Storia di Milano/Capitolo XII
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Di Luchino, di Giovanni arcivescovo, e dello stato della città sino verso la metà del secolo XIV
Il consiglio generale di Milano, nel giorno 17 agosto 1339, cioè nel giorno immediatamente dopo la morte di Azzone, che non lasciò figliuolanza, proclamò signori di Milano Luchino e Giovanni Visconti, zii paterni di Azzone, e i soli figli ancora viventi di Matteo I. Sebbene però a tutti due i fratelli fosse data la sovranità, e che gli atti pubblici per la maggior parte fossero in nome di entrambi, realmente però Luchino da solo disponeva d’ogni cosa. Giovanni era di placido e benigno carattere, e non volle mai contrastare col risoluto e qualche volta violento Luchino, il quale sapeva ben regolare lo Stato. I fatti mostrarono poi, quando Giovanni rimase a regnar solo, che nel partito da lui preso nessuna parte vi ebbero la debolezza o i vizi dell’animo; ma fu guidato dalla sola ragione e dalla virtù. Alle dieci città che lasciò Azzone, aggiunse Luchino Asti, Bobbio, Parma, Crema, Tortona, Novara ed Alessandria; e così divenne signore di diciasette città, la maggior parte sottomesse colle armi; il che gli rese nemici il conte di Savoia, il marchese di Monferrato, i signori Gonzaghi, i Genovesi ed altri Stati d’Italia, sbigottiti dalla forza preponderante collocata in così breve spazio di tempo nella casa Visconti; poichè ne’ primi tre anni del suo governo Luchino estese a tale ampiezza lo Stato. Oltre al dominio del marchese d’Este, cui Luchino aveva mosso guerra, le di lui armi eransi inoltrate fino a Pisa, e costrinsero i Pisani a chiedere pace, pagando a Luchino centomila fiorini d’oro, ed obbligandosi a presentargli ogni anno un palafreno con due falconi in segno d’omaggio: ecco ciò che questo principe fece per l’ingrandimento del suo Stato. Molto fece egli ancora per mantenere e introdurre l’ordine sociale nel suo dominio. (1348) Ei preservò Milano dalla peste l’anno 1348. Egli non volle proteggere veruna fazione; e Guelfi e Gibellini indistintamente erano difesi dalle stesse leggi, e ritrovavano egualmente giustizia. Le strade poi, che per l’addietro erano infestate da’ ladri, divennero sicurissime; per ottener la qual cosa Luchino si appigliò ad un partito singolare. Prese egli al suo stipendio i masnadieri medesimi che vivevano in prima saccheggiando i passaggieri, e da costoro le fece custodire, il che mirabilmente si ottenne. Oltre i masnadieri, erano saccheggiati i viandanti da cento angherie che loro imponevano i feudatari nelle giurisdizioni de’ quali conveniva loro di passare; il che sembra una prova di più delle antiche prepotenze de’ nobili sopra de’ popolari, delle quali si è superiormente trattato. Luchino promulgò provvide leggi, ch’ebbero per oggetto di preservare i poveri dall’oppressione, sollevare il popolo da’ carichi, assoggettarvi i ricchi, e togliere ai nobili ogni mezzo d’esercitare impunemente estorsioni e violenze. La politica di Luchino dispensò la plebe dall’obbligo di servire nelle guerre; e, coll’apparenza d’un pietoso beneficio, allontanò così il popolo dal maneggio dell’armi, e piantò l’ordine e la sicurezza pubblica sotto di un’assoluta monarchia. Vegliava egli sulla esecuzione di tai regolamenti, ed era severamente punita la prepotenza di chiunque. Stabilì in Milano un supremo giudice, che si nominò sgravatore, e nel latino di quella età exgravator: magistrato che si rese celebre in quei tempi per l’autorità, non meno che pel buon uso a cui l’impiegava. Questo sgravatore doveva sempre essere un forestiere, e non doveva avere nè moglie nè figli nè parenti in Milano. Anzi si portava la diffidenza al segno, che non era mai permesso allo sgravatore di andare a cibarsi in casa di alcuno, ma doveva sempre starsene solo in casa propria. Il ministero dello sgravatore era di decidere sommariamente e senza appellazione le querele di coloro che si credessero indebitamente gravati da qualunque altro giudice, e invigilare sulla retta amministrazione della giustizia. Il sistema delle strade nel circondario delle dieci miglia dalla città, che continuò sino ai giorni nostri, era d’istituzione di Luchino. In conseguenza di tali regolamenti, col favore della sicurezza pubblica, s’introdusse il commercio e l’industria. S’incominciarono a piantare a que’ tempi in Milano alcune fabbriche d’oro e di seta. L’agricoltura si rianimò, e se ne cominciarono a conoscere i raffinamenti. Si perfezionò la coltura della vite, e si principiò a preparare un vino più delicato, che chiamavasi vernaccia. S’introdussero razze di cavalli e di cani. La popolazione s’andava accrescendo. I costumi s’ingentilivano; e il Fiamma, deplorando, con poco giudizio, questi cambiamenti, rimproverava ai Milanesi de’ suoi giorni l’eleganza del vestire, la pompa degli ornamenti, la squisitezza delle mense e lo studio delle lingue forestiere: studio il quale fa conoscere che il commercio era già dilatato in paesi oltramontani.
Sin qui ho rappresentato in compendio le buone qualità di Luchino, ora l’imparzialità storica mi obbliga a dirne ancora i vizi. Francesco Pusterla, nobile ed onorato cittadino non solo, ma uno de’ più amabili, più ricchi e più splendidi signori di Milano, aveva in moglie la signora Margherita Visconti, parente del sovrano, donna di esimia grazia e bellezza. Luchino pensò di sedurla, come aveva fatto a Piacenza colla signora Bianchina Landi il di lui fratello Galeazzo I; ma trovò la fedeltà istessa e lo stesso amore verso lo sposo anche nella virtuosa Margherita. La tela era già ordita per far soffrire a Luchino il destino medesimo di Galeazzo; se non che il cauto e sospettoso Luchino fu pronto a scoprirla e lacerarla. Tutto era disposto per discacciare con una rivoluzione questo principe dal suo trono, e si dubita che i di lui nipoti Matteo, Barnabò e Galeazzo fossero complici. Ma Luchino prese talmente le sue misure, che Francesco Pusterla, fautor principale della congiura, appena ebbe tempo bastante di salvarsi colla fuga, e di ricoverarsi presso del papa in Avignone. Fin qui si vede un vizio di questo principe; ma in seguito si manifesta un’iniquità bassa ed atroce. Non risparmiò spesa o cura Luchino per attorniare in Avignone istesso il Pusterla d’insidie e di consiglieri, i quali, con simulata amicizia, lo animassero a ritornare nell’Italia, persuadendogli che presso dei Pisani avrebbe trovato un sicurissimo asilo, e si sarebbe collocato più vicino alla patria per rientrarvi ad ogni opportunità. Furono tanto moltiplicati i consigli, e tanto apparenti le ragioni, che alla fine il Pusterla si arrese, s’imbarcò, e per mare si trasferì a Pisa; ove arrestato venne dai Pisani, che temevano le armi di Luchino, e a lui fu consegnato. Francesco Pusterla, trasportato a Milano, terminò la sua vita coll’ultimo supplicio. Un gran numero de’ suoi amici diedero al popolo lo stesso spettacolo; e quello che rese ancora più crudele la tragedia, si fu che la nobile e virtuosa Margherita dovette, al paro degli altri, finire nelle mani del carnefice. Il luogo in cui si eseguì la carnificina fu al Broletto Nuovo, cioè alla piazza de’ Mercanti, dalla parte ove alloggiava il podestà, ed ove vedesi la loggia di marmo delle scuole palatine collo sporto in fuori, da dove solennemente il giudice pronunziava le sentenze di morte. I nobili venivano ivi su quella piazza abbandonati all’esecuzione: all’incontro i plebei erano trasportati fuori di porta Vigentina al luogo del supplicio. L’industriosa sagacità adoperata da Luchino per cogliere nell’insidia il Pusterla, potrebbe essere una lode per uno sbirro o un bargello, ma è una macchia che disonora un sovrano. La crudeltà poi di far condannare all’orrore del supplicio una donna amata, in pena della sua virtù, è una macchia ancora più obbrobriosa e vile. Luchino esiliò dallo Stato i tre suoi nipoti, figli di Stefano, cioè Matteo, Barnabò e Galeazzo. La ragione di Stato forse giustificava un tal rigore, singolarmente dopo i sospetti di loro complicità nella congiura dell’infelice Pusterla. Pretendono alcuni che Galeazzo, il nipote, fosse anche troppo intimamente unito alla signora Isabella Fieschi, moglie di Luchino, e che il bambino ch’ella partorì, ed ebbe il nome di Luchino Novello, per questa cagione insieme colla madre vedova passasse poi a Genova, e non entrasse mai nella serie de’ nostri principi. Avrà avute quel sovrano le sue buone ragioni per tenersi lontani i nipoti; ma le insidie colle quali incessantemente li perseguitava nei paesi lontani, la miseria e la povertà nella quale gemevano sempre raminghi, sconosciuti ed erranti (ora nella Francia, ora nella Germania e persino nella Palestina, ove Galeazzo fu creato cavaliere del Santo Sepolcro), son prove d’un animo niente generoso, ma anzi vendicativo e crudele. Il Corio ci dice come Luchino aveva obtenuto che ’l papa haveva declarato che Barnabò e Galeazzo suoi nepoti, per lui relegati ale confine come suspecti de la fede, violatori de la pace, perjuri e detestandi, non puotessino contrahere matrimonio, e morendo manchassino de ecclesiastica sepultura, ne che imperatori ne re con epsi potessino havere confederazione, dil che tri jurisperiti, difendendo li prenominati fratelli, si appellarono de tanta nephandissima declaratione alo imperatore. E in fatti era cosa evidente che, volendosi dividere la signoria d’Azzone, i tre fratelli Matteo, Barnabò e Galeazzo avrebbero dovuto per giustizia possedere la porzione di Stefano, loro padre e fratello di Luchino e di Giovanni; e può darsi che l’ingiustizia che provavano, essendo esclusi nella divisione, fosse l’origine di questi guai. Gli avvenimenti sono lontani da noi, e non ci sono noti che per quel poco che alcuni ce ne hanno tramandato. L’indole di Barnabò e di Galeazzo era perversa, come dimostrarono poi; quindi Luchino avrà forse avute delle ragioni colle quali giustificarsi.
L’occasione della morte di Luchino la riferirò colle parole istesse di Pietro Azario. Voverat autem praedicta domina Elisabeth, ejus uxor, visitare ecclesiam Sancti Marci in Venetiis, ut dicebat. Cui itineri dominus Luchinus annuit. Et sociata multis proceribus utriusque sexus, iter arripuit, et tamquam imperatrix et cum maximis dispendiis et curia pubblicata, recepta fuit in Verona per dominum Mastinum. Complevitque iter suum, et dicitur etiam voluntatem suam complevisse circa coitum; et aliae sociae suae de majoribus Lombardiae fecerunt illud idem. Propterea multa scandala sequuta sunt. Sed quia amor et tussis nequeunt celari, nec aliquod tam occultum, quod non reveletur, quum ipsa rediisset, dominus Luchinus scivit et audivit de gestis. Sed tamquam sapiens curavit dare ordinem de vindicta. Et quia una die dixit, quod in brevi facturus erat in Mediolano majorem justitiam, quam umquam fecisset, cum pulchro igne, praedicta ejus uxor percepit quod ipsa erat in justitia; illa intellecta, propter commissa cum persona, non poterat se excusare a praedictis, sicuti alias excusaverat. Qualiter autem processissent negotia, ignoratur, nec scribitur. Sed dominus Luchinus vindictam illam facere non potuit propter defectum vitae. (1349) Così Luchino Visconti si trovò improvvisamente morto il giorno 24 di gennaio 1349, all’età di cinquantasette anni, dopo di avere signoreggiato nove anni ed alcuni mesi. L’Azario non dice che la moglie lo avesse avvelenato, ma con un verso conclude:
Nam nulli tacuisse nocet: nocet esse locutum.
Ei ci descrive Luchino così: Austerus homo visu et opere erat, parcus in promittendo, largus in attendendo. Sotto il principato di lui in Milano crebbe notabilmente la popolazione, la ricchezza e l’industria; e non poteva a meno che ciò non accadesse in una metropoli mantenuta in pace, situata in un fertilissimo terreno, sotto un sovrano che proteggeva e vegliava su i poveri e popolari, contenendo i potenti, che manteneva l’ordine pubblico e il facile corso alla giustizia: essendo la sede d’un principe che dominava diciasette città del contorno. Il carattere di Luchino è un misto di buone e di cattive qualità: cuore insensibile e mente illuminata per governare, unita a forza d’animo e valor personale, il che può formare un fausto principato, non mai un principe buono o grande; qualità generose, che hanno sempre per base un cuore buono. Le lacrime sparse alla morte d’Azzone erano un encomio per il principe trapassato, e un biasimo preventivo per quello che subentrava; simili desolazioni pubbliche si vogliono sempre dividere per metà. Luchino in fatti fu sommamente temuto per la sua risolutezza, per la sua implacabile severità, e per la sua profonda dissimulazione
Ostendebat de paucis curare et de multis curabat,
dice l’Azario.
Giovanni Visconti, figlio di Matteo I, fino dall’anno 1317 era stato canonicamente eletto arcivescovo di Milano; ma il papa, al quale dava non poco fastidio la rapida fortuna de’ Visconti, di propria autorità nominò e consacrò un altro arcivescovo, e fu, siccome dissi, il francescano frate Aicardo; il quale visse sempre ramingo ed esule dalla sua chiesa, dove appena potè ricoverarsi un mese prima della sua morte, accaduta nel 1339. Allora di bel nuovo gli ordinari elessero per la seconda volta Giovanni Visconti. I tempi erano mutati e, quantunque Giovanni avesse accettata la dignità di cardinale della chiesa romana dall’antipapa Nicolò V (dignità ch’ei però aveva deposta al riconciliarsi che fecero i Visconti col papa), Clemente VI lo riconobbe e preconizzò arcivescovo l’anno 1342. Giovanni, il giorno 17 di agosto 1339, era già stato dichiarato signore di Milano dal consiglio generale, insieme col fratello Luchino; quindi, dopo la morte di questi, non v’ebbe bisogno di nuova elezione per dargli la signoria; onde egli, senz’altra cerimonia, venne da ognuno obbedito. Si trova però un decreto memorabilissimo, fatto dal consiglio generale, verosimilmente in questo tempo; poichè oltre al confermare il dominio all’arcivescovo Giovanni, il principato, che sino a quel giorno era stato elettivo, si stabilì ereditario. Tale decreto leggesi in un antico codice segnato A, che si conserva nell’archivio del reale castello, segnato n. 1, p. 11. Ecco le di lui parole: Quod praefatus magnificus et excelsus dominus Johannes, filius quondam bonae memoriae domini Matthei de Vicecomitibus, et posi ejus domini Johannis decessum, eo modo, quilibet alius masculus, descendens per lineam masculinam et ex legittimo matrimonio ex praefato quondam domino Matthaeo de Vicecomitibus sit et sint perpetuo verus et legitimus et naturalis dominus, et veri et legitimi et naturales domini civitatis et totius districtus et dioecesis et jurisdictionis Mediolani. Questo decreto ivi è mancante e del principio e del fine. Forse vi erano delle condizioni colle quali veniva moderata la perpetua sovranità; anzi è assai probabile che il consiglio non volesse privarsi del prezioso diritto dell’elezione, senza una reciproca ricompensa che assicurasse la immutabile conservazione de’ privilegi del consiglio medesimo. Ma questo archivio, stato custodito dai sovrani che in seguito signoreggiarono, non poteva essere un sicuro deposito di simile documento, in quella parte che avrà limitata la sovranità. Il consiglio, composto di cittadini che non erano stati nominati nei comizi generali, ma dal principe istesso, ovvero da un podestà che gli era subordinato, non poteva obbligare la città, la quale non era rappresentata dal consiglio, se non illegalmente. E quand’anche i consiglieri poi avessero una legittima rappresentanza, non potevano conferire ad altri, se non quanto era in dominio della città medesima. La suprema sovranità dell’Impero, per diritto, sussisteva; e la pace di Costanza l’aveva definita centosessantasei anni prima. Onde quest’atto non poteva confidare ai Visconti se non quella porzione della sovranità che, in vigore di quella pace, era rimasta alla città, cioè i tributi, l’elezione de’ magistrati, la guerra e la pace; ma non mai togliere l’appellazione all’imperatore, nè il vassallaggio stabilito nell’anzidetta pace.
Appena l’arcivescovo Giovanni rimase solo alla testa dello Stato, ognuno dovette conoscere che la passata sua non curanza del governo certamente non nasceva da mancanza di talento per governare, nè da indifferenza per la gloria, nè da insensibilità per il pubblico bene. Il virtuoso principe cominciò il suo regno col fare la pace co’ vicini; col conte di Savoia, co’ Gonzaghi, col marchese di Monferrato e co’ Genovesi, posti prima in armi per le invasioni che Luchino aveva fatte, dilatando lo Stato proprio a danno loro. Assicuratosi così d’un pacifico dominio, la natura e l’indole sua benefica lo portarono a terminare la miseria degli esuli nipoti. Matteo, Barnabò e Galeazzo furono richiamati dall’esilio ed accolti come a principi si conveniva. Diede Regina della Scala in moglie a Barnabò, e Bianca di Savoia a Galeazzo; e festeggiò quelle nozze illustri con pompe ed allegrezze pubbliche; fra le quali vi furono de’ tornei d’una nuova foggia, cioè colle selle alte, usanza che Barnabò aveva insegnata, seguendo la costumanza da lui imparata nella Francia. Oltre lo stato signorile e lieto al quale fece passare i nipoti, quel magnanimo arcivescovo si risovvenne di Lodrisio Visconti, che, dopo la battaglia di Parabiago, da più di dieci anni languiva in carcere, e lo rese libero. L’anima grande e generosa di Giovanni non dava luogo a quelle diffidenze e sospetti che dominavano nel cuore di Luchino. (1350) Appena un anno era passato da che Giovanni reggeva lo Stato, esteso sopra diciasette città, quale glielo aveva lasciato Luchino; ch’egli, senza umano sangue e senza pericolo, fece un insigne acquisto; e col mezzo di duecentomila fiorini d’oro sborsati a Giovanni Pepoli, comprò il dominio della città di Bologna l’anno 1350. Prevedeva però il sovrano arcivescovo che questa importantissima addizione non poteva accadere senza forti contrasti, singolarmente per parte del papa, il quale, sebbene domiciliato in Avignone, sempre stava vigilante sull’Italia; e se tollerava che il Pepoli, piccolo principe, e che facilmente poteva superarsi, dominasse Bologna, non così tollerante doveva essere poi, passando quella a incorporarsi nella potente dominazione de’ Visconti. In fatti Clemente VI mandò un ordine all’arcivescovo Giovanni, acciocchè, entro lo spazio di quaranta giorni, dovesse restituire Bologna alla Santa Sede; minacciando in caso di contumacia di volerlo scomunicare, insieme ai nipoti suoi quanti erano, e porre all’interdetto tutti i popoli del suo dominio. (1351) Giovanni non si cambiò per questo, nè pensò di abbandonare Bologna; onde il giorno 21 di maggio dell’anno 1351 il papa scomunicò l’arcivescovo e i tre nipoti Matteo, Barnabò e Galeazzo, e pose l’interdetto su tutte le diciotto città dei Visconti. Il Corio ci racconta come il pontefice, sdegnato contra di lui per la presa di Bologna, havendo questa città interdicta, li destinò un legato, il quale con somma humanità dal Presule fu ricevuto. Duoppo li expuose per parte del summo sacerdote che a Santa Chiesia volesse restituire Bologna, e che anche dil suo dominio una cosa facesse, e che il spirituale o che il temporale solo administrasse: la qual cosa intendendo Giovanne, respuose che la proxima domenica nel magiore templo de Milano li darebbe conveniente risposta, dove il deputato giorno convenendosi ogniuno, Giovanne con grande solennitate celebrò la messa, la quale essendo finita, in cospecto dil populo, il legato, secundo l’ordine dato un altra volta replicò l’ambasciata dil pontefice, onde dappoi il magnanimo arcivescovo evaginò una lucente spada quale haveva a lato, e da la mano sinistra pigliò una croce dicendo: questa è il mio spirituale, e la spada voglio che sia il temporale per la difesa di tutto il mio imperio; e non con altra risposta il legato tornando al pontefice referì quanto da lo arcivescovo Giovanne haveva havuto. Siegue poscia il Corio medesimo a narrarci, come, essendo il papa sempre più irritato ed animoso contro dell’arcivescovo Giovanni, lo citasse a comparire in Avignone; e che l’arcivescovo Giovanni, preparato già a comparirvi col seguito di dodicimila cavalli e seimila fanti, venisse poi dispensato dal papa istesso dall’intraprendere il viaggio, e si accomodasse in tal guisa pacificamente ogni cosa. Anche il Giovio e il Ripamonti raccontano questi fatti. Il Muratori ed il conte Giulini non prestano in ciò fede al Corio. Sono però gli autori d’accordo nell’asserire che la scomunica e l’interdetto vennero pubblicati, e che la riconciliazione si fece ben tosto, ritenendo il Visconti Bologna in qualità di Vicario della Santa Sede. Fra le mie monete patrie una ne ho d’oro, valore d’un gigliato, di Bologna, colla biscia Visconti, che credo battuta in questi tempi.
(1353) Bologna erasi acquistata senza pericolo e senza sangue; e senza sangue o pericolo l’accorto Giovanni acquistò una altra non meno cospicua città, cioè Genova, l’anno 1353, ed ecco come. Erano i Genovesi impegnati sventuratamente a guerreggiare contro de’ Veneziani, collegati col re Pietro di Aragona. Erano stati malamente battuti da quelle forze preponderanti i Genovesi. Le loro navi erano quasi distrutte; e Genova si trovava bloccata dalla parte del mare; e per terra ancora, dalla parte di ponente, custodita dagli Spagnuoli; per modo che non le rimaneva altra via per ottenere i viveri, che già mancavano, se non dalle terre possedute da Giovanni arcivescovo. Proibì questi che nè da Alessandria, nè da Tortona, nè da Piacenza, nè dalla Lunigiana, nè da veruna altra parte del suo Stato venisse portato alcun alimento ai Genovesi; e così, anzi che perire o cader nelle mani de’ loro nemici, quei cittadini presero il solo partito che loro rimaneva, offrendo a Giovanni la signoria della loro città. Quest’offerta venne accettata ben presto, e il nuovo principe, nel mese di ottobre del 1353, prendendo solennemente possesso di quella illustre città, v’introdusse al momento l’abbondanza e la gioia. Così aggiunse Giovanni al suo Stato la decimanona città, e diventò padrone di un porto di mare. Ciò fatto spedì quel principe a Venezia degli ambasciatori, acciocchè cessassero i Veneziani di offendere Genova, divenuta cosa sua. I Veneziani, i quali già dovevano vedere con sospetto la potenza preponderante del Visconti, non vollero ascoltare discorso di pace. (1354) Giovanni fece allestire una poderosa armata navale, la quale lasciò il porto di Genova, spiegando al vento del mare, per la prima volta, le insegne della vipera; e seppe così bene farsi rispettare, che bruciò Parenzo, città marittima dell’Istria soggetta ai Veneziani, indi battè la flotta veneziana presso Modone, sulle costiere della Grecia. Quando, ventisei anni prima, Giovanni Visconti trovavasi coi fratelli nel carcere orrendo di Monza, chi avrebbe mai potuto prevedere ch’ei dovesse un giorno rappresentare sul teatro del mondo il personaggio che vi sostenne poi! Chi mai avrebbe potuto accostarsi all’orecchio di Matteo, mentre viveva da povero privato in Nogarola, e dirgli: tu sarai sovrano, e da qui a quarant’anni i figli tuoi domineranno un principato che potrà nominarsi un regno: Bologna, Parma, Piacenza, Cremona, Crema, Bergamo, Brescia, Como, Milano, Lodi, Pavia, Vigevano, Novara, Alessandria, Tortona, Vercelli, Asti, Genova e Bobbio; dicianove città! L’Ente Supremo regge gli avvenimenti. Il saggio impara ad adorarne i decreti; si tiene modesto nella prospera, e fermo nell’avversa fortuna.
Se Azzone aveva invitato, siccome ho detto, i migliori artisti, e gli aveva condotti a Milano, Giovanni vi accolse e vi onorò sommamente il più dotto ed elegante letterato di quel secolo, Francesco Petrarca. Egli venne a Milano l’anno 1353, per vedere la città; e l’arcivescovo Giovanni, sensibile al merito, lo onorò tanto, che lo indusse a fissarvi la sua dimora. Il buon principe era magnifico e sociale. La corte era aperta agli uomini di merito, nazionali o forestieri. Egli amava la società della mensa; e tanto crebbe presso di lui la stima del Petrarca, che lo fece sedere nel suo consiglio, e lo spedì a Venezia suo ambasciatore all’occasione detta pocanzi. Petrarca, nelle sue lettere si esprime che egli amava in Milano gli abitanti, le case, l’aria, i sassi, non che i conoscenti e gli amici. L’unica figlia sua la maritò in Milano a Francesco Borsano; e la tenerezza che egli aveva per quella e per il figlio adottivo Borsano, ch’egli poi istituì suo erede, gli rendevano caro questo soggiorno come una nuova sua patria. Scrivendo Petrarca della prepotente influenza del clima, oggetto sviluppato nel nostro secolo dall’immortale Carlo Secondat, ma non intentato dal Petrarca, ei così dice de’ Milanesi: Totam praeterea Rheni vallem colonis ab Augusto missis habitatam invenio; verum haec sedium mutatio non patriam ad quam pergitur, sed pergentes immutat. Itaque et Galli in Asiam, Asiani, et Itali in Phrygiam profecti, Phryges, et post Troyae excidium in Italiam reversi, Itali iterum facti sunt. Sic nostri, in Galliam vel Germaniam traslati, naturam illarum partium imbiberunt moresque barbaricos, et Mediolanenses, a Gallis conditi atque olim Galli, nunc mitissimi hominum, nullum servant vestigium vetustatis; ita vis coelestis humana moderatur ingenia . Petrarca aveva tanta passione per l’Italia, che potevasegli imputare a ragione la ingiustizia colla quale detestava i costumi oltramontani; dal che però ne risultava una lode esimia ai Milanesi. Egli alloggiava dicontro a Sant’Ambrogio; anzi nel suo testamento, pubblicato nelle opere sue, ordinò d’essere ivi tumulato, qualora fosse morto in Milano. Questo testamento lo fece in Padova l’anno 1370. Aveva Petrarca una piccola villa, poco discosta dalla città, nelle vicinanze della Certosa di Garignano; e quel casino solitario lo chiamava Linterno, col nome della villa di Scipione Africano; comunemente poscia acquistò nome l’Inferno, parola più nota della prima. Si dice che Giovanni Boccaccio, per amore del suo amico Petrarca, vivesse qualche tempo con lui in Milano, e al suo Linterno. Si dice ancora che, dopo la morte di Giovanni arcivescovo, cadendo la signoria di Milano nelle mani de’ tre figli di Stefano, Matteo, Barnabò e Galeazzo, Petrarca recitasse l’orazione inaugurale nella chiesa maggiore, ove celebravasi la funzione di consegnar loro il dominio; e che un impudente astrologo, ad alta voce gridando, lo interrompesse asserendo che in quel momento i pianeti erano faustamente collocati; e non si doveva perderlo, per non avventurare la prosperità del nuovo governo. Si pretese anzi, che, essendosi consegnato il bastone del comando a Matteo fuori del tempo, da ciò ne accadesse poi il misero e presto suo fine. La credulità e l’ignoranza erano certamente grandi a quei tempi; e alcuni pochi uomini illuminati non bastavano a sgombrarla sì tosto dai popoli, che le avevano ereditate dalla lunga notte de’ barbari secoli precedenti. Petrarca fu da’ Visconti spedito ambasciatore al re di Francia Giovanni, ed all’imperatore Carlo IV, che trovavasi in Praga; e tanto venne considerato il di lui merito, ch’egli stesso fu trascelto all’onore di levare al sacro fonte il primogenito che nacque dalle nozze di Barnabò; e in quella occasione compose il Genethliacon Marci Mediolanensium principis, che così comincia:
Magne puer, dilecte Deo, titulisque parentum
Praefulgens, populis olim venerande superbis,
Sit modo vita comes, teneris sit spiritus annis;
Expectate diu nobis, patriaeque patrique,
Laete veni, vitaeque viam foelicibus astris
Ingredere, et rebus gaudens accede secundis:
Te Padus expectat dominum, etc.
poi, dopo di aver descritti i fiumi del vasto di lui Stato, passa a fargli dono d’una coppa d’oro co’ versi seguenti:
Quum tamen egregius vivendo adoleverit infans,
Hanc habeat pateram, et roseo bibat ore jubeto:
Parva decent parvos; minimus sum, maximus ille,
Parva sed est aetas, lucis nova limina nuper
Attigit, et coelum trepido suspexit ocello;
Aetati, non fortunae, munuscula dantur
Apta suae, ludet, nitido mulcente metallo;
Spernet idem ex alto fuerit dum plenior aetas,
Et rutilam terre faecem sciet esse profundae.
At fortasse sibi tunc carmina nostra placebunt;
Perleget, et secum, sacro dum fonte levabar
Tanto humilem excelsus genitor dignatus honore est.
Probabilmente Petrarca (che non poteva stare in Firenze, sua cara patria, immersa nelle fazioni) disingannato dai viaggi fatti nella Francia e nella Germania, non avrebbe mai più abbandonato il nostro paese, dove viveva ammirato da ognuno e distintamente onorato dai sovrani, e dove aveva stabilmente collocata la figlia, e creatasi una famiglia per adozione; se il disastro spietatissimo della pestilenza, che desolò Milano, non lo avesse costretto a rifugiarsi altrove. Mediolanum, urbem Ligurum caput et metropolim, dice egli, usque ad invidiam hactenus horum nesciam laborum, et coeli salubritate, et clementia, et populi frequentia gloriantem, sexagesimus primus annus et vacuam fecit et squallidam. Galeazzo II molto si regolò col consiglio del Petrarca e nel formare la biblioteca, che radunò in Pavia, e nel piantarvi gli studi dell’Università. È celebre la distinzione che gli venne fatta in Milano, quando, nella pompa delle nozze di Violanta Visconti, Galeazzo II volle che Petrarca sedesse commensale, insieme collo sposo Lionetto, figlio di Edoardo III re d’Inghilterra.
Giovanni Visconti, arcivescovo e signore di Milano e di altre diciotto città, fra le quali Genova e Bologna, cessò di vivere il giorno 5 di ottobre dell’anno 1354, dell’età di sessantaquattro anni, dopo d’aver regnato sei anni appena; poichè il tempo in cui comparve ch’ei correggesse con Luchino non può contarsi, tanto poco s’immischiò egli allora negli affari dello Stato. Giovanni fu un principe umano, benefico, giusto, liberale, fermo e d’animo signorile; e merita un luogo fra i buoni principi vicino ad Azzone. Il tumulo di lui si vede nel coro della metropolitana.
Milano, nei ventiquattr’anni nei quali regnarono Azzone, Luchino e Giovanni, i primi che apertamente si dichiararono sovrani, battendo moneta col loro nome, godette la pace; e provò alfine i beni dell’ordine sociale e della civile sicurezza. I Milanesi abbandonarono il mestiere dell’armi, e si rivolsero a più miti e più industriosi pensieri; alla mercatura, cioè, alla coltivazione delle arti e delle terre. La popolazione e la ricchezza crebbero in proporzione, e qualche coltura appresero gl’ingegni; onde questi oggetti meritano dilucidazione.
La prima epoca del risorgimento dell’agricoltura milanese io la trovo nel blocco che Federico I pose intorno della città; allorquando fece devastare le piante e le campagne, ed atterrare i boschi che ci stavano intorno. Il bene sempre è figlio del male. Liberati che fummo da quel nemico terribile, poichè la libertà civile fu cimentata colla lega lombarda, si dovettero ridurre a coltura i boschi incendiati; unico mezzo per cui i proprietari, ai quali non rimaneva più la legna spontanea, ricavassero qualche profitto dal loro fondo. In fatti verso quei tempi pensarono i Milanesi a promuovere l’irrigazione, a fecondare i loro campi colle acque, e si scavarono il Tesinello e la Muzza; il primo verso l’anno 1179, e l’altra l’anno 1220. Indi il Tesinello venne allungato sino a Milano verso la metà del secolo decimoterzo, cioè l’anno 1257; operazioni tutte le quali non ebbero allora per oggetto la navigazione, ma bensì la semplice irrigazione delle terre. Io ho per qualche tempo creduto che i Milanesi, ritornati dalle crociate, avessero portata dall’Egitto nella loro patria la coltura del riso, e che questi scavi di canali e questa diramazione di acqua sulle terre venissero fatti a tal fine. Ma ho poi dovuto essere convinto che la coltivazione del riso presso di noi, è di molto posteriore a quelle opere pubbliche; e ne serve d’invincibile prova la tassa che il tribunale di Provvisione faceva delle droghe; e quella singolarmente che ha pubblicata l’esattissimo nostro conte Giulini, ove scorgesi che il giorno 18 aprile 1386 venne ordinato che gli speziali e i droghieri non possano vendere il riso più che a dodici imperiali la libbra. Questo decreto trovasi nell’archivio del tribunale di Provvisione, d’onde l’ha tratto il chiarissimo autore. Se il riso fosse stato, come oggidì, un prodotto della nostra agricoltura, non sarebbesi venduto dagli speziali e droghieri. Il prezzo poi di un soldo per libbra (avuto ragguaglio alla moneta di quei tempi) lo mostra ancora con maggiore sicurezza, anche paragonandolo alla tassa del mele sottile e fino, che in quel medesimo decreto viene fissata a un terzo meno del riso, cioè ad imperiali otto la libbra. Quest’irrigazione adunque serviva ai soli prati, e forse allora il clima di Milano era più salubre di quello che ora non è; da che si è ogni anno sempre più dilatata l’irrigazione, ed introdotta singolarmente la coltura dei risi; e perciò il Petrarca, fra le qualità che rendevano allora pregevole Milano, vi pose coeli salubritate, come poco anzi si è veduto. La nostra agricoltura ci produceva sorta di grani, frumento, segale, miglio, seligine, orzo, scandella. La coltura parimenti del lino e delle viti è antichissima presso di noi. I prati si andavano moltiplicando, perchè s’erano introdotte razze di cavalli, e il lusso aveva dilatato il bisogno di questi tanto utili e generosi animali. Se poi tanto grano si raccogliesse quanto occorreva al nutrimento del popolo, non è così facile il deciderlo; poichè in una concordia che si fece fra i nobili e i popolari, l’anno 1225, venne pattuito, fra gli altri articoli, che il comune di Milano dovesse ogni anno far venire da paese estero de’ grani, pel valore di seimila lire di terzoli. Il che non saprei se debbasi considerare come una forzata compiacenza de’ nobili terrieri verso di un error popolare, come inclina a crederlo il nostro conte Giulini; ovvero come una prudente precauzione, in tempi ne’ quali questo commercio era vincolato. Parmi che se le terre fossero state bastantemente feraci di grano, si sarebbe dalla plebe domandata, non l’introduzione del grano estero, ma del più vicino e nazionale, per assicurare l’alimento alla città. Generalmente si mangiava in Milano pane di mistura; e l’anno 1355 vi era in tutta la città un forno solo che fabbricasse il pane bianco di puro frumento; pane che allora era di lusso; e questo forno privilegiato chiamavasi il prestino dei Rosti, ed era vicino alla piazza dei Mercanti. È bensì vero che l’uso di servire con pane di frumento puro e bianco, nei pranzi d’invito, era anche un secolo prima conosciuto presso di noi; e ne fa prova una sentenza favorevole ai canonici di Varese, pronunziata l’anno 1248, in cui venne condannato un beneficiato a dar loro la domenica avanti Natale un pranzo composto, videlicet, panis frumentini boni et bene cocti et albi, et vini boni, et puri ad sufficientiam et capponorum, videlicet unum inter duos plenum, et carnium bovis et porci cum bonis piperatis, videlicet frustum unum, sive petiam bovis competentem et bonam inter duos; et aliud frustum seu petiam porci cum bonis piperatis inter duos, et frustum, sive petiam unam carnis porcinae assatae, sive rostitae cum paniciis inter duos; et hec omnia ad sufficientiam, secundum quod decet, praestet singulis annis. La carta si conserva nell’archivio della collegiata di Varese, e l’ha pubblicata l’erudito nostro conte Giulini. Verso la fine del capitolo sesto ho ricordato un altro pranzo, preteso un secolo prima, da altri canonici, i quali chiedevano lombulos con panitio; ora si trattava cum panitiis. Potevano forse essere pagnotelle più fine, di mero fiore di farina apprestata sul finir della mensa. La piperata si è veduta nominata in quella carta del 1148, si vede in questa del 1248; si usava ai tempi del Corio; e l’abbiamo anche oggidì scritta nella tariffa della mercanzia, col tributo di trentasei soldi e mezzo per ogni rubbio, sebbene ora non sappiamo più cosa ella si fosse. Io la crederei una salsa stimolante, e in cui entrava singolarmente il pepe, simile a quella che ora adoperiamo colla senape.
Il Fiamma, che viveva appunto ai tempi di Giovanni arcivescovo, ci lasciò un’idea della ricchezza e del lusso di quel tempo: nunc vero in praesenti aetate priscis moribus superaddita sunt multa ad perniciem animarum irritamenta: nam vestis praetiosa, et ornatu superfluo circumtecta per totum; in ipsis vestibus, tam virorum quam mulierum, aurum, argentum, perlae inseruntur. Frixa latissima vestibus superinducuntur. Vina peregrina, et de partibus ultramarinis bibuntur: cibaria omnia sunt sumptuosa: magistri coquinae in magno praetio habentur. Lo stesso Fiamma ci attesta che in Milano al suo tempo eranvi delle manifatture assai perfette e stimate al di fuori, e fra le altre vi si lavoravano gli elmi, le corazze e tutte le armature di ferro, speculorum claritatem excedentes. Soli enim fabri loricarum sunt plures centum, exceptis innumerabilibus subjectis operariis; e di queste nostre manifatture, dice quell’autore, che ne somministravano a tutta l’Italia non solo, ma se ne trasportavano persino ai Tartari ed ai Saraceni. Questa manifattura, di cui troviamo la materia ne’ monti vicini, si mantenne per molto tempo in Milano, e vediamo nell’estratto fatto poi, all’occasione del censo, dai libri delle gabelle dell’anno 1580, che si considerarono, dal Ragionato dell’Estimo Barnaba Pigliasco, da Milano trasportate agli esteri: armature di cavallo num. 100, a lire 55.10, lire 5650; armature da fante num. 390, a lire 33.15, lire 13163. Il Fiamma pure ci attesta che le nostre razze de’ cavalli erano della maggiore altezza e forza; e tali dovevano appunto ricercarsi nel secolo in cui dovevano portare alla guerra gli uomini tutti coperti di ferro, e talvolta gli arnesi istessi del cavallo erano del metallo medesimo, per assicurarlo dalle ferite. De’ cavalli nostri ne facevamo smercio assai nella Francia, a quanto ci attesta quell’autore contemporaneo; e tale era probabilmente il frutto dell’irrigazione estesa, e de’ nostri prati. Oltre questi due articoli di commercio, eravi già piantata l’industria del lanificio in Milano, ai tempi di Luchino e di Giovanni Visconti; e il Fiamma dice de’ nostri mercanti: Ipsi enim mercatores discurrunt per Franciam, Flandriam, Angliam, ementes lanam subtilem, ex qua in hac civitate texuntur panni subtiles in maxima quantitate, qui tinguntur omni genere tincturarum, qui per totam Italiam deferuntur. Quest’ industria del lavoro de’ pannilani, la quale crebbe dappoi e formò la ricchezza cospicua di Milano, era già presso di noi conosciuta anche prima del Fiamma, e poco dopo l’epoca di Federico I. Almeno in Como ed in Monza si lavoravano de’ pannilani fino dal 1216; poichè nell’antico esemplare che ritrovasi nella biblioteca Ambrosiana, vedonsi tassati i pannilani di Como e di Monza a pagare quattro imperiali per ogni pezza, entrando in Milano. Anche delle tele di cotone e de’ lini nostri se ne faceva spaccio, singolarmente in Levante, col mezzo de’ Veneziani e de’ Genovesi, ch’erano diventati assai ricchi e commercianti; avendo, i primi singolarmente, approfittato moltissimo col trasporto dei crocesignati, colla somministrazione de’ viveri alle Crociate, allorchè prudentemente tranquilli, in mezzo alla fermentazione universale, colsero l’occasione d’impratichirsi del mare e de’ porti del Levante, onde si resero arbitri del commercio d’Europa coll’Asia; la qual ricchezza si sparse anche sopra di noi ed animò la nostra industria. Nè i soli cavalli, le armature, e i pannilani e pannilini erano i capi del nostro commercio utile cogli esteri. Sino da’ primi anni del secolo decimoquarto eranvi da noi degli artefici che fabbricavano anche drappi di seta; e Niccolò Tegrimo, nella Vita di Castruccio Antelminelli, ci narra che, avendo Castruccio ed Uguccione della Faggiuola occupato Lucca l’anno 1314, i fabbricatori di drappi di seta vennero a rifugiarsi in Milano. La seta allora era sommamente cara; e un drappo di seta si valutava lire venti d’allora la libbra; e ognuno sa che la lira d’ allora era quasi due terzi d’un fiorino d’oro, ossia gigliato, che correva per trentadue soldi; così che la libbra di seta costava dodici gigliati e mezzo. Facilmente pure ognuno comprende quanto maggior pregio in que’ tempi dovesse aver l’oro, che nei secoli a noi più vicini è diventato assai più abbondante, per i paesi scoperti, per le nuove miniere scavate, e per la comunicazione del vasto commercio aperta fra tutti i popoli conosciuti della terra.
Della popolazione di Milano ce ne ha lasciata memoria Buonvicino da Ripa verso l’anno 1288. Quell’autore vivente dice che v’erano tredicimila porte di case, seimila pozzi, quattrocento forni per cuocere pane, e mille taverne di vino, centocinquanta alberghi pei forestieri, tremila ruote da mulino, e seimila giumenti che portavano la farina nella città; in cui dice ch’eranvi ducentomila abitanti, fra i quali quarantamila atti alle armi; che si mangiavano ogni giorno in Milano mille e ducento moggia di farina; che entravano ogni anno nella città cinquantamila carri di legna, duecentomila carri di fieno e seimila carri di vino, e si consumavano di sale in Milano staia seimilacinquecento. Questa descrizione facilmente si conosce che non merita fede. Seimila giumenti impiegati a portare mille e ducento moggia di farina al giorno sono incompatibili, mentre un moggio lo porta sulle spalle un villano robusto. Quarantamila uomini atti alle armi sono pure una cosa sconnessa. La popolazione di ducentomila abitanti suppongasi metà di uomini e metà di donne; dagli uomini si deducano i bambini, i fanciulli ed i vecchi; non rimarranno quarantamila uomini atti alle armi. Seimila carri di vino, suppongasi portar ciascuno dieci brente, saranno sessantamila brente di vino che entravano in città per uso di ducentomila abitanti: ora centoventimila, quanti abitano in Milano, consumano più del quadruplo. Anche le staia seimila e cinquecento di sale sarebbero proporzionate alla popolazione di ventiseimila abitatori, e non mai di duecentomila. Poca e nessuna fede merita quella relazione, fatta da un uomo che descrive diciotto laghi e sessanta fiumi abbondantissimi di pesci nel contorno di Milano. Abbenchè consideriamo ragionevolmente come scritti piuttosto a caso quei numeri, che per vera cognizione, difficile assai ad aversi in que’ tempi, egli è però assai probabile che fosse numerosa la popolazione d’una città alla quale dovevano, come a residenza e a dominante, ricorrere, al tempo di Giovanni arcivescovo, i cittadini di diciotto città del contorno. Petrarca la qualificò, siccome vedemmo, populi frequentia gloriantem; e Pietro Azario, che viveva mentre la pestilenza del 1361 devastò Milano, asserisce che in Milano perirono per quella sciagura settantacinquemila abitatori; il che può verosimilmente farci credere ch’essi fossero più di centocinquantamila. Nè è difficile il concepire come una popolazione maggiore dell’attuale fosse contenuta entro di una città di un recinto più angusto di quanto ora lo sia: poichè sappiamo che tutte le case nobili e vaste sono state formate colla incorporazione di più e più case piccole; che molti monasteri e conventi e chiese sono piantate oggidì in luoghi che servivano allora all’abitazione del popolo; e che finalmente il lusso di abitare per pompa uno spazio vasto di luogo, e il conservare signorilmente un buon numero di stanze, al solo uso che siano trascorse da chi ci viene a visitare, prima che ci ritrovi, non era il lusso di quel secolo nè di questa popolata città. Nel principio del secolo decimoterzo v’erano in tutto in Milano tredici monasteri, sei di frati e sette di suore.
Il governo civile di que’ tempi era una vera dominazione di un solo, con qualche apparenza di repubblica; poichè il consiglio degli ottocento, che poi a’ tempi di Luchino diventò, non saprei come, di novecento, di tempo in tempo si radunò, sino verso la fine del secolo decimoquarto. Ma le deliberazioni che si prendevano, non erano altro che giuramenti di fedeltà, acclamazioni al nuovo signore, e convalidazioni del sistema monarchico. Questi consiglieri, che non erano a vita, ma bensì trascelti per rappresentare la città in occasioni passeggiere, non erano altrimenti nominati dal popolo; ma originariamente traevano la loro commissione dalla nomina del principe o del suo ministro; onde quel consiglio era, siccome anche di sopra ho accennato, una mera popolare illusione, che rappresentava una apparente libertà. Verso la metà del secolo decimoquarto si creò il vicario di provvisione, che presedeva ai dodici. Vicario significava lo stesso che vicegerente, ossia luogotenente; un ministro in somma che teneva il luogo e faceva le parti del sovrano. Quel tribunale nella sua origine non fu un dicastero civico, ma bensì fu un tribunale eletto dal sovrano; al quale era commessa la percezione e direzion de’ tribunati, la cura dell’abbondanza, e la vigilanza sopra i giudici della città, per modo che sembra fosse questo allora il solo dicastero che si radunava in Milano, e avesse riunite le separate cure che oggidì occupano il senato, il magistrato camerale e il tribunale di Provvisione medesimo. Ora questo tribunale di Provvisione, poichè fu consolidata la signoria dei Visconti, eleggeva ei medesimo i novecento consiglieri, ogniqualvolta occorresse di avvalorare con questa formalità il volere del sovrano; di che ce ne serve di prova l’antico registro della città segnato n. 1, ove, alla pag. 107, si legge: MCCCLXXXVIII, die XXII Julii. Per dominos vicarium et XII Provixionum Comunis Mediolani et sindicos dicti Comunis electi fuerunt infrascripti cives Mediolani, qui sunt et esse intelliguntur consilium DCCCC Comunis Mediolani.
La politica de’ nuovi principi tendeva ad allontanare, siccome dissi, il popolo dal mestiero della guerra, la quale sempre più si andava facendo, per mezzo di stipendiati forestieri. Così nacquero le compagnie di avventurieri, che si vendevano da’ loro capi ora ad un principe, ora ad un altro; e così pure alcuni capi di tali sgherri si resero formidabili ai sovrani medesimi, e giunsero ad acquistare per loro conto degli Stati, come fra gli altri avvenne alla casa Sforza. Conseguenza di un tal sistema era l’accrescimento de’ tributi per aver mezzi onde stipendiare quegli estranei, ai quali si commetteva la difesa dello Stato. Oltre il catastro generale de’ fondi che si fece, siccome vedemmo, verso la metà del secolo decimoterzo, e sul quale s’incominciarono a ripartire i carichi pubblici, che prima si distribuivano per capitazione, ovvero sulla stima annua de’ frutti raccolti, s’instituì la privativa della vendita del sale, di cui la più antica memoria che abbiamo ce la riferisce il Corio all’anno 1272. In un trattato fra il re Roberto di Napoli e i fuorusciti Milanesi del partito de’ Torriani, promise il re ch’egli non avrebbe guadagnato nella vendita del sale se non venti soldi papali per ogni moggio, e ciò per il sale comune; il bianco però e raffinato era libero a lui il venderlo come più gli fosse piaciuto. Questo trattato si fece l’anno 1312. Venti soldi papali del secolo decimoquarto valevano, secondo il calcolo del Muratori, ventiquattro paoli. Il moggio è di staia settanta; e, ciò posto, la gabella si riduceva a cinque soldi de’ nostri per ogni staio di sale; così che a un di presso allora prometteva di venderlo al valore che oggidì corrisponderebbe a soldi quaranta per ogni staio. Per un trattato di commercio che si fece fra i Milanesi ed i Veneziani l’anno 1317, segnato il giorno 30 d’agosto in Venezia, i Veneziani si obbligarono a dare a quegli il sal marino, e i Milanesi si obbligarono a prenderlo tutto da essi, ed a non spanderlo nè sul Comasco nè sul Veneto. A noi rimase però la libertà di venderlo poi agli abitanti delle Alpi. Questo pregievole monumento ritrovasi in un antico codice MS. presso del signor marchese Giovanni Corrado Olivera, signore venerabile per l’integrità e beneficenza, più ancora che per i luminosi titoli e la presidenza del senato. Sono già più di quattro secoli e mezzo da che prendiamo i sali da Venezia, e li vendiamo agli Svizzeri e Grigioni. Al tempo di Luchino, la gabella del sale della città di Milano e del contado gli fruttava tremila fiorini d’oro; presentemente se ne ricava cinquanta volte altrettanto. È vero che l’oro allora aveva notabilmente più valore che ora non ha, dopo l’ abbondanza che ne hanno prodotte le nuove miniere e il commercio, siccome torno a ricordare. Non abbiamo notizie bastanti di quei tempi per indicare i positivi prezzi ai quali siasi venduto il sale alle gabelle. Sappiamo però dai registri civici esaminati dall’instancabile conte Giulini, che verso la fine del secolo decimoquarto si vendeva a soldi cinquanta lo staio; prezzo veramente gravoso, poichè il fiorino d’oro correva a soldi trentadue. Il carico poi della macina alle porte di Milano erasi imposto sino dell’anno 1333, come ce ne fa fede una carta dell’archivio dello spedal maggiore, esaminata dal conte Giulini. La gabella della Dovana eravi pure già verso la fine del medesimo secolo decimoquarto; poichè v’è il decreto che dice: cum etiam per datiarios Dovanae bestiarum grossarum et minutarum dicti vestri comitatus fiant diversimodae extorsiones: così faceva scrivere latino il signor di Milano l’anno 1381, dopo il lungo soggiorno fatto in questa città da Francesco Petrarca! Si vede che sino da quel tempo s’era introdotta l’usanza d’affittare le regalie, o, per dir meglio, la pace, la sicurezza e la libertà del popolo ad un impresario: volumus bene quod incantatoribus datiorum dicti nostri Comunis serventur eorum data. Era riserbato al glorioso regno dell’augusta Maria Teresa di atterrare quest’obice, che divise i contributori dal principe per quattro secoli. Il carico Datium imbottaturae vini, cioè l’imbottato eravi già anticamente, ma si pagava soltanto sul vino raccolto; indi l’anno 1392 vennero assoggettati a questo tributo anche i grani. Chi ne cercasse più esatte prove, le troverebbe presso il conte Giulini. Il carico poi sulle merci si andava proporzionatamente accrescendo; mentre laddove questo era tassato, nel principio del secolo decimoterzo, in proporzione del valore, a poco più dell’uno per cento, come si vede nella tariffa annessa agli statuti compilati nel 1216; nell’anno poi 1333 il carico era asceso ad un soldo per ogni lira di valore, il che monta al cinque per cento, come leggesi nel codice MS. del nominato signor marchese Corrado Olivera, presidente onoratissimo del senato. Da un verosimile calcolo preso in massa, oggidì questo tributo corrisponde circa al sei per cento del valore. Oltre questi carichi, v’era la tassa de’ cavalli, imposta verosimilmente l’anno 1315, per mantenere le paghe della cavalleria. V’erano le condanne pecuniarie de’ delitti, emanazione ancora vigente delle leggi longobarde. V’erano altre antiche gabelle sulle case, su i forni, sopra i mulini, i macelli, i contratti, le misure, i pesi ed altre delle quali ho fatto menzione al capitolo ottavo.
La grandezza dell’arcivescovo e del clero milanese scomparve colla soggezione da Roma, e coll’erezione del principato. Non vi è memoria che, dopo la metà del secolo duodecimo, siansi mai chiamati i nostri ordinari, sanctae mediolanensis ecclesiae cardinales, come facevano per lo passato. Essi però, sino dal secolo decimoterzo, portavano la porpora; e questa distinzione, che tuttavia conservano, è antica per lo meno cinque secoli. In que’ tempi però assai liberamente vestivansi gli ecclesiastici, ed eran ben lontani da quella edificante uniformità e modestia che ora gli distingue. Manfredo Occhibianchi, canonico di Sant’Ambrogio, fece un testamento il giorno 18 marzo, l’anno 1203, che si conserva nell’archivio di quella basilica, e di cui parla il conte Giulini, e lascia manstrucam unam conilii, cohopertam de violato, et alias duas... scilicet unam volpinam, cohopertam de scalfanio, et aliam de flanchitis, cohopertam de sagia bruna, et... capellum meum grisum, cohopertum de sagia nigra, et cohopertorium meum, et scradam seu diproidam meam... cappam meam blavetam... cappam meam de mantellato... quinque coclearia argenti, et mantellum meum foderatum de zendado... vestitum violatum meum. Da ciò osserviamo che di tutte le vesti, nulla v’era di nero fuori del cappello, voce che digià si era inventata per dinotate quelle berrette che allora si ponevano sul capo; ma tutti i vestiti di quell’ecclesiastico erano di colore violato, ceruleo o bruno. La parola blavetam sembra nata dal teutonico blau ossia bleu, come noi Lombardi anche oggidì nominiamo quel colore, similmente ai Francesi. I cucchiai d’argento si vede che già erano in uso. Nè gli ecclesiastici si vestivano tampoco con colori modesti, poichè, l’anno 1211, l’arcivescovo Gherardo da Sessa fece un editto in cui leggesi: Universis praeterea clericis interdicimus vestes rubeas, vel diversi coloris gialdas et virides; la quale proibizione non bastò a togliere tale usanza degli ecclesiastici, poichè in un concilio provinciale tenutosi un secolo dopo di ciò, nuovamente si dovette stabilire che gli ecclesiastici non portassero vestes virgulatas, seu de catabriato dimidiatas, vel listatas, vel frixis, vel maspilis argenteis, vel de metallo aliquo, e non dovessero portare cappucci a modo dei secolari, ad modum laicorum capucia non habentes.
Nella guerra i militi erano tutti coperti di ferro, e, calata la visiera, non si potevano conoscere se non da pennacchio o altra insegna. Filippone, conte di Langosco, poichè ebbe in suo potere il cimiero di Marco Visconti, si presentò co’ suoi alle porte di Vercelli, le quali (credendolo Marco i Vercellesi) gli vennero aperte; e con tale astuzia se ne impadronì l’anno 1312. Nella più antica compilazione de’ nostri Statuti, fatta, come ho detto, nel 1216, vi si legge la rubrica de’ duelli. Si combatteva o in persona, ovvero un campione si batteva per altrui commissione. Si celebrava la messa in presenza de’ due combattenti, si deponevano le armi presso dell’altare, il sacerdote le benediceva, indi venivano sigillate e venivano portate al luogo della lizza, ove sedeva il giudice. Ivi si presentavano i due combattenti coi loro patrocinatori. Interrogavano questi il giudice s’egli ivi risedesse affine di giudicare la lite col duello, e il giudice rispondeva che appunto ivi a tal fine si era collocato. Il patrocinatore del pretendente ad alta voce chiedeva la cosa per cui doveva farsi il duello; e ad alta voce il patrocinatore opposto la negava. Indi s’accostavano i due combattenti al giudice; e ciascuno di essi con giuramento affermava essere vero e giusto ciò che dal suo patrocinatore erasi detto. Il giudice poi faceva che giurassero entrambi, che non si presentavano al cimento con alcuna forza d’erbe, di parole o di maleficio; il che fatto, davansi loro lo scudo e le armi. Questa cerimonia a un di presso così facevasi in tutta l’Europa in quel secolo. V’erano ancora altri giudizi di Dio; quello del ferro rovente da portarsi nella mano nuda non era permesso in Milano: illud autem scire opportet quod ferventis ferri judicium in nostra civitate non admittitur, licet in quibusdam locis jurisdictionis domini archiepiscopi secus obtineat; così nei nostri Statuti di quei tempi. Bensì era ammesso il giudizio di Dio coll’acqua fredda, e questo da noi non era punto crudele; poichè si prendeva un fanciullo, e con una fune, senza pericolo, si tuffava nell’acqua; e immergendosi il fanciullo, che tosto s’estraea, il reo era assoluto.
Finalmente vorrei poter dare un’idea della coltura nostra verso quell’età; ma le notizie non erano copiose in nessuna parte dell’Europa. Avemmo un medico che compose le pandette della medicina, dedicate al re di Napoli Roberto. Questi si chiamava Matteo Selvatico, milanese, che scrisse l’anno 1317. Quel libro si stampò a Venezia l’anno 1498. Un altro Milanese ebbe nome presso dei giusperiti, cioè Signorollo Omodeo, le opere del quale non sono ignote ai forensi. Ma di bella letteratura non ne abbiamo vestigio alcuno. Uno de’ più antichi poeti italiani fu Pietro da Bescapè, nostro milanese. Egli scrisse i suoi versi nell’anno 1264, nel quale pretese di tradurre in poesia la storia del Vecchio Testamento. L’autore così comincia:
Como Deo a facto lo mondo,
E como la terra fo lo homo formo.
Cum el descendè ce cel in terra
In la Vergine Regal polzella,
E cum el sostenè passion
Per nostra grande salvation,
E cum verà el dì del ira
La o sarà la grande roina
Al peccator darà grameza
Lo justo avrà grande alegreza,
Ben è raxon ke l’omo intenda
De que traita sta legenda.
Il fine di questo canto, poema o diceria, qualunque si voglia chiamare, è ancora più rozzo del principio, e così termina:
Petro de Bescapè, ke era un Fanton,
Si a facto sto sermon,
Si il compilò e si la scripto.
Ad onor de Ihu Xpo
In mille duxento sexanta quattro
Questo libro si fo facto,
Et de junio si era lo premier dì
Quando questo libro se finì,
Et era in seconda diction
In un venerdì abbassando lo sol
L’antico manoscritto trovasi nella scelta libreria del signor conte Archinto. Non più felice del Bescapè fu il nostro frate Bonvicino da Ripa, i di cui poveri versi si trovano nella biblioteca Ambrosiana, fra i quali vedesi, che fino dall’anno 1291 si conoscevano quei versi che nei tempi a noi vicini si chiamarono Martelliani. Frate Bonvicino con tal metro compose le Zinquanta cortesie da Tavola, le quali così cominciano:
Fra Bon Vexin da Riva, che sia in Borgo Legnano,
D’ le cortexie da descho ne dixette primano:
D’ le cortexie zinquanta che s’ de osservare a descho
Fra Bon Vexin da Riva ne parla mo de frescho.
Costoro scrissero prima che Francesco Petrarca dimorasse in Milano; ma certo Galliano scriveva l’anno 1391; e ne conservano l’antico MS. i monaci di Sant’Ambrogio. Costui non lesse mai le dolci e sensibili rime del Petrarca; nè pose mai il piede nel suo Linterno; così questo rozzo scrittore terminò la sua cantilena:
E se di chi l’ha facta alcun se lagna
Digli che sta alla Pietra Cagna
In Milano
E facta sotto l’anno MCCCLXXXX uno
Indictione quarta decima
Per man d’uno
Che non decima denari
Perchè gli sono sì selvaggi e contrari
Che non se ponno domesticare
Ne stare con lui
A dirlo contra vui
El se giama dalla Terra che fronteggia Cantu.
Queste sono le sole reliquie che siano da quei tempi trapassate alla cognizione nostra; e ben a ragione il signor abate Paolo Frisi, che ci vantiamo d’aver per concittadino, e che mi onora colla sua amicizia, nell’Elogio del Cavalieri, sul proposito della venuta a Milano del Petrarca e dello stato delle lettere milanesi in que’ anni, così s’esprime: I tempi dell’antica anarchia, le guerre intestine ed estere del principato, la fiera e bellicosa indole dei nostri principi, avevano lasciato appena qualche adito tranquillo e libero agli studi della pace... que’ semi esotici non trovando il terreno bastantemente preparato a riceverli, non allignarono molto sotto del nuovo cielo. Non vi si videro spuntare per molto tempo, che informi compilazioni, popolari leggende, storie non ragionate, prose snervate e languide, poesie che di poetico non avevano altro che il metro e la desinenza delle parole, ec.