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438 | DEGLI ANNALI |
XLIII. Apparvero in quell’anno di molti segni: uccelli di mal’uria posati in Campidoglio; tremuoti rovinarono molte case, e nella calca de’ fuggenti spaventati affogarono i più deboli; ricolte triste, e quindi la fame. Onde, non pure si mormorava di Claudio, ma rendendo ragione, la gente con le grida assordandolo, e ripinto in un canto del Fóro pigliandolo, la guardia ebbe a fargli far largo. Trovossi non v’esser pane che per quindici dì: ma gl’Iddii benigni, e’l verno dolce ne scampaiono. Già Italia nutriva i paesi lontani, nè oggi è sterile; ma e’ ci giova più tosto coltivar l’Affrica e l’Egitto, e fidare la vita del popol romano alle navi e alla fortuna.
XLIV. Nel detto anno tra gli Armeni e gl’Iberi nacque guerra, che cagionò ancora tra Parti e Romani grandissimi movimenti. Era re de’ Parti per volontà de’ fratelli Vologese, nato di concubina greca; degl’Iberi Farasmane per lungo possesso, degli Armeni Mitradate, suo fratello, per nostra potenza. Aveva Farasmane un figliuolo detto Radamisto; bello e grande e forte, dell’arti paesane scaltrite, e di chiara fama tra quelle genti. Il quale troppo spesso e feroce, scoprendo suo appetito, usava dire: „Abbiamo un dito di regno, e tienlo un barbogio.„ Temendo adunque Farasmane, grave d’anni, di questo giovane; poderoso, fiero e di seguito, lo rivoltò a un’altra speranza dell’Armenia, ricordandogli averla egli data a Mitradate, cacciatone i Parti; ma doversi prima che con la forza, veder di ritorlagli con inganno, quando ei non vi pensa niente. Così Radamisto ne va al zio, infintosi cruccioso col padre per le ingiurie della matrigna: e ricevuto con carezze da figliuolo, persuade i principali Armeni a tal novità,