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bovis competentem et bonam inter duos; et aliud frustum seu petiam porci cum bonis piperatis inter duos, et frustum, sive petiam unam carnis porcinae assatae, sive rostitae cum paniciis inter duos; et hec omnia ad sufficientiam, secundum quod decet, praestet singulis annis. La carta si conserva nell’archivio della collegiata di Varese, e l’ha pubblicata l’erudito nostro conte Giulini. Verso la fine del capitolo sesto ho ricordato un altro pranzo, preteso un secolo prima, da altri canonici, i quali chiedevano lombulos con panitio; ora si trattava cum panitiis. Potevano forse essere pagnotelle più fine, di mero fiore di farina apprestata sul finir della mensa. La piperata si è veduta nominata in quella carta del 1148, si vede in questa del 1248; si usava ai tempi del Corio; e l’abbiamo anche oggidì scritta nella tariffa della mercanzia, col tributo di trentasei soldi e mezzo per ogni rubbio, sebbene ora non sappiamo più cosa ella si fosse. Io la crederei una salsa stimolante, e in cui entrava singolarmente il pepe, simile a quella che ora adoperiamo colla senape.
Il Fiamma, che viveva appunto ai tempi di Giovanni arcivescovo, ci lasciò un’idea della ricchezza e del lusso di quel tempo: nunc vero in praesenti aetate priscis moribus superaddita sunt multa ad perniciem animarum irritamenta: nam vestis praetiosa, et ornatu superfluo circumtecta per totum; in ipsis vestibus, tam virorum quam mulierum, aurum, argentum, perlae inseruntur. Frixa latissima vestibus superinducuntur. Vina peregrina, et de partibus ultramarinis bibuntur: cibaria omnia sunt sumptuosa: magistri coquinae in magno praetio habentur. Lo stesso Fiamma ci attesta che in Milano