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simile documento, in quella parte che avrà limitata la sovranità. Il consiglio, composto di cittadini che non erano stati nominati nei comizi generali, ma dal principe istesso, ovvero da un podestà che gli era subordinato, non poteva obbligare la città, la quale non era rappresentata dal consiglio, se non illegalmente. E quand’anche i consiglieri poi avessero una legittima rappresentanza, non potevano conferire ad altri, se non quanto era in dominio della città medesima. La suprema sovranità dell’Impero, per diritto, sussisteva; e la pace di Costanza l’aveva definita centosessantasei anni prima. Onde quest’atto non poteva confidare ai Visconti se non quella porzione della sovranità che, in vigore di quella pace, era rimasta alla città, cioè i tributi, l’elezione de’ magistrati, la guerra e la pace; ma non mai togliere l’appellazione all’imperatore, nè il vassallaggio stabilito nell’anzidetta pace.
Appena l’arcivescovo Giovanni rimase solo alla testa dello Stato, ognuno dovette conoscere che la passata sua non curanza del governo certamente non nasceva da mancanza di talento per governare, nè da indifferenza per la gloria, nè da insensibilità per il pubblico bene. Il virtuoso principe cominciò il suo regno col fare la pace co’ vicini; col conte di Savoia, co’ Gonzaghi, col marchese di Monferrato e co’ Genovesi, posti prima in armi per le invasioni che Luchino aveva fatte, dilatando lo Stato proprio a danno loro. Assicuratosi così d’un pacifico dominio, la natura e l’indole sua benefica lo portarono a terminare la miseria degli esuli nipoti. Matteo, Barnabò e Galeazzo furono richiamati dall’esilio ed accolti come a principi si conveniva. Diede Regina della Scala in moglie a Barnabò, e Bianca di Savoia a Galeazzo;