Storia di Torino (vol 2)/Libro II/Capo VI
Questo testo è completo. |
◄ | Libro II - Capo V | Libro II - Capo VII | ► |
Capo Sesto
La prima via a manca, parallela a Dora Grossa, comincia da una vaga piazzetta formata dai due quartieri con portici d’architettura dorica, innalzati da Vittorio Amedeo ii sul disegno del Juvara nel 1716.1 Molto notabili sono questi edifìzii, e in città non ricchissima di belle architetture, meritano d’essere in modo speciale distinti. A ponente di questa piazzetta aprivasi nel secolo scorso la porta di Susa.
Succede nel secondo isolato la chiesa di Nostra Signora del Carmine, disegno dello stesso Juvara, coll’annesso convento.
Di questi nobili edifìzii potremo parlare distesamente, perchè quei buoni Carmelitani usavano metter in cronaca le memorie principali de’ loro conventi, e parte di questa fatica è sino a noi pervenuta.
I Carmelitani erano venuti a stabilirsi in Torino nel 1526, nel qual anno ottennero dalla città la chiesuola di San Sebastiano presso la Porta Marmorea. Distrutta la medesima dieci anni dopo per ordine del Re Cristianissimo, que’ religiosi si trasferirono nella chiesa di San Benigno attigua al Palazzo di Città, con licenza dell’abate Gaspare Capris che n’era commendatario.
Pochi anni dopo l’angustia del sito non capace d’ampliazione, li mosse a trattare con don Francesco Lupo, curato di Santa Maria di Piazza, ondo aver la cessione di quella chiesa parrocchiale; l’ebbero diffatto nel 1543, e papa Paolo hi l’approvava per bolla del 17 marzo di quell’anno.
Nel 1635 si cominciò in quel convento la sanla opera della riforma, coll’osservanza delle costituzioni della più stretta regola stampate in Roma nel 1625.
Questa religiosa famiglia era nel 1718 cresciuta fino al numero di quarantotto. Il convento era un aggregalo di case irregolari ed in parte minacciante rovina, aggiunte di tempo in tempo al primo edifizio. Aveasi allora il disegno di ricostrurlo; ma per farlo colla volula regolarità, conveniva occupare il vicolo a ponente e la piazzetta al nord della chiesa. Passatane richiesta alla Città, questa niegò il consenso. Onde stavano i frati molto dolenti e perplessi sul partito a cui appigliarsi, quando passeggiando due religiosi, uno de’ quali era sindaco del convento, ne’ siti del nuovo ingrandimento a ponente, videro che nell’isola di San Calisto si lavorava gagliardamente a trasporti di terra per costrurvi poi le scuderie del conte e senatore Baldassarre Saluzzo di Paesana, che aveva terminata già la fabbrica del suo vasto palazzo; e per edificare una casa per l’auditore camerale conte Vincenzo Derege di Lignana; e nacque loro il pensiero che quel sito sarebbe stato opportunissimo per la fabbrica del loro convento. Chiamavasi il sindaco il P. Ignazio Maria di San Giuseppe, e nella mente di lui s’abbarbicò tanto tenacemente questo pensiero, che, sebbene dapprincipio ripugnassero i superiori per le tante difficoltà che vi scorgeano, ei tutte agevolmente risolvendole, mostrò non solo possibile, ma piana l’esecuzione del suo disegno.
Al conte di Paesana gradirebbe assai la vicinanza d’una chiesa, da cui crescerebbe valore al suo palazzo. Il conte di Lignana sarebbe similmente dal medesimo rispetto consigliato a fabbricare in alcun altro de’ tanti siti ancor vacui. Il Re alienerebbe volontieri ai padri il rimanente spazio di quell’isola, e forse lo donerebbe. Sopperirebbero all’ingente spesa il picciolo fondo che si aveva in cassa di L. 4500; la vendita del convento vecchio; il prezzo d’una gran quantità di piante dei boschi posseduti sulle fini di Carmagnola e di Carignano; la borsa comune della provincia. Infine confidava ne’ benefattori.2
Svolse tutte le volontà a sua posta, e prima quella del vicario provinciale P. Francesco Maria Trotta, che fu gran promotore della traslazione.3
Incontraronsi e a Torino ed a Roma non poche difficolta, ma tutte furono agevolmente superate. Mancò peraltro il concorso d’insigni benefattori; e quando il padre Trotta andò a far riverenza a Vittorio Amedeo ii, ad informarlo del disegno che s’era concepito, a supplicarlo del suo R. assenso, ed insieme di qualche carila nella vendita del sito; il re sorrise, e dopo d’essersi informato curiosamente del modo con cui pensavano di sopperire alla spesa, domandò al P. Vicario se più grato a Dio sia il far limosina o il pagar i debiti; ed avuta risposta: che il pagar i debiti; soggiunse, e perciò non posso donare il valore del sito, ma vi permetto la traslazione.
A’ 20 di luglio del 1718 i Carmelitani acquistarono il terreno, ed in quel giorno medesimo fecero incominciar gli scavi.
In maggio deiranno seguente pose la prima pietra Enrichetta Maria di Rossillon, contessa di Scarnafìggi, il cui nome s’incontra in più d’una egregia beneficenza nelle memorie delle chiese torinesi4
Il nobile convento fu edificato sui disegni dell’architetto Gian Giacomo Planteri. Il 19 di marzo del 1729 si benediva l’oratorio privato apparecchialo in esso convento, da ufficiarsi fintantochè fosse costrutta la chiesa, ed i padri abbandonavano Santa Maria, seco portando ogni menoma cosa, e perfino le ossa de’ loro predecessori.
Poichè i Carmelitani ebbero fatto passaggio al nuovo convento,5 furono solleciti d’avvisar al modo di costrurre la chiesa. Il primo architetto che allora fiorisse in Italia era ai servigi del re di Sardegna. Chiamavasi D. Filippo Juvara. Nato d’antica ma povera famiglia in Messina, avea studiato a Roma sotto al Fontana. Quando Vittorio Amedeo ii andò in Sicilia a pigliar la corona, don Domenico d’Aguirre gli raccomandò il giovine architetto, che pel suo misero stato non avea potuto fino a quel tempo far edilìzi se non in carta. Il re, a cui un suo naturale sagacissimo istinto rivelava i grand’uomini, veduto il disegno d’un palazzo reale di man del Juvara, lo nominò immediatamente suo primo architetto, e lo condusse a Torino, dove edificò la facciata della chiesa delle Carmelite, quella del palazzo di Madama, la basilica di Soperga, la cappella di corte, la galleria, la scuderia, l’armeria alla Veneria Reale; la scala interiore nel palazzo del re di Torino, quella cioè che chiamano delle cesoie: infine la più bella delle opere di Juvara, compiuta dopo la sua morte, è il real castello di Stupinigi.
A questo architetto pertanto si rivolsero i Carmelitani, ed egli fece loro il disegno d’una chiesa con molte cappelle, tutta fuori dello stile usato, che sebbene alquanto ammanierata, non tralasciava d’avere molta vaghezza.
In principio di maggio del 1732 il provinciale portò a Carlo Emmanuele iii il disegno della chiesa, e lo pregò di voler porre la prima pietra. Il re commendò molto il disegno, si scusò circa al porre la prima pietra, e disse che dovendo passare qualche giorno alla Veneria, non volea rilardare la cerimonia per cui tutto già era apparecchiato; ma permise che sulla pietra si scolpisse il suo nome come se fosse presente.
Questa prima pietra fu collocata solennemente addì 13 di maggio da monsignor Giambatista Lomellini vescovo di Saluzzo. Nondimeno l’iscrizione dice così:
ECCLESIAE B. MARIAE VIRG. DE CARMELO
PRIMVM LAPIDEM
CAROLVS EMM. REX SARD.
XIII MAII MDCCXXXII.
Non so se a caso od a disegno venne dimenticato il posuit.
In men di ire anni venne terminata la chiesa a sole spese della provincia carmelitana. E tosto la medesima si parò a lutto e suonò di funebri preci a significazione di gratitudine per l’estinto suo architetto Juvara.
Sebbene questi godesse in Torino ricche provvisioni e la badia di Selve, e fosse piuttosto sottil nella spesa, dimodochè nulla qui gli mancasse, nè dignità, nè stima, nè danari, la sua fama era tanto cresciuta, che il re non potea dispensarsi di cedere alle molte richieste che da altre potenze glie ne venivano fatte, onde frequenti erano i suoi viaggi ora dentro l’Italia ora fuori. A Roma fu adoperato per la canonica e per la sagrestia di San Pietro; a Lisbona die il disegno della chiesa patriarcale e del palazzo regio, ed ebbe splendida rimunerazione, l’ordine di Cristo, una croce in diamanti ed una pensione di mille scudi. Il palazzo reale di Madrid essendo stato consumato dalle fiamme, egli fu chiamato a ricostrurne un altro, e là morì il 1° di febbraio del 1736 d’anni 50, mentre era domandato dall’imperatore, dal re di Francia e dal gran maestro di Malta.
I Carmelitani riconoscenti gli celebrarono il 10 di marzo solenni esequie nella novella loro chiesa.
Nè solo all’architetto, ma eziandio al capomastro dei muratori che regolò l’esecuzione di tutti i lavori della chiesa, diedero i Carmelitani segni di gratitudine. Egli si portò così bene, dicono le memorie del convento, che non si sarebbe potuto aspettar di più da wi religioso. Epperò gli diedero lettere di fratellanza, e partecipazion di tutti i beni spirituali fino alla quarta generazione, assicurandogli solenni gratuiti suffragi dopo morte. Questa fenice de’ mastri muratori che, finita la chiesa, non si fabbricò un palazzo, contentandosi del testimonio della buona coscienza, si chiamava Giacomo Pella. E degno d’onore, ed io gli rendo onore.
A’ 26 di maggio monsignor Francesco Arborio di Gattinara, arcivescovo di Torino, procedette a consecrar questa chiesa.
Frattanto il provinciale de’ Carmelitani, senza partecipazione de’ suoi frati, era andato al re, e lo avea pregato d’accettar la novella chiesa per chiesa reale, e di permettere che fosse dedicata al beato Amedeo di Savoia. Egli ne sperò forse qualche eroica generosità. Ma Carlo Emmanuele era buon massaio; accettò l’offerta, e promise di costrurre l’altar maggiore ed abbellir la facciata.
In quanto all’al tar maggiore, diciannove anni dopo, e così nel 1755, il cav. Claudio Beaumont cominciò il gran quadro della Madonna del Carmine e del beato Amedeo, che venne poi collocato a suo luogo il 5 marzo 1760.
Nel 1762 si pose mano alla fabbrica dell’altare, che ai 27 marzo 1765 si cominciò ad uffiziare.
Ma in quanto all’abbellir la facciata, essa è di quella bellezza che tutti vedono, e che può convenire a qualunque de’ più meschini edilìzi privati, ed il re si contentò di far dipingere l’imagine del beato Amedeo sopra la porta.
In aprile del 1737 Torino si vestì a festa per l’arrivo d’Elisabetta di Lorena, sposa del re.6 Tra i personaggi notabili che vennero in quell’occasione a Torino, fu il P. Zucchi olivetano, celebre improvvisatore, il quale pigliò stanza nel convento del Carmine. A’ 2 di maggio improvvisò a corte su tre soggetti propostigli dal duca di Savoia. Se sia più laudevole la fortezza nel combattere o la fortezza nel soffrire. Se in Alessandro avessero predominio i vizii o le virtù. La teoria de’ colori.
All’indomani improvvisò con inestimabil concorso di gente nella chiesa del Carmine. Stava egli sopra una cattedra addobbata, posta presso la balaustra della terza cappella a destra entrando; e trattò di nuovo tre argomenti che gli furon proposti.
La proposta si faceva con un sonetto, a cui rispondeva immediatamente con un altro sonetto sulle medesime rime. Poi, accompagnandosi col violino, e cantando, trattava più distesamente il soggetto che gli era stato prescritto.
Il primo argomento non era per nulla poetico. Come Dio sia trino ed uno. Ma egli era dotto teologo, e disse cose mirabili con universale stupore, conchiudendo con un’ode latina in onore della Santissima Trinità.
Il secondo argomento era: come si viva senza cibo nè bevanda. Ed egli prudentemente rispose: non doversi di leggieri prestar fede a questo fenomeno; ma darsi in condizioni naturali, senza miracolo: e fece allusione ad una monaca di Santa Chiara di Chieri, di casa Zappata di Poirino, che da molti anni non pigliava ne cibo ne bevanda fuorchè il sacro pane Eucaristico, e che perciò si chiamava la Santa di Chieri,
Era il terzo argomento: come si giunga a poetare all’improvviso. Il P. Zucchi ebbe campo di lodare i più celebri improvvisatori che allora viveano, e così la signora Manzoni di Milano, il cav. Perfetti e varii altri. Rammentò eziandio, da quell’ospite riconoscente ch’egli era, la raccolta di sonetti del P. Teobaldo Ceva, Carmelitano, e conchiuse con un brioso epilogo dei tre argomenti trattati.
Questo padre Teobaldo Ceva, autore d’una raccolta di sonetti, alla quale aggiunse i proprii commenti, è famoso per le sue contese letterarie col D.r Biagio Schiavo. Assalito da lui con critiche spesso fondate, ma sempre pungenti, si difese con altrettanta acrimonia, come appare anche dal solo titolo d’una sua risposta: Lo schiavo ridotto alla catena. Egli era del rimanente uomo colto, predicatore egregio e di tratto soave. Morì addì 8 d’ottobre del 1746 nel convento di Cherasco, di cui era priore, in età d’anni 50.
Del rimanente è noto, come i conventi ed i monasteri raccettassero sovente, sotto la tonaca e la cocolla religiosa, artisti di molto pregio.
L’undici marzo 1736 moriva tra i Carmelitani del convento d’Asti, fra Francesco della Croce, di casa Pasterio di Biella, valente scultore. Nel convento di Torino vivea il P. Arcangelo Ponzio da Macello, organista, insigne per la rapidità della mano, la maestria e la bizzarria delle suonate, sicchè molti venivano in chiesa sol per udirlo. Morì il 27 gennaio del 1745.
Era nello stesso convento fra Giambatista Bonetta di Carignano, scultore di qualche pregio, di cui sono le alzate degli organi della chiesa di Torino e d’Asti.
Infine fra Amedeo Rosso di Gassino, morto nel 1782, componeva l’acqua medicinale del Carmine che aveva acquistata gran fama.7
A’ 23 di gennaio del 1741 giunse al convento del Carmine e vi pigliò stanza, in seguito a lettere del padre generale Ricchiuti, uno dei principi del Libano, Giuseppe Serhan di Abunaufel Nader, della stirpe Gazena, con due servitori ed un cappellano dell’ordine di Malta che gli serviva d’interprete.
Allora, come adesso, i cristiani del Libano lagnavansi d’ingiusta oppressione e cercavan soccorso. Allora, come adesso, i potentati dell’occidente erano tepidi nel compassionarli, deboli nell’aiutarli.
Il principe di cui parliamo avea calde raccomandazioni del papa pel gran duca di Toscana e pel re di Sardegna: e del padre Francesco Retz, preposito generale de’ Gesuiti pel padre Ignazio Choller, confessore dell’imperatore, e pel padre Claudio Bertrando de Linyeres, confessore del re di Francia.
Rimase ventisette giorni a Torino. Ebbe liete accoglienze e circa sei mila franchi d’aiuto dal re; ed avendo mostrato desiderio della croce de’ Ss. Maurizio e Lazzaro, Carlo Emmanuele ne lo compiacque dispensandolo dalle prove.
Undici anni dopò, ebbe il convento del Carmine un altr’ospite più illustre al cospetto di Dio; e fu don Pietro Riperti, già Rettore dello spedale d’Asti, chiamato dal cardinal delle Lanze ond’esserne assistito nell’amministrazione della badia di San Benigno. Era uno di quegli uomini che sembrano naturati a non far altro che bene, che campano dell’opere di carità che fanno; a cui la carità esercitata, tien luogo di sonno, di riposo, di sollazzo, e fino a un certo segno, d’abiti e di cibo.
Dalla prima luce fino a notte inoltrata, dopo i primi doveri sacerdotali, egli spendeva tutte le ore in assistere infermi, moribondi, carcerati; in soccorrer poveri, in ammaestrar ragazzi. Il re lo chiamava spesso, e udiva con gran contento le sue esortazioni fatte con santa e soave semplicità, e leggeva i libri divoti che don Riperti gli andava porgendo.
In febbraio del 1755 incontrandosi a San Benigno in un povero seminudo, spogliossi delle vesti interiori per rivestirne il mendico; e continuando il cammino, fu preso dal freddo, in guisa che, poco tempo dopo, si pose a letto aggravato dal male. Appena il cardinale ne fu informato, mandò la sua carrozza a pigliarlo, e non avendo luogo appropriato nel suo palazzo, lo fe’ condurre al convento del Carmine, dove ogni giorno ed anche due volte al giorno egli ed il primo presidente del Senato conte Caissotti si recavano a visitarlo. Venne il 2 di marzo, e trovatolo morto, uscì lagrimando, e mandò poco stante la celebre Clementina a farne il ritratto. Fu sepolto nella chiesa del Carmine.
Questo cardinale Vittorio Amedeo delle Lanze è tal uomo da meritare qualche special memoria.
Era egli, prima della sua promozione alla sagra porpora seguita in marzo del 1746, abate commendatario di San Giusto di Susa. E da vero sacerdote che tutte le funzioni del sacro suo ministero dee reputar ugualmente preziose, pieno la mente d’umiltà, acceso il cuore di zelo pel bene del prossimo, adempieva tutti gli uffizi di vicecurato a San Dalmazzo, udiva le confessioni, portava il viatico agli ammalali, assisteva le notti intere ai moribondi; era instancabile nel consolar gli afflitti, consigliar i dubbiosi, soccorrere i poveri. Il papa, nel dargli il cappello, gli raccomandò solamente di perseverare nelle antiche virtù. Era di bello e degno sembiante, e d’inestimabile dignità nel compiere i sacri riti. Dopo d’aver raccolto l’ultimo spirito di Carlo Emanuele iii il 20 febbraio 1773, recossi presso al successore e rinunziò le cariche di grande elemosiniere e di cappellano maggiore, dicendogli che voleva d’allora in poi attendere unicamente alla propria santificazione. Cominciava così quel regno con non felici auspizi, colla dimession volontaria del cardinal delle Lanze, colla dimession data al conte Bogino.
Il convento del Carmine componevasi di oltre a venti sacerdoti, senza contare i novizi ed i laici.
La teologia che vi si insegnava era quella del gesuita Molina, noto per le controversie cui die luogo la sua dottrina sull’efficacia della grazia, discorde da quella del gran dottor S. Tommaso. La teoria del Molina ora abbandonata, o per lo meno modificata dalla stessa Compagnia di Gesù era allora vivamente anzi acremente da’ suoi fautori sostenuta e difesa.
E per ossequio a quell’alta mente che fu S. Tommaso, e per mantenere l’unita delle dottrine, i nostri principi avevano provveduto saviamente perchè le università dello Stato a quella unicamente s’attenessero. Nel 1755 l’insegnamento della teologia moliniana, che forse era ristretto a qualche provincia dell’ordine, increbbe al generale de’ Carmelitani Ponlalti, il quale fe’ prova di molto senno scrivendo al re di Sardegna: prescrivesse ai Carmelitani del regno di uniformarsi alle dottrine dell’università, insegnando la teologia di S. Tommaso. Ma in queste materie non s’incontra quasi mai agevolezza o docilità. La provincia carmelitana fece varie rimostranze e non obbedì. Sicchè il Pontalti fu costretto a mandarne quattr’anni dopo precetto d’obbedienza a pena di privazion d’officio. Allora finalmente obbedirono.
Se mai vi fu tempo nel quale i regolari dovessero studiar attentamente ogni loro azione, ogni passo, ogni detto, e mostrarsi tutti consenzienti in unità di dottrine, quello era certamente il secolo xviii, in cui molto scaduti nella pubblica opinione, combattuti, insidiati da tanti nemici, pochi di buona, molti di mala fede, vedeansi di giorno in giorno grandemente pericolare.
Pure Iddio permise che molti ordini dessero spettacolo di scandalose dissensioni, e d’intestine discordie.
Anche gli Agostiniani si misero in capo di dettar una teologia che fosse loro propria, e fondata unicamente sulle opere del gran Dottore da cui pigliano il nome. Cominciò questa novità a Murcia in Ispagna. I Domenicani levarono gran rumore, dicendo: le dottrine di Sant’Agostino da niuno essere state meglio spiegate, fuorchè da S. Tommaso. Augustinus eget Thoma interprete.
Il seguitar troppo da vicino la lettera di qualche opera di Sant’Agostino, essere stato causa degli errori di Giansenio.
La contesa si fece grave, s’invelenì e n’uscì un diluvio di scritture dall’una parte e dall’altra. Più giocondo spettacolo non si poteva apprestare all’empia scuola degli enciclopedisti. Ma sia lode a Dio. I regolari che adesso fioriscono fanno prova di maggiore prudenza; e ne anche allora tutti i regolari parteciparono a siffatto disordine. V’ hanno pure alcuni ordini che attesero costantemente ai fini del loro santo instituto senza deviare in dispute, per lo meno oziose. Nominiamo in segno d’onore, fra gli altri, i Padri della Missione ed i Barnabiti.
Nel giorno del Corpo del Signore i Carmelitani aveano il privilegio di dar la benedizione sub triplici signo come i vescovi. V’era poi nella chiesa di cui parliamo una special divozione a Sta Maria Maddalena de’ Pazzi, monaca fiorentina del loro instituto, il cui velo portavano frequentemente agli infermi pericolosi, essendo opinione popolare che dopo la benedizione data con quel velo, la malattia volga rapidamente al suo termine, o lieto o tristo, secondochè è scritto in cielo.
Nel 1775 il convento del Carmine fu rallegrato dall’arrivo del generale dell’ordine padre Ximenes. Viaggiava con grandigia spagnolesca, con un cameriere innanzi a cavallo, a guisa di corriere, ed in un carrozzone tirato da sei mule cariche di sonagli, che faceano un tintinnio continuo inestimabile.
Nel 1783, con Breve di Pio vi, vennero abolite tutte le riforme dell’ordine Carmelitano, e si prescrisse a tutte le province del medesimo l’osservanza delle antiche costituzioni.
La provincia riformata del Piemonte che si componeva di dodici conventi, venne cresciuta d’altri otto non riformati.
Negli ultimi cinquantanni di sua esistenza non tralasciò di brillare di molta luce il convento dei Carmelitani.
Il padre Cirillo De Gubernatis, d’Asti, confessore del conte Bogino, morto in aprile del 1759, reputavasi uomo di gran mente, gran facondia, gran destrezza, gran dottrina e gran virtù.
Il padre Paolo Maria Hintz, d’anni 32, fu nominato nel 1764 professore di sagra scrittura nella università di Cagliari.
In dicembre del 1776 cominciò a radunarsi in Torino, ne’ mesi d’inverno, nella casa del conte Bava di San Paolo, una conversazione letteraria di cui fecero parte i più eletti e più studiosi ingegni che allora fiorissero; il conte di San Raffaele, il conte Giuseppe San Martino della Motta, il marchese Ottavio Falletli di Barolo, il Beccaria, l’Ansaldi, il Denina, il Durando, il Napione, il Rosasco, Bossi, Pecheux, Morardi, Vittorio Alfieri, monsignor della Torre ed altri assai. Questa società levò anche presso gli stranieri nobil fama di sé, e molto influì a mantenere e crescere in Piemonte l’amore degli studi, e massime quelli di Storia patria; come ne fan fede I Piemontesi illustri e le altre opere da’suoi socii pubblicate. A quest’assemblea fu aggregato nel 1783 il padre Carlo Giuseppe Alleati, Carmelitano, il quale, eletto poi professore di filosofìa in Asti, vi fondò sul finir dello scorso secolo un’accademia; più tardi fu professore di teologia morale nella nostra Università, e morì nel 1816.8
Il padre Eustachio Delfìni, cappellano del vascello il Vendicatore nella gloriosa spedizione del balio di Suffren, pubblicò una relazione del suo viaggio.
Il padre M. Pietro Reyneri, morto nel 1788, pubblicò un’opera di quattro volumi, col titolo: II vero cristiano erudito. Ma vinse la fama di tutti il padre Evasio Leone da Casale, il quale nel 1788, in età di ventiquattr’anni, avea già acquistato nome d’elegante verseggiatore colla versione della Cantica di Salomone, e andava giornalmente segnalandosi sui sacri pergami come predicatore.9 Egli avea preparato altresì un’opera poetica sulla storia della Monarchia di Savoia, assai ben fatta, ma i politici rivolgimenti lo impedirono di pubblicarla.
Espulsi dalla rivoluzione i Carmelitani, fu stabilito nel loro convento uno dei due collegi urbani, e la generazione a cui appartengo s’educò tutta in quelle scuole, o in quelle di San Francesco di Paola.
Qualche anno dopo la restaurazione della monarchia di Savoia, vi fu allogato il collegio de’ Nobili affidato alia vigile cura de’ padri della Compagnia di Gesù.
L’architettura della chiesa del Carmine, un po’ bizzarra, come s’è detto, e tutta fuori dell’ordinario, non tralascia d’esser piacente.
In essa chiesa non mancano neppure dipinti di qualche pregio. La gran tavola dietro l’altar maggiore in cui si vede in alto la Madonna del Carmine, nel piano inferiore il beato Amedeo di Savoia che fa limosina con molte altre figure, è, come già si notò, opera del cavaliere Claudio Francesco Beaumont, capo della scuola torinese di pittura, morto addì 20 giugno del 1760 in età d’anni 72.10
Le scolture in legno sono di Stefano Maria Clemente, a cui appartengono anche i puttini e lo stemma de’ marchesi di Priero nella cappella della Concezione; e nel Battistero, il battesimo di Cristo ed il Padre Eterno, di mezzo rilievo, due Virtù e due puttini di tutto tondo.
Allato all’altar maggiore si porranno due porte donate nel secolo xvii al monastero dell’Annunziala da Madama Reale Cristina, ed ora dalla pietà del re Carlo Alberto concedute ad uso di questa chiesa. Sono squisitamente intagliate, ornate de’ nodi di Savoia e de’ fiordalisi, e in mezzo v’è raffigurato il gran mistero dell’Annunziazione di Maria.
Abbiam detto che l’altar maggiore è stato costrutto nel 1762 dal re Carlo Emmanuele iii.
Otto anni dopo, essendo lo stesso principe venuto a visitar la chiesa, non fu contento della forma data al tempietto che levavasi sopra il tabernacolo, e lo fece rifare sul disegno del conte Birago di Borgaro
Il gran quadro della Concezione rappresentala Visione del santo profeta Elia descritta al libro iii dei Re, capo xviii; vedesi la Vergine sulle nubi; al piano il profeta Elia da un lato, il coechio d’Acabbo dall’altro. Fu lavorato in Roma nel 1740, e costò 100 doppie di Savoia. È opera di Corrado Giaquinto di Molfetta discepolo del Solimene e del Conca, egregio coloritore, ma ammanierato e mediocre disegnatore, il quale ebbe tuttavia gran fama, e dipinse molto e in molti luoghi, e fra gli altri i freschi del palazzo reale di Madrid; nel quale l’affresco che rappresenta la Religione e la Chiesa è opera di gran bravura e molto lodata da quell’avaro lodatore del Mengs.
È noto che i Carmelitani riferivano l’origine del loro instituto al profeta Elia; con qualche argomento di probabilità, se si restringe la cosa ad una succession di romiti che abitassero il monte Carmelo vicino alla caverna ove si dice sepolto il profeta; con favola manifesta, se s’intende parlare d’una vera corporazion religiosa. Il fatto è, che il tempo e la carta sprecata nell’affermare e nel negare, nell’assalire e nel difendersi, avrebbe potuto consecrarsi a miglior uso.
La cappella di cui parliamo è stata fondata da Ercole Giuseppe Ludovico Turinetti, marchese di Priero, che fu ministro di Vittorio Amedeo ii in Inghilterra, e che a molto maggior fortuna salì poi al servizio degli imperadori Leopoldo u e Carlo vi, essendo stato innalzato al grado di consigliere intimo, di grande di Spagna di prima classe, di cavaliere del Toson d’oro ed essendogli stata procurato, non senza qualche difficolta, anche il collare dell’ordine dell’Annunziata. Giovanni Antonio Turinetti, marchese di Priero, figliuolo di lui che fu generale d’artiglieria sotto Maria Teresa, ed anche ministro di quella principessa in Isvizzera, ha compiuto nel 1744 questa cappella ordinata per testamento del padre, come si raccoglie dall’iscrizione.
Allato a questa cappella si vede quella della Madonnadel Carmine, il cui altare dovea formarsi nel1773 dalla compagnia dell’Abitino, ma con certecondizioni che al convento parver gravose. Onde i Carmelitani lo fecero costrurre a proprie spese suidisegni dell’architetto Feroggio, che non li contentavaappieno, dice il Diario, ma che pur fecero eseguire, perchè Feroggio prometteva di far donare i marmi dal re, come poi fece. Dapprima vi si pose un quadro, ma nel 1782 vi fu surrogata una statua di carta pesta del Dugué.11
La cappella di Sta Maria Maddalena de’ Pazzi fu eretta nel 1735-36 da Baldassarre conte Saluzzo di Paesana.
Quella di Sant’Anna era stata fondata dai Ripa a Sta Maria di Piazza, e fu rifondata in questa chiesa.
I Ripa, d’origine Monferrina, vennero a stabilirsi in Torino ai tempi di Carlo in; Agostino Ripa, segretario di Carlo Emmanuele i nel 1589, poi consigliere di Stato e segretario de’ comandamenti, delle finanze e dell’ordine dell’Annunziala, fatto conte di Giaglione nel 1594, alzò la fortuna di quella casa.
Il marchese Ripa di Meana pose nel 1725 un monumento a tutti i suoi antenati nella cappella di suo patronato a Sta Maria, e la trasportò quindi nella nuova chiesa del Carmine.12
Una iscrizione posta sull’organo rammenta essere stato fabbricato nel 1738 da Giuseppe Calandra di Torino; comporsi di 1840 canne; avervi un organo minore che serve d’eco.
I sotterranei sono chiari e belli. Vi sono sepolti varii collaterali e mastri auditori. E vi giace pure D. Francesco Melonda, sardo, che essendo giudice della R. Udienza, fu chiamato da Vittorio Amedeo ii a professore di leggi nella restaurata università di Torino, e morì presidente in Senato il 24 d’ottobre 1742.
In un sotterraneo inferiore sotto al coro dormono i padri Carmelitani, e con essi l’Alloati da noi già citato. Le ossa degli antichi Carmelitani già sepolti a Sta Maria di Piazza, vennero collocate in un solo monumento con questa iscrizione:
ANTERIORVM CARMELITARVM TAM AR ANNO 1544
VSQVE AD ANNVM 1728 IN ECCLESIA S. MARIAE DE PLATEA ANTIQVI CONVENTVS QVAM AB ANNO 1729 VSQVE AD ANNVM 1738 (dopo la traslazione ma primachè fosse ultimata la chiesa) IN ORATORIO HVIVS SEPVLTORVM OSSA HVC TRANSLATA IACENT COMMIXTA VRI HINC INDE POSTERIORVM CORPORA AB ANNO 1736 ET DEINCEPS SEORSVM TVMVLATA QVIESCVNT.
Il primo di questi sotterranei servì assai tempo di cappella ai soldati acquartierati nelle vicine caserme. I morti del vicino spedai militare vi ricevevano sepoltura.
Il magistrato della Regia Camera de’ conti assiste in questa chiesa ad ufficio solenne il dì del beato Amedeo, ed è dal clero e dal parroco accompagnato processionalmente alla visita della cappella del beato in S. Domenico.
Prima della rivoluzione adempivano l’ufficio di cappellani del magistrato i RR. padri Carmelitani, fin da quando abitavano ancora il convento di Sta Maria di Piazza, anzi poco tempo dopoché vi furono stabiliti nel 1544, essendo allora stati deputati cappellani del Parlamento e della Camera de’ Conti del re di Francia.
In casa Cotti, in faccia alla chiesa del Carmine, morì il 20 febbraio 1740 il gran cancelliere marchese Zoppi.
Scendendo la via del Carmine s’entra nella piazza Susina che dal palazzo de’ conti Saluzzo di Paesana si chiama volgarmente piazza Paesana. Cola s’attendano i ferravecchi, qua i rigattieri ambulanti e qua i lavoratori di campagna aspettano chi li conduca.
Questa piazza di sufficiente ampiezza e regolarità desidera una bella fontana a comodo pubblico e ad ornamento d’una capitale scarsa molto di simili monumenti.
Il magnifico palazzo de’ conti Paesana occupa tutta l’isola di S. Chiaffredo, ed è stato innalzato sui disegni del Planteri. Sono da vedersi il vestibolo, i due scaloni ed il cortile d’onore, il più vasto che sia in Torino.
Sull’altro lato della piazza è il palazzo de’ conti Martini di Cigala, struttura piccola ma assai bella attribuita al Juvara. Quest’architetto fece poche case private, perchè dava piuttosto nel grande; ed i suoi concetti convenivan meglio all’erario d’un principe che alle borse d’un capo di famiglia, massaio dell’aver suo.
Procedendo innanzi, prima di giungere al sito dove il fianco del palazzo de’ marchesi di Barolo ristringe sformatamente la strada che così bella movea dalla piazza de’ quartieri, vedesi dal medesimo lato un casamento che altre volte apparteneva all’antica schiatta dei conti Orsini, signori di Rivalta, d’Orbassano e d’altre terre. Passato quel valico, levasi a sinistra la bella mole del palazzo de’ magistrati supremi del Senato e della Regia Camera, sul frontone della quale è scritto impropriamente Curia Maxima.
A’ tempi d’Emmanuele Filiberto il Senato e la Camera risedettero alcun tempo in quell’ala del palazzo ducale, che il maresciallo di Bordigliene avea fabbricata verso levante, durante l’occupazione francese, e che si chiamò paradiso; ma sul finire dello stesso secolo avea già il Senato la sua residenza nell’isola in cui è di presente ed a cui dava il nome; ivi era anche la Camera. Nel 1671 Carlo Emmanuele ii volendo per servizio e decoro della giustizia ridurre in miglior forma le habitationi de’ magistrati e delle carceri, e volendo che si cominci da queste come quelle che ne hanno maggior bisogno, per sicurezza de’ carcerati e comoda loro habitazione, ordinò l’acquisto di varie case private,13 e alzò, col disegno del conte Amedeo di Castellamonte, la fabbrica che ancora si vede, anche esteriormente ordinata a fin d’atterrire. Ma al palazzo de’ Magistrati non si pose mano.
Nel 1600 i due magistrati furono trasferiti nel palagio che una volta apparteneva a monsignor di Racconigi.
Vittorio Amedeo ii volendo che i supremi amministratori della giustizia avesser degna sede, commise al Juvara la formazion d’un progetto, per cui la metà dell’isolato non consecrata alle carceri si convertisse in un maestoso palagio destinato a quest’uso. L’appalto dei lavori fu pubblicato il 18 maggio 1720. Giacomo Bello ne fu deliberatario. Si cominciò a murare e si terminò l’ala di levante. Ma in parte le guerre, in parte la trascuratezza de’ ministri regi, fecero interromper l’opera, e intanto a mala pena nel fabbricato già eretto, poteva allogarsi il magistrato della Regia Camera col suo copioso ed importante archivio.
Nel 1748 Carlo Emmanuele iii spedito da’ suoi guerrieri trionfi, più sanamente imaginava che le carceri dovessero esser tolte da quel sito centrale e trasferite in un angolo della città (via de’ Fornelletti), e che l’intero isolato, mutato in pubblico edilìzio, raccogliesse tutti i magistrati e tribunali della capitale. Il conte Benedetto Alfieri ne stese uno stupendo progetto, sostituendo nella facciata all’ordine dorico l’elegante Jonico Scamozziano. Se questo progetto fosse stato eseguito, niuna città potrebbe vantare ugual monumento, ma i lavori appena cominciali furono di nuovo interrotti.
Altra volta furono ripresi i lavori a’ tempi di Vittorio Amedeo iii, e nel 1787 si cominciò la facciata; ma di nuovo i casi di guerra e le angustie dell’erario ne vietarono il proseguimento, finchè il re Carlo Felice nel dicembre del 1824 ordinò si continuasse quella fabbrica e si conducesse a compimento. Ma solo in luglio del 1830 s’approvarono i progetti dell’ingegnere Michela e si stanziarono i fondi necessari. L’èdifizio era compiuto nel 1838.14 In novembre la Regia Camera si adunava nella nuova aula a ponente; s’adorna la medesima di pilastri d’ordine ionico e sotto Timposta di sedici alti rilievi; dieci sono i medaglioni e vi si raffigurarono con ottimo pensiero dieci de’ più famosi giureconsulti nazionali; sei rappresentano genii seduti addossati l’un all’altro e scriventi. Nella illustrazione che ne fu pubblicata si chiamano il genio giureconsulto ed il genio cancelliero. Idea piena di novità, non essendosi mai detto od imaginato che il genio bazzicasse tra i cancelli degli attuarii.
Il Senato tenne in questo palazzo le sue prime sessioni il 6 di marzo 1839. Belle sono tutte le sale in cui siedono le classi civili, bellissima, a parer mio, quella dell’angolo sud-ovest: graziosa, sebbene un po’ troppo carica d’ornamenti, è l’aula in cui si raccoglie la prima classe civile, adorna di colonne corinzie, etra gl’intercolunnii d’emblemi, di religione, di milizia, di scienze, di commercio e d’agricoltura; in questa sala una tavola di straordinaria dimensione del cavaliere Giambattista Biscarra, mostra il re Carlo Alberto nell’atto di consegnar il Codice civile ai magistrati del Senato e della Camera. Non v’era forse soggetto più ribelle che questo ai concetti dell’arte; quella quantità di toghe rosse e nere, d’abiti uniformi militari e civili, collocati non secondo il desiderio dell’arte, ma secondo il rigore del cerimoniale, faceva grande ostacolo al comporlo e al dipingerlo bene. Si aggiunga che le figure doveano, per quanto è possibile, esser ritratti, o almeno ricordar le fattezze di chi s’intendea rappresentare. Molte difficolta superò felicemente il Biscarra, il cui gran quadro storico, è offerta generosa del chiaro artista, è un servigio reso alla patria. L’edificio di cui parliamo, d’un aspetto assai maestoso, nobilita, non v’ha dubbio, la capitale. Ma ne scema molto il valore il non esser condotto che a poco più della meta, l’abbracciarsi che fa colle carceri e il travedersi, in mezzo alle colonne ed ai pilastri del suo stupendo vestibolo e dell’ala sottostante al suo spazioso terrazzo, la torre infame della tortura e le camere degli sgherri e le inferriate de’ carcerati e l’andito della cappella dei condannati all’estremo supplizio; chiamato da noi confortatorio e altrove cappella dell’anima.
Continuando la strada che di bel nuovo si fa irregolare ed angusta, vediamo a manca un avanzo di Torino, qual era in gran parte ne’ primi anni del cinquecento, in que’ casolari piccoli, neri, or alti, or bassi, con cortili angusti e ballatoi di legno.
Nel secondo isolato a destra, che appartiene alla Città, v’ha la porta che mette nel vasto cortile del mercato del butirro che un dì chiamavasi piazza di San Benigno, dalla chiesa di questo nome che occupava, come abbiam detto, il fondo del presente Palazzo Civico. Nel lato di meriggio della piazza di San Benigno, eranvi nel secolo xvi, gli alberghi dell’Angelo e de’ Pesci.
E qui la via che abbiamo percorsa, sbocca nella grande strada d’Italia, accanto alla nuova torre del Comune.
Note
- ↑ [p. 254 modifica]In tal anno si è cominciata la fabbrica. V. Soleri, Diario di fatti successi in Torino dal 1682 al 1720, ms. della biblioteca di S. M.
- ↑ [p. 254 modifica]Memorie della fabbrica del nuovo convento del Carmine. Nell’Archivio di quella chiesa parrocchiale.
- ↑ [p. 254 modifica]Nell’appartamento del curato del Carmine vedesi il ritratto di questo
padre colla seguente iscrizione:
FRANCISCVS MARIA TROTTA S. T. D.
EX SECRET. GENER. CARMELITAR. CAENOBIVM 1526
EXTRA PORTAM MARMOREAM ERECTVM 1544 AD S.
MARIAE DE PLATEA TRANSLATVM 1718 HVC TRANSFERRI
CVRAVIT. - ↑ [p. 254 modifica]Nella prima pietra era incastrato un piombo coll’iscrizione:
VBI ANGVSTA ESSE DESINIT
TAVRINORVM AVGVSTA HVC IMMIGRAT CARMELVS
ILLVSTRISSIMA DOMINA ENRIETA MARIA ROSSILION
DE SCARNAFIXIO PRIMVM MONASTERII LAPIDEM IECIT.Conti della fabbrica. Diario primo.
- ↑ [p. 255 modifica]Vi fu costrutto nel 1741 lo scalone sul disegno del conte Giampier Alìiaudi Baronis di Tavigliano, architetto, discepolo del Juvara. Egli chiamavasi dapprima Ignazio Agliaudo; ma essendo stato chiamato ad una primogenitura di casa Baronis, mutò nome e cognome. V. la Vita ch’egli scrisse del suo maestro Juvara.
- ↑ [p. 255 modifica]Questa buona principessa, pia, affabile, piena di carità verso i poveri, morì il 6 luglio 1741. In occasione della visita di condoglienza il re stabilì che d’allora in poi non permetterebbe più ai vescovi ed agli abati di baciargli la mano. E fu cosa molto ben fatta.
- ↑ [p. 255 modifica]Liber Diarius secretarvi conventus Carmelitarum Taurini. Nell’Archivio della parrocchia del Carmine.
- ↑ [p. 255 modifica]Una parte de’ membri della Conversazione letteraria fondò qualche anno dopo un’altra società chiamata Filopatria, più specialmente dedicata agli studi storici, della quale era zelantissimo promotore il conte Prospero Balbo d’illustre e cara memoria. V. Vallauri, Delle società letterarie del Piemonte.
- ↑ [p. 255 modifica]Diario già citato del convento del Carmine.
- ↑ [p. 255 modifica]Nota a penna del Vernazza alla Nuova Guida di Torino del Derossi, del 1781.
- ↑ [p. 255 modifica]Diario del convento del Carmine, già citato. — Debbo qui contrassegnare la mia gratitudine al signor teologo Della Porta, parroco zelantissimo del Carmine, il quale mi ha dato ogni maggior comodità per esaminare il copioso archivio degli antichi Carmelitani.
- ↑ [p. 255 modifica]V. Raccolta d’Iscrizioni patrie, ms. dell’Arch. di corte, e Galli, Cariche del Piemonte, iii, 35.
- ↑ [p. 255 modifica]Biglietto del duca del 9 febbraio di quell’anno. Arch. camerale. — Biglietti regi, vol. 34, fol. 54.
- ↑ [p. 255 modifica]Michela, Descrizione e disegni del palazzo de’ Magistrati Supremi di Torino.