Verona illustrata/Parte prima/Libro terzo
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DELL’ISTORIA
DI
VERONA
LIBRO TERZO
Venuta intorno all’anno 534 nostra alla divozion de’ Romani, dopo il soccorso mandato loro, come abbiam veduto, prima della battagba di Canne, nel corso d’assai tempo appresso nulla possiamo dir di essa, che non sia comune alla Venezia tutta, anzi in gran parte alla Gallia cisalpina ancora. Ma per indagare quanto spetta in queste nostre parti al governo, alcuna osservazione è necessario premettere sul modo tenuto da’ Romani ne’ paesi che andarono incorporando al dominio loro. Mirabil cosa è, come alle regioni ed a’ varj popoli, per cinque secoli con tanto sudore e con tanto sangue vinti e sottomessi, Preside o Governatore alcuno essi non ebbero in uso d’imporre. Continuavano quelle genti nella lor libertà e nel lor governo come per l’innanzi; e generalmente poco altro ne tornava d’aggravio, che il contribuire armi, gente, danaro in tempo di guerra, come da ogni buon confederato si sarebbe dovuto fare. Alcune città debbono solamente eccettuarsi, alle quali, avendo demeritata l’umanità de’ Romani, si mandava quasi per castigo ogni anno il Prefetto, ond’ebbero nome di Prefetture. Ma altro metodo fu preso, quando si cominciò a stendere fuor d’Italia il dominio. Conquistate però Sicilia e Sardegna, nell’anno 527, oltre alli due che teneano ragione in Roma, altri due Pretori si cominciò a creare, i quali d’anno in anno all’amministrazione di quell’isole, e a giudicare in esse si trasmetteano, il che fu poi detto ridurre in provincia: dovendosi osservar però, che non per questo minor Prefetto o Magistrato alcuno si mandava nelle città, le quali, generalmente parlando, in ogni provincia fino all’ultimo respiro del Romano Imperio con subordinazione al Preside generale si ressero da se, e col proprio Consiglio, e per li suoi proprj cittadini; nè regolarmente si vide Prefetto nelle città, se non per occasion di guerra, e per comandarvi presidio o truppe.
Con la sconfitta degl’Insubri si fece poi strada alla conquista di tutta la Gallia cisalpina; e quinci datasi, come si è detto, volontariamente alla Romana Republica la Venezia ancora, il nome Romano occupò finalmente quanto era dentro l’Alpi. Qui bisogna avvertire che la Venezia tutta acquistò allora nome di Gallia, anzi l’acquistaron poi anche la Carnia e l’Istria, come incorporate per ragion di governo alla cisalpina Gallia; poichè quando avveniva che per guerra, o per occasioni nate, Pretore o altro Magistrato mandassero nella Gallia i Romani, comandava questi fino all’Illirico, come dall’altre parti fino al Rubicone ed al Varo. Dove però particolar motivo di separazione non nascesse, comprendea la sua giurisdizione Liguri, Galli e Veneti; ma si continuò da’ Romani a tutto il tratto la denominazione ch’era prima invalsa, per essere stati primi in questa metà d’Italia i Galli a venire sotto il dominio. Quindi è che si trova aver Cicerone (Phil. 12) tra le parli della Gallia computato il Padovano, e armenti Gallici chiamar Columella (lib. 7, c. 2) quei d’Altino, e paludi Galliche Vitruvio (lib. 1. c. 4) quelle ch’erano intorno Aquileia.
Per far adunque ricerca de’ Rettori nostri, si arebbe qui a tesser la serie de’ Presidi della Gallia cisalpina; e tanto si potrebbe agevolmente fare, se veramente provincia a tenor dell’altre fosse stata questa, come comunemente si pensa. Ma che in fatti non fosse, appar dal considerare che non s’accrebbe il numero de’ Pretori nell’acquisto delle regioni Cisalpine, come s’era accresciuto nell’acquisto della Sicilia e della Sardegna, ma si continuo a crearne quattro fino all’anno 557, quando dilatato nelle Spagne il dominio, si ampliò il numero de’ Pretori sino a sei, restando però i due aggiunti, quando accidente nol vietasse, regolarmente assegnati alla Spagna citeriore ed all’ulteriore. Noi veggiam dunque fino all’anno 588, ch’è quello in cui per somma sventura Livio ci abbandona, non altre provincie essersi annualmente sortite in Roma, oltre alli due Pretori urbani, che le due Spagne, e Sicilia e Sardegna. Si praticò l’istesso ancora per assai tempo; onde ben si vede come fra le provincie, il governo delle quali d’anno in anno col mezzo della sortizione a un Pretor si assegnava, la cisalpina Gallia non era. Ma ch’essa, come dentro l’Alpi, in condizioni di provincia non fosse, apparisce ancora dall’esser tutti questi popoli stati sempre ricevuti nelle armate Romane, nelle quali non militavano ne’ buoni tempi i provinciali ed esteri. Di legionarj e d’ausiliarj si componeva il Romano esercito: anticamente quelli erano cittadini Romani, questi Italiani: però si ha in Polibio (lib. 6) che quando i Consoli per occasion di guerra avean bisogno d’aiuti, ne mandavano l’avviso alle città sozie d’Italia, ed a que’ lor cittadini da’ quali erano rette: nè avanti le guerre civili, e il declinare della Republica, provinciali ci furon regolarmente ammessi. All’incontro de’ popoli di qua dall’Alpi quattro coorti ausiliarie di Liguri si nominano in Sallustio, ch’eran nella guerra di Giugurta; e quando falsa voce si sparse d’esser rotto e disfatto dagl’Istri Aulo Manlio console, il collega ebbe ordine di levare quanti soldati ausiliarj fosse possibile da tutte le città della Gallia; il che fece egli subito dalla Liguria fino in Aquileia, e però in tutta la Venezia ancora (Liv. lib. 41). Del non essere questo paese stato computato tra le provincie, pu forte pruova ancora ci somministra Patercolo (lib. 2), il quale annoverando le provincie tutte dell’Imperio, e quando e da cui, di parte Cisalpina alcuna non fa menzione, nè altre Gallie registra, che la Transalpina da Domizio penetrata, e da Cesare al fin sottomessa. Ecco però come distinte e considerate fossero da’ Romani nelle prime età del dominio quelle regioni tutte che furono nell’Italia comprese.
Spicca da quanto si è detto l’error di coloro, che non solamente amministrata ne' primi tempi da ordinario Proconsole la cisalpina Gallia, ma hanno creduto sottoposta sempre a Presidi Romani anche l’Italia interiore, o con titolo di Proconsoli, o di Questori. Questo sarebbe un confondere tutto il sistema de’ tempi Romani, e uno stravolgere affatto l’antica idea del governo. Sottoporre a un Preside tanto era, quanto ridurre in provincia: ma chiunque su gli antichi Scrittori gettò mai gli occhi, sa che Italia e Provincie, Italiano e Provinciale si dissero perpetuamente quasi per contraposto. Fin quando i Triumviri ripartirono tra se le provincie tutte, e l’Imperio si divisero, e quando poi vinti Cassio e Bruto, nuova division si fecero Antonio e Cesare, non occorre, dice Dione (lib. 48, init.), che dell’Italia io parli, imperocchè rimase in tali contingenze eccettuata sempre, professando essi contendere non di essa, ma per essa; cioè non per signoreggiarla, ma per difenderla. Un passo è in Appiano (Civ. I. 1: ἦσαν γὰρ ὠς ἔοικε, ec.) che ha fatto inganno a molti, ove narrando quell’uccisione in Ascoli, che fece scoppiar la mina della congiura Soziale, dice che l’ucciso fu Servilio, il quale in quel paese era Proconsole; e da ciò crede potersi congetturare che in quel tempo si assegnasse l’Italia divisa in parti a varj Proconsoli da reggere; ma errò quivi Appiano prima nel fatto, poichè scrive Lucio Floro (l. 4; c. 13; trucidatis qui tum aderant ab Urbe Legatis) che gli uccisi allora dagli Ascolani furon Legati mandativi da Roma, e non Proconsole alcuno; ed errò ancor più nella congettura; poichè s’anche vi si fosse ucciso un Proconsole, cotesto sarebbe stato Magistrato straordinario mandato per la nuova insorgenza; nè era mai ragionevole il pensare che di un tal uso e di tanti annui Proconsoli dell’Italia non fosse rimasa nell’Istoria memoria alcuna. Non si può dire quanta confusione e quanti errori abbia nell’erudizione introdotti il fondarsi talvolta in passo unico ed in ambigue parole d’un Autor solo, senza considerare il complesso delle cose, e senza risguardo al generai riscontro delle più sicure notizie. L’Italia in tal modo sarebbe stata nell’istessa condizione delle provincie: ma perchè dunque si sarebbe continuato per più secoli ancora dagli Scrittori, e ne’ monumenti tutti a distinguer sempre Italia e Provincie, e a suppor diversa la condizion degl’italiani e de’ Provinciali?
Queste parli pochissimo stettero a diventar interamente Romane. La lingua Latina par che molto presto ci si adottasse, poichè a tempo di Cicerone obliterate già ci par qui di riconoscere l’antiche lingue, e la Romana fatta comune, benchè non così colta nè così pulita, com’era in Roma. In tal congettura ci conducono le parole di Cicerone a Bruto nel Dialogo de’ Chiari Oratori, ove narrando come oratori di vaglia si fossero trovati anche fuor di Roma tra Sozii, e Rusticello Bolognese tra gli altri, aggiugne ch’era lor mancato però il sale urbano, per dir così, e quel non so che agli esterni non possibile: e chiedendo Bruto, che spiegasse ciò più chiaramente; lo conoscerai tu stesso, risponde Cicerone, andando in Gallia, e vi udirai ancora vocaboli poco usati a Roma (etiam verba quaedam parum trita Romae). Non così fu nella vera Gallia, e transalpina, poichè quivi al principio del quarto secolo Cristiano la lingua Latina non era accomunata ancora, avendo detto l’anonimo Panegirista di Costantino: so molto bene quanto inferiori sieno gl’ingegni nostri ai Romani, essendo che il parlar Latino, e con eloquenza, ad essi è naturale, e da noi con fatica s’acquista ( init. siquidem latine et diserte loqui illis ingeneratum est, nobis elaboratum). Aggiungasi l’uso del vestir Romano, ben tosto in queste regioni abbracciato: il nome di Gallia Togata però ne venne, così per esser più pacifica, disse Dione (lib 47), come per usare il vestir da città dei Romani. Tolomeo veramente ristrinse il nome di Gallia Togata al paese ch’è tra il Po e l’Apennino, ma non così gli altri Autori tutti; tra quali scrisse Pompeo Festo (in Boicus), nella Gallia cisalpina, che si chiamava Togata, essere i Milanesi; e scrisse Pomponio Mela ( lib. 2, cap. 2: Veneti colunt Togatam Galliam), abitarsi la Gallia Togata da’ Veneti; onde all’incontro, potrebbe essere stato spezial distintivo nostro la toga Romana.
Merita osservazione la differenza usata da’ Romani verso gl’Italici a distinzione delle altre genti. Mandavano a quelle il Pretore, che le reggesse; ma l’Italia lasciavan libera, e niun Magistrato ordinario in essa spedivano, nè alle sue città e regioni subordinazione imponeano, se non a Roma. Parrebbe che avessero appreso dal documento lasciato da Platone (Rep. 5) agli Ateniesi, di non voler mai porre in servitù nissun Greco. Per verità e la prossimità al centro, e la conformità del clima, e la svegliatezza della mente esigean privilegio per natura. Fuor d’Italia ancora diversamente trattarono i Barbari e i Greci; perchè governavan quelli conforme all’indole si conveniva, togliendo loro per lor bene il poter far male, e lasciavan questi all’arbitrio del proprio governo, poco altro esigendone, che aiuti e consiglio. Anzi gratissimo era a’ Romani di udir sentimenti generosi, e di vedere i popoli amanti di libertà, come appare tra l’altre occasioni presso Livio (lib. 37) dal gradimento con che udirono il parlar franco de’ Legati di Rodi in Senato. Intendean eglino, come dagli uomini adulatori e vili, e pronti alla servitù, nè si può aspettar valore, nè fede, se non forse fino al punto del maggior uopo. Quinci è, che stimarono di loro interesse il lasciar libere più città in Grecia, e in Italia tutte; molto maggiori e più pronti e più vivi soccorsi traendone in questo modo ad ogni occasione.
Più difficoltà potrebbero svegliarsi contra quanto abbiam qui asserito in coloro che negli studiatissimi volumi de’ moderni dotti fosser versati; essendo che, s’è lecito il dirlo, il privilegio di libertà non è ancora stato ben compreso in che consistesse precisamente; almeno n’è sempre stato parlato in modo da confonder cose per se diverse. Autori di primo grido, e Spanemio (Praest. Num. Diss. IX) tra gli altri, si son diffusi in mostrare che consistesse nell’avere i proprj Magistrati, e nel viver con le sue leggi; nelle quali due cose l’essenza della libertà non si comprendeva altrimenti. Da’ proprj Magistrati e dal lor Consiglio si amministravano le città tutte nel Romano Imperio , e non lo libere solamente: spicca ciò singolarmente dalle lapide e dalle medaglie, vedendosi ne’ marmi Latini e Greci di qualunque città menzione de’ loro ufizj e dignità, e del lor Senato o Popolo, e altresì i lor decreti con le forme istesse de’ Senatusconsulti Romani; e vedendosi in tante monete Greche, battute da piccole e non libere città, il nome del lor cittadinesco Magistrato. Ma nè pur consisteva nel viver con le sue leggi. Cotale indulto non si chiamò Libertà, ma Autonomia; e questi legali nomi non si usarono a caso e promiscuamente dagli Antichi ne’ monumenti o nelle leggi, ma per significar con ciascheduno cosa diversa; nulla ostando che qualche Scrittore n’abbia usato talvolta alcuno per affinità o per rassomiglianza; e mollo meno che nelle Latine versioni degli Autosi Greci tutte rpieste cose si trovili d’ordinario confuse insieme. Più città goderono l’autonomia anche sotto i Re, negli Stati de’ quali dopo Alessandro non si godè inai libertà. Autonome sotto i Romani vediam nelle medaglie città che non far mai libere; libere furon poche, e suilege furon me, come parimente le medaglie ci mostrano; anzi ricavar si può da un’Epistola di Cicerone (At. VI, I) aver giudicato Scevola che l’autonomia fosse privilegio di tutti i Greci; ma spiegando nell’istesso tempo che null’altro inferisse, se non di lasciargli litigare con le lor leggi. Legati di genti libere nomina Svetonio (Aug. 44) ed altri, ma non d’autonome. Però d’Atene dice Strabone (lib. 9: τὴν αὐτονομιάν καὶ την ἑλευθερίαν) che i Romani le avean conservata e l’Autonomia è la Libertà; ed a Mopsuestia l’uno e l’altro titolo si dà in lapida ed in medaglia. A quante città oggi giorno ancora si lasciano i loro Statuti, che non per questo son libere? Provincie e città libere distinse Cicerone (Ver. 7: omnes provincias, omnes liberas civitates), come cose essenzialmente diverse. In che dunque consisteva, e che inferiva propriamente la libertà? Inferiva l’esenzione e l’indipendenza da’ Presidi; talmente che, o a quel paese Preside non s’imponesse, come per tutta Italia non s’imponeva, ovvero a quelle città di provincia, ch’eran privilegiate di libertà, il Preside non sovrastasse; onde quando secondo l’instituto visitava l’altre per esaminarne il governo e far ragione, nelle libere o non entrava, o non esercitava giurisdizione. Di Marsiglia però, ch’era città libera, scrisse chiaramente il Geografo (Str. lib. 4: ὤστε μή ὐπακούειν τῶν εἰς τὴν ὑπαρχίαν πεμπομένων στρατηγῶν che a’ Rettori mandati nella provincia non era sottoposta; e di Pisone Rettor della Macedonia disse Tullio (de Prov. Cons.) che contra le leggi e i Senatusconsulti operato avea, quando in Bisanzio, città poco avanti fatta libera, esercitò giurisdizione. Riconosceremo tal verità di nuovo nel prossimo libro. Ma finalmente apparisce da quanto si è detto, come in Italia furon libere le città tutte, ond’è che niuna città Italiana si dà come alquante Greche ne’ monumenti tal titolo, siccome cosa che dentro l’Alpi era generalmente comune. Altro privilegio era proprio della libertà, di cui caderà altrove menzione. E questo è il modo con cui credettero i Romani onesto essere, ed al loro interesse ed alla lor sicurezza proficuo, di secondar la natura, distinguendo gl’Italiani dall’altre genti, e facendo di tutta l’Italia una Republica sola.
Benchè questi paesi non fossero in condizion di provincia, molti non pertanto furono i personaggi che fin da’ primi tempi con imperio, come allor si parlava, ci vennero; poichè due sorti di provincie assegnavano i Romani; ordinarie, come Sicilia, Sardegna e le Spagne, dove si mandava Pretore annualmente; e straordinarie per occasion di guerre, o di tumulti, o d’affari; nel qual modo potea per accidente qualunque parte diventar provincia. Molti equivoci ha prodotti anche questo nome. Provincia latinamente volea dire impiego, negozio, impresa, e con tal nome si assegnava a’ Consoli l’incombenza del lor anno. Non bisogna però credere che fosse ridotta l’Italia in provincia, quando si legge in Tito Livio che toccò ad alcun Console la provincia Italia, perchè ciò volea dire la guerra, o gli affari che correano in Italia allora; come si vede espresso, ove leggesi che all’un de’ Consoli fu provincia l’Italia, e la guerra con Annibale (Liv. lib. 26, ec.). Così fu qualche volta provincia l’Erario; e l’anno Varroniano 567 a due Pretori fu provincia il tener ragione in Roma (l. 38: duas Romae, ec.), di due altri fuor d’Italia fur provincie Sicilia e Sardegna, e degli altri due in Italia la Gallia e Taranto. Non vide però nè pur Lipsio (ad Tac. pag. 117) ben chiaro, ove intese l’essere assegnate a Consoli o a Pretori le lor provincie col nome di Pisa, o di Suessula, quasi essi o Questori dovessero andare a riseder quivi; là dove intender si dee delle guerre co’ Liguri e con Annibale, alle quali allora quelle città facean frontiera: come pure s’ingannò il Cellario (lib. 2, c. 9), quando dal venir assegnate provincie col nome di Rimini e di Modana, arguì che prima l’una, poi l’altra fosser Capitali della Gallia cisalpina; quando è chiaro, con tali nomi la cura delle guerre doversi intendere, che in quelle parti bollivano, essendo stata alcun tempo in Rimini, ch’era a’ confini contra Galli, la piazza d’arme. Quinci mirabil fu il pensamento di chi suppose che l’immaginato ordinario Proconsole della Cisalpina in Rimini risedesse, o in Ravenna, siti opportuni certamente per regger la Liguria e l’Insubria. Anche il Cuiacio (Observ. l. 26, c. 2) sbagliò, dove dal leggere in Sallustio ed in Livio destinata ad alcun Console l’Italia, dedusse che non essendo l’Italia provincia, debba intendersi della Gallia Togata; e quinci avviluppandosi di bene in meglio, speculò che alcune parti d Italia fosser provincie, e ricordò Presidi posteriori di più secoli all’antica destinazione che si faceva a’ Consoli delle provincie. Volle emendarlo il Gottofredo (ad C.Th. l. 2 de int. rest.), ma quivi anch’egli poco vide, altro significato non avendo conosciuto nel nome di provincia, che quel di regione, quando in que’ passi non amministrazion di regione, ma di faccenda intendevasi, alla quale si dava la denominazione dal luogo dove per tale impresa o negozio il Console dovea portarsi. Or per qualunque motivo si portasse in alcuna parte il Romano Magistrato con imperio, cioè con militar comando, comandava allora in quella regione assolutamente, e disponeva anche di quelle cose che dipendevano per altro da Roma. Nella Cisalpina fu mandato l’anno 536 il pretore Lucio Manlio con armata; e due anni appresso Postumio Albino, che vi fu ucciso in battaglia da’ Galli. Così più altre volte restò decretata questa provincia or con nome d’Italia, or di Gallia, come in Livio può vedersi, ma appunto come l’Etruria ed altre interiori parti d’Italia per ispezial motivo. Anzi le continue insurrezioni de’ Galli fecero che questo fosse il campo dove più spesso, che in altra parte, avvenisse massimamente a’ Consoli d’adoperarsi. E notabile, come nè pure in questo tempo veggonsi mai nella Venezia sollevazioni contra Romani, i quali molta briga ebbero bensì dagl’Istri; onde nel 576 vi operarono ambedue i Consoli, che ritirarono poi le legioni a svernare in Aquileia.
L’anno susseguente in due Provincie divisa (Liv. lib. 41) fu da’ Consoli sortita la Gallia; e due anni appresso essendo essa toccata ad Emilio Lepido, e la Liguria al collega Muzio Scevola, repressi da loro nel principio dell’anno i moti in dette parti insorti, fu data a Lepido spezial commissione dal Senato di acquetare i tumulti in Padova nella Venezia talmente ardenti, che per la forza e rabbia delle fazioni erano venuti a guerra intestina (ibid. ad intestinum bellina), di che il lor Comune istesso avea mandato per Legati notizia a Roma. La venuta del Console, fu salute de’ Padovani, come parla Livio (Patavinis saluti fuit, ec.); dopo di che non avendo egli che operare nella Provincia, se ne tornò a Roma. Impariamo qui quanto floride fossero queste città, e come da’ proprj cittadini erano amministrate; ed impariamo come non era in queste parti Magistrato Romano ordinario, e lo straordinario soltanto vi dimorava quanto la sua particolare incombenza e l'imposto negozio esigeva. Altrettanto si riconoscerebbe nel susseguito tempo, se Scrittore avessimo che d’anno in anno la sortizione e deputazione delle provincie ci recitasse, come Tito Livio ebbe saggiamente in uso di fare. Vera cosa però è che probabilmente non tutta la Gallia avrà goduto dell’istesse condizioni della Venezia, non essendo stato uso de’ Romani, come Siculio Flacco precisamente avverte, d’accordar le istesse a chi di buon cuore e per amor di virtù e giustizia si era lor dato, ed a chi rompendo più e più volte la fede, avea palesato odio implacabile verso Roma; ma di tali particolarità niun Autore ci ha lasciato memoria.
Il fatto di Padova fa ben conoscere quanto errasser coloro che nati fuor di 11 orna, odiavano la sua superiorità, e bramavano indipendenza. Quelle città, che costoro avrebber volute abbandonate a se stesse, da se stesse si sarebbero tosto distrutte, se fossero state quai le voleano. Padova era perduta, se vi si accendeva tal fuoco, avanti d’essersi data a’ Romani. Poche son le città che siano dalla natura e dalla fortuna state adattate a poter vivere indipendenti. Però poichè Roma per rarità di prerogative, per singolarità di condizioni , e sopra tutto per complesso di virtù ne’ primi tempi senza esempio, era veramente tale, non dovea dalle inferiori essere invidiata , ma all’incontro esaltata e prediletta, considerando che nella sua grandezza e felicità anche quella delle subordinate veniva a comprendersi. È molto più utile alle città di minor condizione l’averne una suprema che invigili alla lor pace, proveda alla sicurezza, e gli umori peccanti ne raffreni, ch’esser libere senza difesa, e di proprio arbitrio per lor ruina. Molto meglio però l’intendean coloro i quali di quella participazione si appagavano, e di quel vincolo che legar potesse indissolubilmente le minori città alla maggiore; nè aspiravano, se non a tal grado, che da una parte per l’immaginazione di sozietà bastasse a destare in tutti verso il comun centro perfetto amore, e dall’altra al civil sistema di Roma non potesse recar turbazione alcuna.
Nell’anno 591 si ha dalle Legazioni di Polibio (Leg. n. io6), come il console Tiberio Gracco debellò i Cammani, quali però saranno stati motivo dell’uno dei due trionfi da lui ottenuti e menzionati da Plutarco (in Gracch.). Ma siccome Cammani è nome ignoto all’antica e moderna Geografia, così può facilmente credersi fossero i Camuni, popolo Alpino, ch’ora forma una principal parte del territorio Bresciano. Lapida conservata in Brescia scrive due volte Camunni; potrebb’egli da quel raddoppiamento arguirsi un certo vestigio di Retica, cioè d’Etrusca origine? mentre veggiamo fino in oggi i Toscani a calcar la pronunzia molto inclinati. Contra costoro convenne un’altra volta prender l’armi assai tempo dopo, come vedremo a suo luogo.
Durissima e rotonda pietra, quasi pezzo di gran colonna, si custodisce ora nel publico nostro Museo, nella quale memoria fu incisa dell’avere il proconsole Sesto Attilio Sarano per decreto del Senato stabiliti i confini, o fatto piantare il termine fra ’l territorio d’Este e quel di Vicenza, le quali città per ragion di confine doveano esser venute a contesa (v. Ins. IX). Molte volte e da molti questo prezioso monumento, e da cui più cose s’imparano, è stalo stampato, ma non ancora mai fedelmente. Sarano fu console nell’anno di Roma 618. L’anno seguente adunque, o per fiancheggiar Fulvio Flacco, cui la guerra fu commessa, che si avea nel prossimo Illirico, o, com’è più probabile, appunto per sedar questa lite, fu mandato nella Venezia; qual però appar chiaramente di nuovo, non avere avuto ordinario Preside. Si riscontra qui la verità di quanto scrive Polibio (lib. 6, p. 461 διαλύσεως, ἢ βοηθείας), il qual fioriva appunto di que’ tempi, che se alcuna città d’Italia o di qualche decisione, o di qualche soccorso avea bisognoii, ne prendea cura il Senato: dal quale insegnamento di Polibio confermasi ancora indisputabilmente che non Questori nè ordinari Proconsoli reggean l’Italia, ma si reggean le città da se con la sovranità del Senato. Il Senato trattandosi di confini, che per lo più ricercano oculare inspezione, appoggiò a Sarano la cura di questa differenza tra le due città, mandandolo in qualità di Proconsole per essere stato Console l’anno avanti. Incombenza simile ebbe da poi Cecilio parimente Proconsole, di cui un simil termine con iscrizione era già nel monte Venda, per testimonio di lui, tra gli Atestini ed i Padovani. Questo Cecilio non fu il Dalmatico nominato in un frammento di Fasti trionfali presso il Grutero (298, 3), ma come si ricava dal prenome diverso del padre, fu il Console dell’anno 637 per nome Diademato. Nel 639 si conosce toccata la Cisalpina ad Emilio Scauro, mentre abbiam da Strabone (lib. 5), asciugasse le paludi d’intorno al Po, non lungi da Piacenza. Di costui si legge che trionfasse de’ Galli e de’ Carni, gente il cui piano era tra la Venezia e l’Istria, e che nella parte montana non dovea ancora esser soggiogata. Leggesi in Aurelio Vittore, che trionfò de’ Liguri [ne’ Fasti per la ragion sopradetta chiamati Galli] e de’ Gantisci, inaudito nome, che potrebbe con la scorta de’ marmi Capitolini emendarsi in Carni. I Romani fra tanto, per occasione di portar aiuto a’ Marsiliesi ed agli Edili, aveano incominciato ad avanzar le conquiste nella Gallia transalpina. Ma avvenne non gran tempo dopo la calata de’ Cimbri nel Veronese, qual fu uno de’ più famosi fatti che nell’Istoria Romana si abbiano.
Quella guerra portò a’ Romani la prima notizia delle genti Germaniche, e per essa trovansi queste nominate la prima volta da’ Latini e da’ Greci Scrittori. Uscirono i Cimbri da quella penisola del nome loro, che dalle foci dell’Elba si stende verso settentrione, mentovata da Strabone, da Tolomeo1 e da Plinio (lib. 4, c. 13 ), in cui si legge fosse chiamata Cartris2. Si congiunsero con essi i Teutoni, che abitavano l’isole Danesi nel Baltico, e il primo lembo della Scandinavia , e probabilmente la terraferma littorale presso ai Sassoni, che Tolomeo mette prossimi alla penisola Cimbrica. Motivo d’abbandonare i lor paesi fu quel medesimo che avea prima condotti in Italia i Celti o Galli; cioè la moltiplicazione e la penuria, accresciuta forse dalla poca cognizione di ben coltivar la terra. Fu chi stimò, avere avuto parte in fargli risolvere, il danno delle inondazioni per l’ingrossamento maraviglioso del mare, cagionato talvolta in que’ luoghi dalla forza e dalla pertinacia degli stessi venti3. Sloggiarono in grandissimo numero, ma non già tutti; poichè i Cimbri sussisteano ancora nell’antiche sedi a tempi d’Augusto, cui mandarono Legati e doni, come si ha in Strabone (lib. 7); e a tempi di Traiano, benchè ridotti in piccola Republica, come abbiam da Tacito (Mor. Ger. c. 36). Narra Plutarco, aver costoro avuta in animo l’Italia e Roma, e l’esempio degli antichi Galli. In fatti nell’anno 640 erano già approssimati all’Italia dalla parte del Norico. Andò per respingergli il console Papirio Carbone: seguì battaglia poco lontano dalla città di Noreia ( Strab. lib. 5 ), che dovrebbe credersi quella de’ Carni, e non l’altra di tal nome, ch’era nel Norico, volendo aver fede a Giulio Ossequente (n. 98), che scrive avvenisse il fatto di qua dall’Alpi. Li più degli Autori dicono che Papirio fu rotto e posto in fuga; ma Strabone (lib. 5: οὐδὲν ἔπραξεν) dice solamente ch’ei presso Noreia combattè inutilmente co’ Cimbri; e Appiano, il qual nelle Legazioni date fuori da Fulvio Orsino è l’unico che ne parli con distinzione, racconta diversamente: cioè che vennero i Barbari saccheggiando fin nel Norico; onde Papirio temendo non penetrassero in Italia, si pose al varco dell’Alpi, dove il passaggio è più angusto; e non avanzando essi s’incamminò verso di loro, adducendo non dover permettere che danneggiassero i Norici, tra quali e Romani amicizia correva e ospitalità. I Teutoni allora spedirono al Console, affermando aver ciò ignorato, e promettendo non molestar più i Norici in avvenire: di che lodatigli Papirio, diede a’ Legati guide che con lunghi giri gli traviassero, e marchiò intanto con l’esercito sopra coloro che quetamente si stavano attendendo risposta: molti n’oppresse, e gli avrebbe sterminati tutti, se non che, quasi in pena della mala fede ne’ Romani insolita, levatosi un furioso vento con caligine e pioggia e tuoni, ne restarono separati i combattenti, e talmente per le selve dispersi i Romani, che appena si riunirono dopo tre giorni; ritiratisi intanto i nemici, che presero la via della Gallia. Questo racconto vien convalidato dall’effetto; poichè se i Barbari fossero stati vittoriosi, non si sarebbero allontanali dall’Italia, ch’era il loro scopo; nè sarebbero tornali addietro vagando e predando per assai tempo in varie parti dell’Europa. Si strinsero poscia in lega con due genti Galliche, Ambroni e Tigurini, e nel 644 fortunatamente combatterono nella Gallia col console Giulio Silano. Altra vittoria ebbero i Cimbri nel Consolato di Cassio Longino; in questa restò prigione Aurelio Scauro suo luogotenente, il qual dissuadendogli dal passar l’Alpi con dir che i Romani erano invincibili, dal Re Bolo feroce giovane fu tosto ucciso (Epit. lib. 67): ma assai maggiore la riportarono al Rodano l’anno 648 sopra Manlio console e Servilio Cepione proconsole, essendosi congiunte le quattro genti confederate. Che vi perissero ottanta mila tra Romani e Sozii, da Valerio Anziate trasse Orosio ( lib. 5, c. 16). Restarono all’arbitrio de' nimici l’uno e l’altro campo e gli alloggiamenti; e tutto ciò per la discordia de’ capitani e per la somma temerità di Cepione, il quale ne fu atrocemente castigato a Roma, di che assai parla Valerio Massimo (lib. 6, c. 9)5 benchè paia scusarsi da Cicerone nel libro degl’Illustri Oratori.
Ma il rumore di sì gran rotta mise scompiglio in Roma; talchè avendo Mario terminata appunto allora felicemente la guerra in Numidia, e preso il Re Giugurta, lo elessero console la seconda volta, benchè assente, e decretandogli la provincia Gallia, lo chiamarono a quest’impresa (Sall, in Jug.). L’essere i vincitori passati fin nella Spagna, quasi con un certo moto di riflusso, come dice graziosamente Plutarco (in Mar.), gli diede tempo d’esercitare in Gallia i soldati, e eli ridurgli a rigorosa disciplina. Siila suo Legato, cioè luogotenente, fece prigione il Duce de’ Galli Tettosagi (Epit. lib. 67): egli col grido di certa giusta sentenza in fatto, sopra il quale è la terza declamazione di Quintiliano, e per aspettarsi i Barbari à Primavera, ottenne il terzo consolato, die riferisce Patercolo (lib. 2) essersi consumato in apparati di guerra, e nel quale però lo stesso Siila costrinse i Marsi, nazion Germanica, a chieder l’amicizia dei Romani. Ma respinti i Cimbri nella Spagna da’ Celtiberi, e forse da quel Fulvio di cui racconta Frontino lo stratagema per occupare il campo Cimbrico, tornarono addietro, e lacerata la Gallia Romana in ogni parte, benchè costantemente si mantenessero le città, di che si ha memoria in Cesare (Bell. Gall. lib. 6), si ricongiunsero a’ Teutoni, e finalmente deliberarono d’invader con tutto lo sforzo l’Italia. Allora, sì per divider le forze de’ Romani, e sì per la difficoltà di marchiare unitamente con tanto immensa turba per le angustie de’ monti, fecero due corpi, dovendo i Teutoni con gli Ambroni prender la via dell’Alpi Ligustiche e Galliche, e i Cimbri co’ Tigurini rigirando venir nel Norico e all’Alpi Retiche (Plut. in Mar.). Mario passato a Roma per li comizj consolari, fu eletto console la quarta volta con Lutazio Catulo. Questi andò subito a munire e ad occupare i passi contra Cimbri: Mario passò frettolosamente l’Alpi, e per trattenere i Teutoni, che all’Italia erano già imminenti, si accampò al Rodano; dove per assicurarsi de’ viveri, e non esser mai costretto per mancanza di essi a combatter contra sua voglia, lunga e difficile riuscendo la navigazion del mare per esser le foci del Rodano interrate e impedite, fece tosto scavar da’ soldati un canale di nuovo sbocco, capace delle maggiori barche, derivandovi una gran parte del fiume. Per aver de’ nimici notizie certe, si valse di Quinto Sertorio, che con vestimento Gallico e con l’uso di quella lingua ebbe ardire di passar tra nimici, illustre già per avere dopo la sconfitta di Cepione passato il Rodano a nuoto con lo scudo e con la lorica, ferito in più parti (Plut. in Sert.) Non riferiremo qui le particolarità di quell’ impresa, poichè si posson leggere unitamente ed a lungo esposte in Plutarco. La sostanza fu, che stancatigli prima, poi lasciatigli incamminare per passar l’Alpi, Mario in due combattimenti sconfisse gli Ambroni e i Teutoni interamente, grandissima strage facendone. Sagrificava egli dopo la vittoria, quando giunsero da Roma i messi dell’essergli stato, benché assente, conferito il quinto Consolato: la quale allegrezza fu amareggiata ben tosto dall’avviso dell’essere i Cimbri penetrati in Italia, non avendo potuto il collega Catulo respingergli, nè trattenergli.
Conoscendo questi di non poter difendere tutti i passi delle montagne, e non volendo divider le sue truppe in più corpi, poichi gli vide indirizzati al più aperto varco, ch’è quello dell’Adige ne’ monti di Trento, calò dall’Alpi, e ridottosi nel Veronese, si appostò a questo fiume, accampandosi nella parte di esso destra rispetto al corso, e probabilmente non lontano da’ siti di Rivolε e di Canale ( Plut. in Mar. τὸν Ἀτισῶνα ποταμὸν λαβὼν πρὸς αὐτοῦ, ec.). Il villaggio di Costerman, che abbiamo in quella parte, si ricava e da vecchie pergamene, e dal nome, come si disse, in latino Castra Romana; nè in altra occasione più che in quella troviam credibile che quivi si piantassero alloggiamenti Romani. Tra Rivole e Canale, e negli stessi luoghi abbiam veduto a’ giorni nostri nel maggio dell’anno 1701 porsi il primo campo, cd aprirsi la guerra per la successione alla monarchia di Spagna. Ma i Gallispani dal Maresciallo di Catinat comandati, e dal Principe di Vaudemont, altro non curarono che di serrar la via della Ferrara, e l’altro del destro lato, e di battere e render inaccessibile la comune e frequentata, ch’è presso al fiume sul sinistro, abbandonando a’ nimici le superiori e tutto il paese di là: i Tedeschi pero vennero nel Veronese senza contrasto, benchè non senza difficoltà, per la strada poco nota della Valfredda, che di qua da Ala sale con tortuoso giro di cinque miglia por la costa d’alti e selvosi monti, e viene a riuscir ne’ Lessini. Praticabile dalla cavalleria e transitabile da piccola artiglieria fu resa a forza d’uomini e di lavori; i carriaggi furon disfatti e portali a pezzi, poi ricommessi. Dall’alto della montagna la maggior parte dell’armata andò calando al Faedo e a Breonio nella sommità della Valpulicella, dove si fermò il Principe Eugenio alcuni giorni: assicurate di questi luoghi, presero poi successivamente le truppe la strada men disagiata, che da Peri con salita di due miglia porta parimente su i monti di Breonio e Faedo. Ma non fu Catulo della medesima opinione di lasciare in arbitrio de’ nimici il paese di là dal fiume; anzi volendo poter dar loro addosso, anche se avesser prese le superiori vie del sinistro lato, collocò dall’ altra parte ancora presidii e guardie, e con ponte ben munito si assicurò la comunicazione e ’l passaggio. Tanto si ricava da Plutarco (in Mar.); ma il preciso sito del ponte, i movimenti varj, e l’altre particolarità di tal fatto, come ben si vedrebbero nel libro scritto da Catulo delle sue geste, e mentovato da Cicerone (in Brut. p. 227), così non appariscono negli Scrittori, a’ quali o la notizia de’ paesi e de’ siti, o la cognizione dell’arte militare per lo più manca. Tocca il compendio di Livio (Epit. l.68:1 ad flumen Athesim Castellum editum ), come Catulo particolarmente occupò e si fece forte in un alto castello vicino all’Adige. Tal castello assai verisimil sembra fosse verso la sommità del monte Pastello in riva all’Adige; poichè si vede in Plutarco ch’era di là dal fiume, essendo poi stato preso da’ Cimbri vittoriosi ; e il sito è molto opportuno per dominar d’alto in basso, e vi si veggono ancora fondamenti e reliquie d’antichi muri. Abbiamo in quel monte il villaggio detto Cávalo: chi sa non gli rimanesse da Catulo colal nome?
Avvicinati i nemici, cominciarono per facilitarsi il passaggio del fiume a gettar nell’acqua pietre grandissime, ed alberi e travi, da’ quali urtavasi con violenza e si conquassava il ponte de’ Romani. Lepida cosa è, come il saltar nell’Adige con gli scudi, e il rotolarsi giù dalle cime per le nevi, che dovean fare alcuni giovani per bizzarria e per brillo, da più Scrittori è poi stato addotto e ricevuto, quasi tal fosse la general condotta de’ Cimbri, e il modo di calare in Italia dal loro esercito tenuto. Vero è bensì, tali mostre essersi da costoro fatte di ferocia e di furore e di forza, che impauriti i soldati Romani cominciarono ad abbandonare il maggior campo e a dar volta. Catulo fece in vano ogni sforzo per ritenergli; e quando vide non esser possibile, con prudentissimo ripiego si andò a mettere con le insegne alla lesta di quei che sloggiavano, per iscemarne il disordine, o far apparire che seguitassero il comandante, e si ritirassero. Fu in quest’occasione, ch’essendo una legione rimasa separata dal grosso dell’esercito, e circondata, Petreio Atinate, un de’ centurioni, propose di farsi strada a traverso il campo de’ nimici ; e perchè ripugnava il Tribuno, l’uccise, e postosi alla testa egli stesso, la condusse a salvalmento; della quale azione Plinio (lib. 22, c. 6) ci fe’conserva. All’incontro fu tra quei che fuggirono un figliuolo di Marco Scauro; per lo che ricusando poi il padre d’ammetterlo alla sua presenza, per dolore e vergogna si diè da se stesso la morte. Narrasi questo fatto da Valerio Massimo (lib. 5, c. 8), che dice avvenuto presso l’Adige rincontro de’ Cimbri; e da Frontino ancora, che lo dice avvenuto nelle selve Trentine (Strat. lib. 4 c. 1 ). Abbiamo dall’istesso Autore, come Catulo ingannò i nemici con far loro apparire di mettere il campo in certo colle (lib. I, c. 5); per la qual cosa si levarono essi dalla riva d’ un piccol fiume che occupavano, e gli diedero agio di passarlo, e d infestargli ancora. Osserva Floro (lib. 3, c. 3), che se i Cimbri dopo tal successo, e dopo essere giunti felicemente nel piano, marchiavano subito risolutamente a Roma, non sarebb’essa stata in leggier pericolo; ma presi dall’incanto del paese in cui si trovarono, arrestaronsi, e tra per l’uso del pane e delle carni colte e del vino, tra per la dolcezza del clima, nella Venezia, ove l’Italia è più che altrove morbida e deliziosa, il lor vigore si rallentò (in Venectia, quo fere tractu Italia mollissima est, ec.). Così parla lo Storico. Non è da tralasciare che dopo la ritirala de’ Romani, attaccarono i Cimbri quel castello presidiato da Catulo di qua dall’Adige, e lo presero: ma fecero in esso i Romani così brava resistenza, che per maraviglia della virtù loro ottennero da’ Cimbri patti onorevoli, giurati sopra un toro di metallo, che per Deità o per sacra cosa dovea da loro venerarsi (Plut. τὸ μὲν πέραν τοῦ Ἀτισῶνος φρούριον ec. ).
In tal pericolo fu chiamato Mario a Roma. Gli era decretato il trionfo, ch’ ei volle si rimettesse ad altro tempo; sì perchè lontano era il suo esercito che dovea esserne a parte, e sì perchè i Cimbri lo faceano pensare ad altro. Si porto egli ben tosto all’armata di Catulo, cui era prorogato il comando in qualità di Proconsole. Chiamò le sue legioni dalla Gallia; arrivate le quali, passo il Po, e si mise in positura di tener lontani i Barbari dall’Italia interiore (τῆς ἐντὸς Ἰταλίας, ec.). Catulo, il quale secondo ogni apparenza s’era ritirato dalla parte del Bresciano e quivi avea passato l’inverno, assai valeasi fra tanto dell’opera di Silla (Plut. in Syl.), che si rese poi sì famoso; e col suo mezzo tenne a freno alcuni Barbari Alpini, e si procacciò tale abbondanza di viveri, che potè darne anche al campo di Mario. I Cimbri stettero assai tempo nel Veronese da loro occupato, e nel rimanente della Venezia, aspettando l’ arrivo in Italia dei Teutoni; e veggendogli differire, mandarono una legazione a Mario, chiedendo per se e per li fratelli loro terra e luogo per vivere e per abitare. Ricercati di quai fratelli s’intendessero, e udito che de’ Teutoni, rispose Mario tener già quelli la terra lor data, e doverla tener per sempre; facendo nell'istesso tempo comparire alcuni de’ lor Capi incatenati, perchè s’accorgessero di quanto era avvenuto. Dopo il ritorno de’ Legati s’incamminarono i Cimbri verso Romani, che si tenean fermi nel loro campo. Accostatosi il Re con pochi de’ suoi agli alloggiamenti, invitò Mario a stabilir concordemente battaglia. In Plutarco nome si dà a questo Re di Beorix, attribuito in Livio ( lib. 34) anche a un Regolo de’ Boj nell’Italia. Provocato già Mario a singolar certame da un Teutone (Fron. I. 4, c. 7), gli diè per risposta, che se avea fretta di morire, potea valersi d’un laccio, rimettendolo nell’istesso tempo a un gladiatore, come quello cui più convenisse simile invito: ma a questo Re rispose, non essere veramente uso de’ Romani di prender consiglio da’ nimici; voler tuttavia compiacerlo. Accordarono dunque di combattere il terzo giorno, che venne a cadere nel trentesimo di luglio, e per luogo stabilirono, se crediamo alle stampe di Plutarco, la pianura presso Vercelli. Questo passo ha fatto credere a molti che seguisse quella battaglia nel Vercellese, e non è mancato chi in favor di tal sentenza con calore abbia scritto; ma avvertiron già il Panvinio e ’l Sigonio, error de’ copisti essere in quel luogo di Plutarco, e doversi leggere presso Verona. Il complesso delle autorità e de’ fatti, e il contesto di Plutarco stesso rendono tal emendazione quasi indisputabile. Vera cosa è che Claudiano, poeta del quarto e del quinto secolo (Bell. Get.), disse essere stati i Cimbri vinti e disfatti a Pollenza, fin sotto l’Alpi marittime e Ligustiche; ma ripugna ciò parimente a tutti gli altri Scrittori, niun de’ quali ha mai detto che per quella parte calassero i Cimbri in Italia: della stessa guerra Gotica seguita in tempo suo, e di cui trattava, più cose disse Claudiano quivi sicuramente false. Plutarco poco avanti il sudetto passo fa menzione dell’Adige da lor valicato; e del volere invece dell’Adige intender la Tosa, con ragione si rise il Cluverio ( It. Ant. p. 139). Aveano i Cimbri svernato nella Venezia, come abbiamo inteso da Floro, e il disegno era d’inoltrarsi verso Roma. Chi potrebbe adunque credere che principiassero la campagna dal portarsi così a ritroso fin presso Pollenza, o Vercelli? e che di così lunghe marcine d’ambe le armate niun cenno desse Plutarco? il quale afferma all’incontro che Mario nel suo campo si tenne (ἐπὶ τὸν Mάριον ἡσυχάζοντα ec.). Appresso, a niun luogo in Italia più che alla nostra sterile e vasta campagna, quale fino a memoria de’ padri nostri si mantenne per molte miglia senza un albero e senza un fosso, si adattava il titolo di patentissima, che le dà Floro (lib. 3, c. 3: in patentissimo quem Raudium vocant campo), e l’essere stimata opportuna da’ Cimbri per dispiegarvi la gran moltitudine di gente, e da’ Romani per farvi giuocare la loro cavalleria, come scrive Plutarco (ἐπιτήδειον ἐνιππάσασθαι, ec.) Si aggiunge il leggersi nell’emendato Vittorie del P. Scotto (De Vir. Ill. n. 67: in Campo Caudio), che seguì quel combattimento ne’ campi Caudj, e il chiamarsi Cauri fino in oggi il bel mezzo della nostra campagna. Ma osservisi sopra tutto in Floro, come un corpo di Tigurini, che dopo la battaglia svanì da se e si disperse, stava quasi per sussidio de’ collegati ne’ colli dell’Alpi Noriche ( lib. 3, c. 3: quasi subsidio, ec.). Ben da ciò apparisce che da’ monti Norici alla Venezia adiacenti non tanto mai si discostarono i Cimbri, nè andarono così lontano a combattere. Nel Cronico Eusebiano si mette al Po quel combattimento, il qual fiume segnava il confine del Veronese.
Nel piano adunque ch’è a poche miglia da Verona, fra l’Adige e ’l Mantovano, seguì il famoso conflitto. Ebbe Mario, come Console, il comando supremo. Venti mila e trecent’uomini eran que’ di Catulo, che rimaser collocati da Mario nel mezzo, facendone il corpo di battaglia: trentadue mila erano i suoi, che furon divisi da lui nelle ale, formandone dritta e sinistra. Fu interpretato che maliziosamente ei volesse tal ordine di battaglia, e per effetto d’emulazione fatale nelle Republiche, e perchè curvandosi assai la linea, com’è solito nelle gran fronti, e molto avanzando le ale, sperasse che i suoi di parte e d’altra urtassero e sbaragliassero i nemici, avanti che quei di Catulo arrivassero a mischiarsi con essi. La fanteria de’ Cimbri uscì del suo campo compostamente e in ordinanza, formando un quadrato perfetto di profondità uguale alla faccia (βάθος ἴσον τῷ μέτοπῳ ποιούμενον), ed occupando con ogni lato presso a tre miglia di paese della moderna misura; da che si può raccogliere quanta fosse la lor moltitudine. I cavalli in numero di quindici mila fecero bella mostra, e vidersi allora campeggiar que’ cimicri che in molt’armi gentilizie spezialmente nella Germania durano fin oggi giorno; poichè le celate risplendenti erano in forma di spaventose fiere, con bocche spalancate, e busti e figure lor proprie sopraposte, e con alte penne che facean parer gli uomini assai più grandi (θηρίων φοβερῶν χάσμασι καὶ προτομαῖς ἰδιομόρφοις, ec.). Loriche avean di ferro, e rilucenti scudi, con aste di doppia punta; ma venuti al nimico si valeano di grandi e pesanti spade. Se abbiamo intera fede a questa descrizion di costoro che ci fa Plutarco, noi possiam riconoscergli, a distinzione di tutti gli altri popoli settentrionali, per istruiti in molte arti e per molto colti. D’uno scudo Cimbrico conservato a Roma, in cui era dipinto un gallo, fa menzion Cicerone (De Orat. lib. 2). Questa cavalleria non venne per diretto contra Romani, ma piegando a destra, passò oltra con animo di serrargli in mezzo: ben se n’avvidero i comandanti; ma essendosi un soldato messo a gridare che Cimbri fuggivano, si mossero tutti gli altri a furia per inseguirgli, nè fu possibile agli ufiziali di rattenergli. La fanteria de’ Barbari avanzava in tanto francamente verso Romani, quasi un vasto mare che fosse in molo (καθάπερ πέλαγος ἀχανὲς κινούμενον). Pochi fatti abbiam nell’antica Istoria rappresentati con le particolarità qui sopra accennate dell’ordine di battaglia, della figura e de’ movimenti. Il non essere per lo più stati uomini di guerra gli Scrittori, ne’ racconti delle azioni militari suol privar chi legge e del diletto e del profitto. Con tanta intelligenza parlò di questa battaglia Plutarco, perchè vide le memorie di persona del mestiere, cioè di Silla, che si trovò nel fatto, e lo scrisse: strano avvenimento narrando ancora; cioè, che Mario, il qual prima d’attaccare il conflitto, solenne sagrifizio votò agli Dei, come Catulo di consecrar la Fortuna, o sia il Genio di quel giorno, togliendo la densa polvere affatto la vista, nel condurre contra nimici le sue schiere, turbate prima dall’inseguir la cavalleria de’ Cimbri, traviasse, e vagando oltrepassasse il lor corpo di battaglia; per lo che il forte dèll'azione toccasse veramente a Catulo e alla sua gente, come co’ pili e con l’altr' armi rimase ne’ corpi de’ Cimbri facean vedere i soldati di Catulo ne’ contrasti e nelle gare che fra lor poi seguirono. Eutropio afferma, più felicemente essersi combattuto dalla parte di Catulo, che da quella di Mario; e l’esercito di quello aver presi trentun vessilli, di questo due soli. Comunque fosse, pienissima fu la vittoria de’ Romani, a’ quali giovò molto il calore eccessivo, sopportalo da essi costantemente, ed il sole che feriva i Cimbri affannati dal caldo, e liquefatti dal sudore negli occhi. L’averlo guadagnato e fatto riuscire in faccia a’ nimici, talchè volendosi coprir gli occhi con lo scudo, scoprivano il corpo alle ferite, fu da Polieno (lib. 8, c. 10) attribuito ad arte e a saggia condotta di Mario. Giovò ancora la polvere, che non lasciò conoscere a’ soldati Romani la gran moltitudine de’ nimici. I migliori de’ Cimbri restaron sul campo, e fra questi il Re: nè avrebbero molti di essi potuto fuggir volendo, poichè quei della prima fila, acciocchè non potessero mai disordinar gli altri retrocedendo, erano stati vincolati insieme con lunghe funi trapassate per le cinture. Atroce spettacolo si vide poi nel lor campo e negli alloggiamenti; perchè le donne infuriate ammazzavano crudelmente i fuggitivi, benchè fossero mariti, figliuoli o padri, e si difendeano ferocemente dai carri con picche o lancie, trafiggendo in fine se stesse ed i lor bambini. Furono in ciò aiutate da feroci cani, de’ quali dice Plinio, che sconfitti i Cimbri, difesero le lor case ch'eran su i carri (lib. 8, c.40: defendere domos eorum plaustris impositas). Scrive di esse Floro oscuramente, che mandaron prima chiedendo a Mario libertà e sacerdozio: ma impariamo da Valerio Massimo (lib. 6, c.1) che seguì ciò l’anno avanti, e nelle donne dei Teutoni, le quali dimandarono d’essere mandate in dono alle Vestali, offerendosi a servare anch’esse ugual castità.
Non è stato fuor di proposito il distendersi alquanto nel racconto della espedizione de’ Cimbri, sì per distinguerne i tempi e i diversi fatti, e sì perchè oltre all’essere di quella famosa guerra il paese nostro stato teatro, un avanzo di quella gente rimase per sempre nel Veronese, e nel Vicentino e Trentino, e se ne mantien pur ancora dopo sì lungo giro di secoli in questi territorj la discendenza. Singolar cosa è che nelle nostre montagne confinanti alle Vicentine e alle Trentine, un tratto di dodici villaggi in circa, nel mezzo de’ quali è quello che Progno si nomina, parli una lingua differente da tutti i circostanti paesi. Suol dirsi volgarmente, ed è stato scritto da più d’uno, che s’accosti alla Tedesca, ma poco sia da’ Tedeschi intesa. Trasferitici noi però in que’ monti, e fatta in più luoghi diligente perquisizione, abbiam trovato Tedesco veramente essere il linguaggio, ma con questo di mirabile, che in gran part è quel de’ Sassoni, cioè il Toscano della Germania, pronunziando in a tutte quelle sillabe che per a si scrivono, e che l’altre provincie, singolarmente verso questa parte d’Italia situate, trasformano in o; ed orma non avendo degli storpiamenti da queste usati nelle parole: quinci nasce che co’ Tedeschi di qua con difficoltà s’intendano, come poco s’intenderebber fra se un contadino Lombardo e un Toscano. L’istessa lingua continua quasi in tutto il tenere dei Sette Comuni, territorio di Vicenza, e in tre o quattro terre del Trentino. Tuttochè fuor di questi pochi villaggi torni l’Italiano, e continui in ogni parte fin di là da Trento non piccol tratto; con tutto ciò se il linguaggio di questa gente s’accostasse al Tirolese, o a quello d’altra provincia all’Italia prossima, e participasse de’ lor suoni e pronunzia, non sarebbe da farne gran caso: ma l’udirsi quivi il parlar de’ paesi situati nell’ estremità opposta della Germania e per sì vasto intervallo disgiunti, e l’udire in Italia donne non uscite mai de’ lor boschi, uomini vissuti con far carbone, parlar il fiore dell’antichissima lingua Germanica, maraviglia reca e piacer grandissimo. Che tal lingua mostri veramente discender costoro dalle genti che invasero allora l’Italia, e fur da Mario sconfitte, appar singolarmente da Tolomeo (lib. 2), il quale afferma, gli antichi Sassoni aver soggiornato nella gola formata dalla penisola Cimbrica; e appar da Plinio (lib. 4, c. 13), che nomina Cimbri mediterranei, i quali però parrebbe venissero ad esser nel sito degli odierni Sassoni; e appar parimente dal parlarsi in gran parte pur così ancora là su l’Oceano Germanico, e da qualche affinità di questo dialetto col Danese; il che fu studiosamente riconosciuto, quando nel decembre del 1708 Federico IV re di Danimarca, Principe di sublime spirito e di penetrante ingegno, accompagnato da sceltissima corte, venne a passar nell’Italia non pochi mesi, e onorò con sua dimora di dieci giorni la città di Verona. Non s’inganna dunque il nostro popolo, quando per immemorabil uso Cimbri chiama que’ paesani. Che antica sia la tradizion di tal nome, appare da più Scrittori del 1300 [tra quali è il Marzagaglia Veronese e il Foretti Vicentino], che chiamano paese Cimbrico que’ monti, e per essi bizzarramente Cimbria Vicenza. Irrefragabil pruova anche da questo si trae di tal punto d’antica Storia, e della sconfitta de’ Cimbri nel Veronese; manifesto da ciò rendendosi che i lor fuggitivi, quali verso tal parte appunto cacciati vennero, in quell’alte montagne e in quell’ampie selve si ricovrarono e si rimasero. Altro argomento se ne può dedurre ancora dal nome di Cimbra, castello quattordici miglia di là da Trento, nominato da Paolo Diacono, e detto in oggi Cembra, (lib. 3, c. 31); e tanto più, che se bene in esso si parla Italiano, poco lungi però due villaggi sono che parlano il Tedesco diverso dal comune, e per ià, non per iò, come i nostri sudetti; senza fondamento alcuno avendo detto il Mariani nell’Istoria di Trento (pag. 585) che tal lingua sia Gotica, ed ivi fosse portata in tempo di Giustiniano da’ Goti.
Note
- ↑ V. Rudbekio, che chiaramente mostra l’errore di Tolomeo, e che usciron dalla Cimbria, e che questa fu la Svezia.
- ↑ V. Plutarco, che ne esprime la positura; e che forse Cimbri è da Cimmerii. Rudbech l. 2, p. 606. Per Cartris ultima parte di Svezia, v.Rudbeckio all’Indice.
- ↑ V. Rudbekio t. 2, pag. 202, che spiega come vada inteso Strabone dell’inondazione. V. lo stesse» t. 1, p. 293 come intenda che i Cimbri abbandonarono per l’inondazione del mare, ec.