Da che quésti son mescolati con esso noi con usanze, arti e parentadi, portino anzi qua, che tenersi là il loro oro e ricchezze. Tutte le cose, o Padri Coscritti, che ora crediamo antichissime, furon già nuove. Tennero i magistrati prima i Padri; poscia i plebei, indi i Latini; poi d’ogni sorte Italiani; tenendoli ora i Galli, anche questo farassi antico: e dove noi l’aiutiamo con esempli, s’allegherà per esemplo.
XXIX. Decretarono i Padri secondo la diceria del principe. E gli Edui fur prima i Romani senatori, per l’antica lega, e perchè soli tra i Galli si chiamano fratelli del popol romano. In questi giorni Cesare dichiarò patrizi i senatori più vecchi o discesi d’uomini chiari, restandovi pochi di quelle famiglie che Romolo appellò della gente maggiore, e di quelle che L. Bruto, della minore; e così delle arrote da Cesare dettatore per la legge Cassia e da Augusto per la Senia. Tra questi grati provvedimenti pubblici, bramando Cesare nettare il senato d’alcuni vituperosi, per dolce e nuovo modo tratto dall’antica severità, gli consigliò in disparte a conoscersi e supplicar di non esser più senatori; che gli consolerebbe con dir, loro esser usciti di quell’ordine di buona voglia, con buona scusa e meno vergogna che cacciandonegli per buon giudizio i censori. Per cotali azioni Vipsanio console propose che Claudio si gridasse Padre del senato: Padri della patria essere stati detti altri; doversi i meriti verso la repubblica nuovi onorar di vocaboli non usati, Ma egli diede in su la voce al consolo come troppo adulante. Fece il lustro, e si registrarono sei milioni e novecento quarantaquattromila. Allora aperse gli occhi a’ disordini di casa sua, e poco appresso, tirato pe’ capelli, conobbe e uccise la rea moglie per poi torre la nipote carnale.
XXX. Già Messalina, ristucca della agiata copia degli adulteri, si dava a non più sapute libidini; quando Silio per fatale pazzia, o pensando rimediar al pericolo con altro maggiore, la cominciò a stimolare di matrimonio scoperto: Non potersi aspettar che si morisse il principe di vecchiaia; per la diritta poter andar gl’innocenti; ne’ peccati scoperti giova l’ardire; essere in aiuto i compagni al pericolo; esso, che non ha moglie nè figliuoli, la sposerebbe; adotterebbe Britannico; essa manterrebbe la grandezza medesima, e più sicura, se Claudio, che non si guarda, poi è rottissimo, vincessono della mano. Di questo dire ella non fe’ capitale; non per amor del marito, ma perchè Silio montato in sella, non la spregiasse e riconoscesse le scelleratezze già ne’ frangenti piaciuteli. Volle bene il nome di matrimonio, per la grande infamia, ultimo piacere di chi ha mandato giù la visiera; e fe’ le nozze solenni, tosto che Claudio fu ito ad Ostia per certo sacrifizio.
XXXI. Veggo che parrà favola che persona ardisse cotanto in una città, che tutto sa e nulla tace; che l’eletto consolo si trovasse il dì accordato a sposar colei ch’era moglie del principe; se ne facesse carta con testimoni, quasi rispetto a’ figliuoli da nascere; ella udisse le parole degli auspici; dicesse di sì; sagrificasse agl’Iddii; passasse tutta la notte in convito, con baci, abbracciari e licenze da nozze. Ma io, senza punto aggrandire, dirò quello che ho letto e udito da’ vecchi.
XXXII. Rimase la casa del principe spaventata; e i già potenti, in pericolo per tal novità, non più bisbigliando, ma sbuffando alla scoperta dicevano: „Mentre lo strione corse per suo il letto del principe, vergogna fu, ma non rovina. Ora questo giovane nobile, bello a maraviglia, vicino al consolato, fa più alto disegno. Chi non vede di tal matrimonio la conseguenza?„ Metteva certamente paura il veder Claudio grossolano, preda della moglie, che aveva fatto ammazzar molti. Confidavano d’altra banda per esser egli dolce, e ’l fatto atrocissimo, poter far prima uccidere che accusare. Ma il fatto stare, che ella le sue ragioni non gli dicesse, nè eziandìo confessando avesse udienza.
XXXIII. E prima discorsero insieme Calisto, di cui parlai nella morte di Cesare, e Narciso, che tramò quella d’Appio, e Pallante favoritissimo; se meglio fosse minacciarla segretamente se non si levava da questo amore di Silio, non curando il restante. Poi, temendo di non ci rompere il collo, si ritirarono, Pallante, per codardia, Calisto avendo nella passata corte imparato, che le vie caute più che l’ardite mantengono in grandezza. Narciso stette in proposito, ma procurò che ella non penetrasse nè l’accusa nè l’accusatore: e aspettando l’occasione, dimorando molto Cesare in Ostia, strinse due sole molto usate femmine a darle l’accusa, donando, promettendo, mostrando che, cacciala questa moglie, salirebbono in cielo.
XXXIV. Calpurnia, una di queste, tosto che n’ebbe l’agio, abbracciate le ginocchia di Cesare, gridò, „Messalina s’è rimaritata a Silio. Non l’hai tu inteso, Cleopatra?„ che era l’altra quivi ritta: „Ben sai che sì ho.„ Egli fece venir Narciso, il quale disse: „Perdonami, se io più che Vezio e Plauzio ho chiusi gli occhi, nè anche ora gli adulteri t’accuserò. La cosa è qui: lasciagli la casa, i servi, l’arredo in mal’ora, e rendati la moglie: straccisi la scritta del matrimonio, non lo sai tu che Silio ha sposata Messalina coram popolò, senato e soldati? e se troppo balocchi, Roma sarà di questo marito bello„.
XXXV. Chiamò allora Turranio, caro sovra tutti, provveditor dell’abbondanza, e Lusio Geta generale della guardia, e disse: „È egli vero?„ dissero: „Sì; e ognuno quivi rumoreggiava che andasse in campo; fermasse quivi soldati; s’assicurasse prima e poi gastigasse. Certo è che Claudio per lo spavento domandava a ogni poco: „Chi era imperadore, egli o Silio?„ Ma Messalina più sfrenata che mai, faceva in casa le maschere de’ vendemmiatori nel buono dell’autunno: pigiare, svinare, femmine di pelli cinte saltare, quasi furiose baccanti o sacrificanti. Ella tutta scapigliata, brandiva il tirso, e Silio allatole, cinto d’ellera, in calzaretti, civettava col capo, facendoglisi intorno con grida disonesta danza. Dicono che Vezio Valente per capriccio inarpicò sopra un alto arbore, e domandato che vedesse, rispose: „Venire di verso Ostia un tempo nero„. Fosse vero o venutogli detto, indovinò.
XXXVI. Vennero da ogni banda messaggi, non pure romori, che Claudio sapeva tutto e veniva difilato al gastigo. Laonde Messalina si ritirò nel giardino di Lucullo; e Silio (per non mostrar paura) a’ suoi ufici de’ magistrati. Chi fuggì qua e chi là. Comparvero i centurioni, e presero i fuggiti fuori o nascosi, secondo che s’avvennero. Messalina, benchè per l’avversità fuor di sè, prese animo d’incontrar il marito e mostrarglisi; il che le aveva spesse volte giovato: e mandò Britannico e Ottavia ad abbracciar lor padre, e Vibidia, la più vecchia Vestale, ad impetrarle perdono, come pontefice massimo. Intanto ella con tre soli (sì tosto piantata fu) passò Roma a piede dall’una parte all’altra, prese una carretta da nettare orti, e si mise in via d’Ostia, senza increscerne a persona, per sì brutte scelleratezze.
XXXII. Cesare nondimeno temea molto della fede di Geta generale, al bene come al male voltabile di leggieri. Onde Narciso volto a’ compagni al medesimo pericolo, disse: „Cesare non potersi salvare se non dava a uno di loro liberti, per quel dì solo, tutta la potestà di comandare a’ soldati„; e offerissi a prenderla. E perchè andando a Roma non facessero L. Vitellio e P. Largo Cecina pregar Cesare a misericordia, gli dimandò e ottenne d’entrar seco in cocchio.
XXXVIII. Molto si disse, che ora abbominando il principe la ribalda moglie, ora ricordando le sue dolcezze, e que’ figliuolini, Vitelìio non disse mai, se non: „Oh gran cosa! Oh scelleratezza!„ Narciso gli faceva instanza che parlasse chiaro e si scoprisse. Ma non fu vero che da lui nè da Cecina traesse che parole mozze e doppie. Appariva già Messalina, e gridava: „Ecco la madre d’Ottavia e di Britannico: odila:„ e Narciso le copriva la voce, sclamando di Silio e delle nozze: e divertì Cesare dal guatarla, dandogli a leggere una lista di sue disonestadi. Affacciavangli alla porta della città i comuni figliuoli, e Narciso gli fe’ levar via. Non fu riparo che Vibidia non chiedesse agiamente che non facesse morire la moglie senza difesa. Dissele che quella sarebbe udita, e potrebbe scolparsi andasse alle sue devozioni.
XXXIX. A queste Claudio parve mutolo, Vitellio stordito; il liberto era il tutto. Fece aprire la casa di Silio, entrarvi l’imepradore. Mostragli prima nell’andito la statua del padre di Silio, già dal senato sbandita; poi, quante spoglie ebber mai i Neroni e i Drusi, essersi date in pagamento delle sue corna. Accesolo d’ira e di maltalento, il mena in campo a parlare a’ soldati che l’aspettavano. Disse poco, imboccato da Narciso: e non poteva per la vergogna esprimere il giusto dolore. Andavano al cielo le grida delle coorti, chiedenti e ’l nome e ’l gastigo dei colpevoli. Silio condotto al tribunale, non tentò difesa, pregò che lo spacciassero. Con la medesima fortezza d’animo sollecitaron gli altri illustri cavalieri romani la morte alla quale furon menati. Tizio Proculo, dato da Silio a Messalina per guardia, e Vezio Valente confessante e offerente nominare altri, e Pompeo Urbico e Saufello Trogo consapevoli e Decio Calpurniano capo delle guardie di notte; e Sulpizio Rufo sopra il festeggiare, e Giunco Virgiliano senatore.
XL. Solo Mnestere la indugiò un poco, perchè stracciatosi i panni gridava: „Guardasse Cesare i segni delle bastonate: ricordassesi quando gli comandò che ubbidisse Messalina. Gli altri aver citato per gran premj o speranze, egli a viva forza: e se Silio regnava, il primo era egli a morire„. Mosso Cesare, per natura tenero, a perdonargli; ma i liberti non vollero che tra tanti grandi uccisi rispettasse un giocolare; per forza o per amore, peccato grandissimo avea. Meno fu accettata la scusa di Traulo Montano cavaliere, modesto giovine, bellissimo di essere stato chiamato; una notte sola giaciuto e cacciato; essendo pari in Messalina spasimo e fastidio. Salvaron la vita a Plauzio Laterano il merito grande del zio, e a Suilio Cesonino i vizi suoi, avendo servito per femmina in quel vituperoso baccano.
XLI. Messalina in tanto nel giardino allungava sua vita: componeva suoi preghi; veniva quando in isperanza, quando in collera. Tanta superbia in tanto estremo riteneva!, e se Narciso non era destro e sollecito, la morte tornava in capo a lui; perchè Claudio, tornato in casa, e con vivande straordinarie indolcito e riscaldato nel vino: „Fate intendere a quella poverella,„ così disse: „che venga domani a difendersi.„ Per questa parola vedendosi l’ira allenare, tornar l’amore, e temendosi della notte vicina e del letto. Narciso subito ordinò a’ centurioni che l’ammazzassero; così comandava l’imperadore; e Evodo liberto andasse a fare eseguire. Corre al giardino, trovala per terra stramazzata a’ piè di Lepida sua madre, che nella felicità l’abborriva, e nella miseria n’ebbe pietà: e consigliavala non aspettasse l’ammazzatore; spacciata era; pensasse a far morte onorevole. Ma in quell’animo guasto per le libidini non capea onore; duoli e pianti. Eccoti i soldati dar nella porta e abbatterla. Comparine addosso il tribuno senza parlare, e il liberto, che le disse villania da cani.
XLII. Allora conobbe la sua fortuna, e prese il ferro e tirossi alla gola e al petto invano: perchè la mano le tremò; il tribuno la trapassò di stoccata. Il corpo si donò alla madre. A Claudio, che mangiava, fu detto: Messalina esser morta; non se di sua mano o d’altra, ned ei lo cercò; chiedette bere, e seguitò la cena all’usato. I giorni appresso non fece segni d’odio, ira, dolore, allegrezza o d’alcuno umano affetto: non quando vedeva gli accusanti gioire, non quando i figliuoli lacrimare. Il senato ancora l’aiutò a dimenticarsene, perchè ordinò si levasse il nome e l’effigie di lei d’ogni luogo pubblico e privato. A Narciso furon date le insegne di questore, cosa di niente a lui, divenuto il primo della corte dopo. Pallante e Calisto; orrevole nondimeno, ma partorì pessimi effetti senza gastigo.
fine del libro undecimo
- ↑ (*) Qui rientra Tacito.