Storia di Milano/Capitolo XIII

Capitolo XIII

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[p. 427 modifica]Della signoria dei tre fratelli Matteo, Barnabò e Galeazzo Visconti.

Nella successione de’ Visconti non si vede seguìta una legge costante. Matteo I aveva quattro figli: dopo la di lui morte restò unico signore Galeazzo I, a cui successe Azzone di lui figlio. Pareva adunque il principato ereditarsi dal primogenito. Ma dopo di Azzone, morto senza figli, la signoria passò a’ due fratelli Luchino e Giovanni, senza che i figli di Stefano vi avessero parte; i quali pure avrebbero dovuto possedere l’eredità paterna, se lo Stato fosse un bene divisibile. In fatti, morto Giovanni, i tre soli discendenti di Matteo riconosciuti legittimi, cioè Matteo, Barnabò e Galeazzo, figli di Stefano, diventarono padroni, e si divisero lo Stato. Non vi erano in que’ tempi idee chiare di gius pubblico. Il principato era un podere, non una dignità instituita per il bene dello Stato. Tutto il bene che un sovrano faceva al suo popolo, non era considerato allora come il più sacro dovere adempiuto, ma bensì come un’accidentale beneficenza d’un animo generoso. Terminata che fu la vita di Giovanni, la divisione si fece di comune accordo fra i tre fratelli. A Matteo toccarono le città che s’inoltrano nell’Italia, a Barnabò la provincia che s’accosta a Venezia, ed a Galeazzo toccarono le terre che ora sono appartenenti al Piemonte. Milano e Genova rimasero indivise sotto la comune dominazione. Matteo così ebbe in sua separata porzione Bobbio, Lodi, Piacenza, Parma e Bologna. Barnabò ebbe Cremona, Crema, Bergamo e Brescia. [p. 428 modifica]Toccarono a Galeazzo Pavia, Alessandria, Tortona, Novara, Vigevano, Asti, Vercelli; e Como, che rimaneva come isolata, fu pure assegnata a Galeazzo. Con tal modo altro non mancava se non la dissensione o diffidenza per distruggere una signoria ragguardevolissima. Ma nelle cose umane comunemente accade che nè si ottenga tutto il bene che ragionevolmente si poteva sperare, nè si soffrano tutt’i mali che con ragione si dovevano prevedere; e talvolta le più scomposte ed assurde organizzazioni di sistemi, le quali pareva che dovessero rovinare uno Stato, si sono ridotte ad effetto, senza che per ciò siane accaduto il danno che compariva inevitabile: poichè nell’esecuzione, gl’interessi degli uomini che vi si adoperano, essendo quelli d’evitare la rovina, rimediano e correggono l’imperfezione del sistema. Così lo Stato si conservò, crebbe anzi, come vedremo, e potè lusingarsi il successore de’ tre fratelli d’essere dichiarato re d’Italia; e forse lo sarebbe stato, se la morte non troncava il filo della di lui ambizione.

Lodovico il Bavaro, ossia Lodovico V, quel contrastato imperatore, avea terminato i suoi giorni, ed era stato eletto legittimamente imperatore Carlo IV, marchese di Moravia, figlio di Giovanni re di Boemia, e di Elisabetta, che era figlia di Enrico di Lucemburgo. Carlo IV era riconosciuto e dai principi della Germania e dal papa e da tutta l’Europa, come vero re de’ Romani. La di lui elezione era accaduta l’anno 1347, e in quel punto le dispute già da trent’anni incominciate fra il Sacerdozio e l’Impero, erano terminate. Carlo IV se ne venne in Italia per ricevere le due corone del regno italico e dell’impero romano. I principi d’Italia, che temevano la potenza de’ Visconti, [p. 429 modifica]non mancarono di profittare dell’occasione, e d’animare quell’augusto ad abbatterla, promettendogli ogni aiuto e vantaggio. Ma sia che a Carlo premesse maggiormente l’acquisto del denaro per se medesimo, anzi che la difesa di quella autorità che per caso era annessa alla persona di lui; sia che l’esempio de’ suoi antecessori l’avesse istrutto a non adoperare la forza delle armi ausiliarie, per non correre ei pure il pericolo di vedersi abbandonato da’ suoi, prima di avere ridotti i progetti a fine; sia che le forze dei Visconti fossero tali da non lasciargli sperare un buon esito; sia finalmente che il genio mite e rivolto alle lettere di quel re lo distogliesse da simile briga, certo è ch’egli allora si mostrò anzi amico dei Visconti. I fratelli Visconti mandarongli incontro i loro ambasciatori a Mantova, invitandolo a passare a Milano, e ricevervi la corona; e il re accettò l’invito. Appena Carlo IV si trovò sulle terre de’ Visconti, non dovette aver più pensiero alcuno; poichè ogni cosa eravi magnificamente preparata per alloggio, ristoro e trasporto di quell’augusto e di tutta la corte che veniva seco. I Visconti non risparmiarono nè spesa nè attenzione. A Lodi se gli presentò Galeazzo, e, resogli omaggio, lo accompagnò con cinquecento militi alla vòlta di Milano. A Chiaravalle gli andò incontro Barnabò con altri militi, e fece dono al re di trenta superbi cavalli, coperti di velluto, di scarlatto e di drappi di seta, tutti in ricco e magnifico arnese. (1355) Entrò in Milano quel Cesare il giorno 4 di gennaio dell’anno 1355; e venne da tutto il popolo festosamente accolto con rumore di nacchere, cornamuse, tamburi e trombe, siccome allora era il costume. Venne splendidamente alloggiato nel palazzo ora della regia ducal corte, dove avevano presa dimora [p. 430 modifica]i suoi antecessori Enrico VII, che noi diciamo VI, suo avo materno, e il combattuto Lodovico V. Non vi è dimostrazione di rispetto e di benevolenza che i Visconti abbiano dimenticata. Protestarono di riconoscere la loro signoria dall’Impero: e l’imperatore, al quale regalarono duecentomila fiorini d’oro, dichiarò i tre fratelli vicari imperiali ne’ loro Stati. Si fecero giostre, feste e corti bandite per onorare l’augusto ospite, e fra le pompe che i Visconti immaginarono in quella occasione, una singolarmente fu significante; e fu quella di passare schierati sotto le finestre di corte, ove alloggiava l’imperatore, seimila uomini a cavallo, signorilmente equipaggiati, e diecimila fanti; e i Visconti dissero a quel monarca che quelle forze e le altre molte che tenevano nelle altre città del loro Stato, erano tutte pronte per servigio suo. Per que’ tempi erano queste forze di molta considerazione. La cerimonia della incoronazione si celebrò in Sant’Ambrogio dall’arcivescovo Roberto Visconti, il giorno 6 di gennaio: e in quell’occasione il re Carlo creò milite il figlio di Galeazzo, cioè Giovanni Galeazzo, bambino di due anni. Questo bambino fu poi il primo duca, e diventò un potentissimo principe, come vedremo. Alcuni giorni dopo partì il re Carlo, e s’incamminò alla vòlta di Roma. Pretende Matteo Villani che questo re non fosse stato nelle mani dei Visconti senza inquietudine. Sarebbe questa una prova della pusillanimità di quel principe, giacchè non potevano sperare alcun vantaggio i Visconti nè da un affronto nè da un tradimento che gli facessero, allorchè era abbandonato nelle loro mani.

Prima che terminasse l’anno, il triumvirato fu tolto, e colla improvvisa morte di Matteo II lo Stato [p. 431 modifica]si divise in due sole parti fra Barnabò e Galeazzo II. Matteo II aveva molto vigor fisico e poca forza di mente. Dopo ch’egli ebbe in sua porzione Bologna, la perdette, per aver cercato di scemare lo stipendio a quei che potevano soli conservargliela. Matteo operava in modo da perdere la signoria, e trascinar seco in rovina anco i fratelli; poichè, diventato padrone, cercava di possedere per autorità e senza mistero quello che tutt’al più si carpisce industriosamente fra le tenebre. Egli giunse a minacciar la morte ad un cittadino ammogliato con una bellissima donna, perchè contrastava di cedergli i suoi diritti. Questi presentossi a Barnabò chiedendo giustizia, e dichiarandosi con molto impeto di esser pronto a morire, anzi che acconsentire a tanta infamia. Barnabò lo accolse con freddezza ed indifferenza; poichè trattandosi del suo maggior fratello, a lui, disse, non toccava il correggerlo: poi concertato l’affare con Galeazzo II, vedendo che Matteo era incorreggibile nella scostumatezza, che già serpeggiavano nel popolo delle sorde e tronche voci, e che correvasi rischio, temporeggiando e lasciando moltiplicare gl’insulti, di vedere lo Stato in rivoluzione, per evitare il fatto de’ Tarquini, divennero fratricidi come Romolo; almeno così ci racconta Matteo Villani. Si dice altresì che a questo timore un altro vi si accoppiasse per unire e indurre a tale estrema risoluzione i due cadetti Barnabò e Galeazzo, e fu che, trovandosi i tre fratelli insieme cavalcando, nell’osservare il fecondo e ridente paese del quale erano signori, uno de’ cadetti dicesse, che era pure la bella cosa l’esservi sovrani; e che incautamente allora al primogenito fuggisse [p. 432 modifica]di bocca, che bella cosa era l’esser solo; la quale risposta (non essendovi stato prima d’allora altro esempio di signoria promiscua veramente, meno poi di signoria divisa) doveva dar molto da temere ai due principi minori. Qualunque ne fosse la cagione, Matteo II morì il giorno 26 di settembre dell’anno 1355; e Barnabò e Galeazzo si divisero la di lui porzione. Anche Milano venne divisa: Barnabò ebbe la parte d’oriente e mezzodì; l’aquilone e l’occidente della città l’ebbe Galeazzo. V’ha chi pretende altresì che nessun altro motivo vi fosse stato per escludere dalla successione Luchino Novello, e farlo comparire illegittimo, fuori che le minacce e le brighe di Barnabò e Galeazzo, colle quali intimorissero la Fieschi, già colpevole della licenziosa peregrinazione non solo, quant’anche del veneficio, e la inducessero a dichiarare il figlio macchiato nella sua origine, e a contentarsi d’uscire illesa dalle loro mani; onde l’essere vivo il legittimo successore sempre più rendesse sospettosi e Barnabò e Galeazzo II. Fors’anco la divisione dello Stato mostra ch’essi piuttosto si divisero una preda. Non sono divisibili le sovranità passate per legittima successione.

Carlo IV, dopo di essere stato incoronato anche in Roma, se ne ritornò al suo paese; ma non per questo cessarono gli emuli principi d’Italia di eccitare per ogni modo l’animo di quell’augusto a deprimere i Visconti. (1356) I maneggi degli Estensi, dei Gonzaghi e del marchese di Monferrato indussero Marquardo, vescovo d’Ausburgo, il quale stavasene in Pisa col carattere di vicario imperiale, a citare i fratelli Visconti per il giorno 11 di ottobre 1356 a comparire dinnanzi al suo tribunale e discolparsi d’aver conferite con arrogata facoltà [p. 433 modifica]le dignità ecclesiastiche, di aver tessute all’imperatore delle insidie a Pisa, e di aver fatte chiudere le porte della città, impedendovi l’ingresso al medesimo imperatore nel suo ritorno da Roma. I due fratelli Visconti non pensarono nemmeno a questo viaggio. Il vescovo Marquardo radunò le forze degli emuli: e si pose alla testa di un corpo d’armati rispettabile, incamminandosi verso Milano. S’impadronì di varie città; poichè i Visconti o non avevano preveduta una tale invasione, ovvero avevano negligentate le difese. La stessa campagna di Milano venne esposta alle prede ed ai guasti de’ nemici. Si spostarono gl’imperiali ne’ contorni di Casorate; e i due fratelli finalmente, radunate le loro forze, ne confidarono il comando al vecchio Lodrisio Visconti; a quel Lodrisio, che, diciassette anni prima, colle armi alla mano, venne preso a Parabiago, allorchè cercava di togliere la sovranità ad Azzone. Il valore di Lodrisio, e la sua perizia produssero la vittoria del giorno 14 di novembre l’anno 1356. I nemici vennero disfatti a Casorate; il vescovo Marquardo d’Ausburgo, loro comandante, rimase prigioniero, fu condotto decorosamente a Milano, e dai Visconti fu poi licenziato, onde ritornossene nella Germania. Lodrisio Visconti ricompensò per tal modo la vita che gli lasciò Azzone, e la libertà che gli diede Giovanni, principi illuminati, i quali conobbero che un generoso perdono ci affeziona più di qualunque altro beneficio un’anima nobilmente energica. I Visconti, signori quasi tutti assai valorosi, affrontarono intrepidamente i pericoli prima che reggessero lo Stato; seduti poi che erano sul trono, [p. 434 modifica]ben rare volte si esponevano; ma affidavano anzi ai loro figli o cugini od altri estranei il comando. La sconfitta di Casorate però non tolse la speranza ai collegati, dai quali non si risparmiavano maneggi. Il papa non vedeva punto con indifferenza il gran potere de’ Visconti, e sopra tutto da che Bologna era un oggetto delle loro pretensioni; il che ottenendo essi, era aperta loro la strada a nuovi acquisti sulla Romagna. Ai Genovesi non era men gravosa questa estera dominazione sulla loro città, in prima libera, e già illustre per imprese marittime e per ricchezza. Il papa, i Genovesi, gli Estensi, il marchese di Monferrato e i Gonzaghi facevano causa comune. Già Bologna, siccome accennai, si era staccata. Genova fece lo stesso; e il giorno 17 di novembre 1356 si dichiarò libera, e creossi un doge, che fu Simone Boccanegra. (1358) Dopo ciò, seguirono varii piccoli fatti d’armi sul Milanese; ma le cose de’ fratelli Visconti non prendevano buona piega; onde furono costretti, cedendo Asti e Pavia al marchese di Monferrato, di cercare la pace, la quale fu stabilita il giorno 8 di giugno dell’anno 1358.

Non era piccol discapito per Barnabò e Galeazzo l’avere, ne’ primi quattro anni del loro regno, perduto Bologna, Genova, Asti e Pavia. Questa ultima città singolarmente doveva premere a’ due fratelli; poichè a venti miglia di Milano non potevano vedere, senza inquietudine, domiciliata una guarnigione di nemici. Ma nemmeno conveniva mancare apertamente alla fede d’una pace appena giurata, senza una superiorità di forze che ne imponesse alla opinione dei popoli. Le fazioni interne di Pavia fecero quasi spontaneamente nascere l’occasione, e Galeazzo Visconti la seppe cogliere. Il fatto ce lo riferisce l’Azario. Il marchese di Monferrato, [p. 435 modifica]nuovo signore di Pavia, non aveva forza d’armi bastante per esercitarvi una piena sovranità. La famiglia de’ signori Beccaria era assai potente, e disponeva delle cose della città più che non ne potesse fare il marchese, nuovo sovrano. Egli cercò pure come abbassare i Beccaria, e toglier loro quel favore popolare che li faceva prevalere, e gli venne in pensiero che nessun altro avrebbe meglio potuto ottenergli quest’intento, fuori che frate Giacomo de’ Bussolari, agostiniano, predicatore rinomatissimo in Pavia, dietro del quale, come a santo uomo, correva ciecamente il popol tutto. Quai mezzi adoperasse il marchese per guadagnarsi questo frate Giacomo de’ Bussolari non lo sappiamo; sappiamo bensì ch’egli lo guadagnò, e sì fattamente, che il frate fece passare il popolo pavese, dall’amore passionato che aveva, alla detestazione ed all’odio contro de’ Beccaria, per modo che furon costretti a partire esuli dalla patria. Cominciò il frate, nelle sue prediche, a indicarli al popolo, senza però palesemente nominarli: O frumentarii, o viri sanguinum populi, non expectatis diem judicii? Andava costui esclamando, e persuadeva che la carezza del pane fosse cagionata dalla insaziabile avarizia de’ fratelli Beccaria: Ipse praedicando fertur propalasse occulta illorum de Beccaria, quae sibi narrata fuerant nomine poenitentiae, et praecipue de domino Castellino talia dixit, quod universum populum pellexit et animavit ed destructionem universorum de Beccaria, et eorum prolis, et progeniei, et amicorum suorum, et ad ruinam, et populationem eorumdem. Et tunc, sine ulla defensione praecedente, universas illorum ac sequacium domos, aedes et palatia dirui fecit, et asportari lapides, et vendi, praedicans quod quisque Papiensis ipsos lapides [p. 436 modifica]teneret sub pulvinari, et capite lecti, ad perpetuam memoriam male gestorum per ipsos de Beccaria. Gli esuli Beccaria si rifugiarono a Milano presso Galeazzo, implorando soccorso. È assai probabile che da Galeazzo medesimo fossero stati animati i Beccaria, per attraversare le voglie del loro nuovo sovrano marchese di Monferrato. Galeazzo II spedì Luchino dal Verme, valoroso comandante, alla testa d’un conveniente numero d’armati, con apparenza di proteggere gli oppressi e di porre l’ordine in una città vicina, tumultuante, sotto un sovrano che non aveva forze bastanti per darle la pace. Fu così bloccata quella città, in cui frate Giacomo comandava dispoticamente, creando e cassando a suo arbitrio i magistrati. A tal proposito io riferirò le stesse parole d’Azario: Nam a carrocio, quo saepius vehebatur (et beatus ille qui poterat tangere id carrocium, pro vehendo palliis cohopertum!) caepit praedicare, et increpare quod homines, et mulieres debebant a laqueis mundanis declinare, nempe a vestibus luxuriosis et sumtuosis, ab argenteis, et gemmis praetiosis, et ornamentis... et in exequutorem eligi fecit officialem, quem vidi incidendo maniconos guarnazonorum phrigio opere contextos, vel auro, et argento ornatos, et incidendo balthea si quid praetiosi inveniebat circa ea. Nè tale pure era il limite del potere di questo frate Giacomo de’ Bussolari. Egli giunse al segno che fecit publicam justitiam per capitis obtruncationem... Venditis ergo praedictis auro, et argento, gemmis, adamantibus, et lapillis praetiosis usque in Venetiis, radunò una somma destinata a provvedere i viveri alla città. Ma [p. 437 modifica]non era facile l’introdurveli, e Luchino dal Verme vegliava intorno da ogni parte. Si cominciò a provare in Pavia la fame, e il frate scorreva per la città nel suo calessetto, gridando al popolo: ne dubitaret de victualibus, quum sciret ipse, ita enim affirmabat, per orationes... se impetraturum ut manna similis datae Moysi in deserto defluxura esset ad sufficientiam. I Pavesi alla fine, ridotti alla estremità, si diedero a Galeazzo II, al quale avevano già ubbidito; e frate Giacomo de’ Bussolari ebbe la cura di capitolare, e provvidde a tutto per la città, e nessuna condizione ricercò per se medesimo: curaverat de aliis, non autem de se ipso, prout semper allegabat praedicando. Il generale del suo Ordine pregò poscia Galeazzo II, dal quale ottenne il frate, che terminò i suoi giorni in carcere. Così Pavia ritornò in potere de’ Visconti.

Non così facile riuscì ai Visconti il riavere Bologna; chè anzi, malgrado l’ostinazione e gli sforzi di Barnabò, questi non potè, sin che visse, averla in suo dominio. Una signoria divisa, non è nel momento opportuno d’ingrandirsi. Fra Barnabò e Galeazzo II non trovavasi molta armonia; i vizi loro, la maniera di governare atrocemente, non disponevano i popoli a bramare il loro impero. I principi italiani, tanto più attivi e costanti, quanto più speravano di riuscire contro di uno Stato diviso, non risparmiarono arte e forza in ogni occasione; per modo che non v’è da maravigliarsi come sotto i due fratelli non s’ampliasse lo Stato, ma bensì come ei non cadesse in un totale discioglimento. (1360) Bologna era passata nelle mani del papa, e Barnabò vi spinse le sue armi l’anno 1360, ma senza frutto; poichè Innocenzo [p. 438 modifica]VI fece venire nell’Italia Lodovico re d’Ungheria, con buon numero di armati, in soccorso di Bologna, e Barnabò dovette ritirarsi. Quel sommo pontefice scomunicò Barnabò Visconti; e Urbano V, che fugli successore, confermò la scomunica con sua bolla. I delitti che s’imputavano in quella bolla a Barnabò Visconti sono: ch’egli proteggesse gli eretici; ch’egli un giorno, avendo fatto chiamare avanti di sè l’arcivescovo, torvamente gli avesse comandato di porsi in ginocchio, il che fattosi dal timido prelato, Barnabò gli dicesse: Nescis, poltrone, quod ego sum papa et imperator ac dominus in omnibus terris meis; ch’egli sugli ecclesiastici esercitasse giurisdizione, obbligandoli a pagare i carichi, facendoli imprigionare, e condannandoli al supplizio, come gli altri cittadini, e che si arrogasse la collazione de’ beneficii e l’amministrazione de’ beni ecclesiastici. Questa era la settima volta in cui il papa prendeva a scomunicare ed interdire i signori o la città di Milano. Già vedemmo al capitolo quinto gli anatemi pronunziati, nel secolo undecimo, da Alessandro II, all’occasione di sottomettere la chiesa Milanese alla giurisdizione di Roma. Vedemmo pure, al capitolo nono, l’interdetto pubblicato sopra Milano da Innocenzo III, l’anno 1216, per fargli abbandonare il partito di Ottone IV; e l’altro interdetto di Urbano IV, di cui ho fatta memoria al capitolo decimo, per abbassare i signori della Torre, nel 1262; poi le scomuniche pronunziate contro Matteo I Visconti, nell’anno 1321, allorchè la potenza di lui cominciava a dar gelosia a Giovanni XXII, di che trattossi al capitolo undecimo. Vedemmo pure come lo stesso sommo pontefice, non contento della scomunica e [p. 439 modifica]dell’interdetto sulla città, facesse pubblicare contro Galeazzo I una Crociata, e invadere il di lui Stato. Vedemmo nel capitolo precedente come il papa Clemente VI ponesse all’interdetto la città, e scomunicasse Giovanni Visconti, arcivescovo, e i tre suoi nipoti Matteo, Barnabò e Galeazzo II, perchè aveva l’arcivescovo comprato dal Pepoli il dominio di Bologna. Ora la scomunica cadde sopra Barnabò, il quale era stato già due altre volte anatematizzato di riverbero, come discendente da Matteo e nipote di Giovanni. Il papa, per mezzo d’un cardinal legato, faceva delle proposizioni di accomodamento a Barnabò. Bologna era stata comperata da Giovanni arcivescovo per ducentomila fiorini d’oro. Questo era il solo titolo che poteva Barnabò legittimamente allegare per sostenerne il dominio; e il legato gli offeriva di sborsargli la metà di quella somma, cioè centomila fiorini d’oro, purchè egli abbandonasse le sue pretensioni sopra Bologna. Ma Barnabò non faceva altra risposta se non questa: Voglio Bologna. Nuove offerte faceva il legato, e Barnabò rispondeva sempre: voglio Bologna. Per deludere tutte le arti d’un uomo colto, ingegnoso ed accorto, basta ch’egli abbia a trattare con un uomo ostinato, ignorante e feroce. Tali erano i dialoghi tra Barnabò ed il legato. Gli Annali Milanesi c’insegnano che ipse dominus diebus suis scientificos laicos, clericos, et praelatos, ac quoslibet virtuosos viros odio habuit; et idiotas, crudeles, abjectos viros, infames et homicidas semper sublimavit. Un principe di tal carattere poteva far tremare gli uomini di merito che avevano la sventura di trovarsi con lui, ma non poteva riuscire [p. 440 modifica]felicemente ne’ suoi progetti. Le sue armi ritornarono verso del Bolognese l’anno 1361, e più d’una volta vennero malamente battute, senza ch’ei punto acquistasse.

Due fatti accaduti in quel tempo dimostrarono qual principe fosse Barnabò, e qual rispetto egli avesse pel gius delle genti. Innocenzo VI gli spedì come nunzii due abati benedettini. Essi erano incaricati di trattar seco lui, per terminare la controversia di Bologna, ed avevano le bolle pontificie da presentargli. Ciò accadde nell’anno 1361. Barnabò stavasene nel castello di Marignano, rintanato colà per allontanarsi dalla ferocissima pestilenza che devastava Milano, abbandonata dai due fratelli al caso, e senza adoperare alcuna di quelle precauzioni colle quali Luchino, loro zio, nell’anno 1348, cioè tredici anni prima, aveva saputo preservarla; abbenchè allora quella sciagura avesse desolata gran parte dell’Italia. Ivi attese i due nunzi, e concertò la cosa per modo che il primo incontro con essi loro seguisse al ponte sotto cui scorre il fiume Lambro. Barnabò, scortato da una buona caterva d’armati su di quel ponte, ricevè i due nunzi, i quali se gl’inchinarono, e presentarongli le bolle consegnate loro dal papa. Barnabò seriamente si pose a leggerle, indi biecamente mirando i due ministri: scegliete, disse, una delle due, o mangiare o bere. I due nunzi, posti in mezzo agli armati, senza scampo, mirando il fiume che scorreva al disotto, costretti dopo replicate e impazienti istanze alla scelta, mostrarono che non piaceva loro di bere: ebbene mangiate dunque, disse il feroce Barnabò; e furono costretti i due venerabili prelati a mangiare la pergamena tutta quanta, il cordoncino di seta e [p. 441 modifica]la bolla di piombo. Con tale insulto atroce ardì Barnabò di violare non solamente la riverenza che si deve al sommo sacerdote, ma i doveri che reciprocamente uniscono i principi e le nazioni fra di loro; e persino le sacre leggi d’ospitalità, che impongono, anche agli stessi popoli agresti e selvaggi, di non abusare della condizione d’uno straniero ricoverato in casa nostra. (1363) Uno di questi due abati era Guglielmo da Grimoaldo di San Vittore di Marsiglia, il quale, pochi mesi dopo di quest’obbrobrio, venne creato sommo pontefice e chiamossi Urbano V. È facile l’immaginarsi quai sentimenti dovesse poi avere Urbano V verso di Barnabò, da cui era stato insultato con tanta soperchieria. Egli, in fatti, con un breve dato di Avignone il giorno 3 di marzo dell’anno 1363, scomunicò solennemente Barnabò; lo dichiarò eretico, decaduto dall’ordine di cavaliere, spogliato d’ogni onore, diritto e privilegio; e comandò che alcuno non osasse più di trattare con lui. Nel breve della scomunica vi eran queste parole: propterea destruet te Deus in finem, evellet te, et emigrabit te de tabernaculo tuo, et radicem tuam de terra viventium. Inoltre, agli 11 di luglio dello stesso anno 1363, dal cardinale Egidio Alburnoz fece pubblicare la Crociata contro Barnabò, come già era stata pubblicata contro suo zio Galeazzo quarant’anni prima; e tale e tanto era in ciò l’impegno del papa, che (quantunque egli venisse istantemente sollecitato e da Pietro re di Cipro, e dal re di Francia medesimo, ad intimare una Crociata contro de’ Saraceni, che sempre più si tendevano formidabili [p. 442 modifica]ai Cristiani del Levante), egli ricusò di farlo per allora; anzi si protestò ch’ei non avrebbe mai dato mano a Crociata alcuna, sin tanto che non avesse ottenuto esito felice quella già intimata contro di Barnabò. (1364) Allora però questa Crociata non ebbe effetto; poichè la combinazione degl’interessi dei principi gl’indusse ad accordar la pace l’anno 1364, in cui Barnabò cedette Bologna al papa, che s’obbligò a pagargliela cinquecentomila fiorini d’oro. Le perdita di Bologna e del Modanese fatta da’ Visconti non fu una riparazione bastante al pontefice; poichè con nuova bolla dell’anno 1368, in data 30 maggio, lo stesso papa pubblicò una seconda Crociata contro il Barnabò e fece che lo attaccassero con formidabile esercito l’imperatore, la regina di Napoli, il marchese di Monferrato, gli Estensi, i Gonzaghi, i Malatesti, i Carraresi, i Perugini e i Sanesi collegati insieme coi pontificii. Questo esercito collegato avrebbe svelta dalle radici la sovranità de’ Visconti, se non avesse portato seco quel principio di lentore e debolezza, che sono inseparabili dalle armate combinate, ciascuna porzione delle quali, perchè dipendente da un distinto sovrano, si crede la prima di ogni altra, o almeno l’eguale, e si disperde nelle rivalità, che più la tengono occupata di quello non faccia la causa comune. Così potè Barnabò difendersi, e senza nuove perdite ottenere la pace, segnata il giorno 11 febbraio 1369. Nè la morte di Urbano V, che aveva sofferto l’insulto personale, diede costante fine all’odio pontificio, parve anzi che nel successore Gregorio XI venisse trasfuso come un’eredità; poichè Gregorio, l’anno 1372, combinò una nuova lega fra i principi [p. 443 modifica]d’Italia, e vedendo che le armi non andavano prosperamente, scomunicò di bel nuovo Barnabò, e liberò i sudditi dal giuramento di fedeltà; poi animò l’imperatore Carlo IV, il quale, con suo diploma dato in Praga il giorno 3 di agosto dello stesso anno 1372, privò i due fratelli Visconti Barnabò e Galeazzo del vicariato imperiale e d’ogni dignità, e Barnabò venne persino degradato dell’ordine equestre. Alle forze degli alleati, per opera del cardinale di Bourge, legato pontificio, si unirono quelle del duca di Savoia; e sebbene nemmeno questa volta l’armata combinata giugnesse a fare conquista sulle terre di Barnabò, ella però potè devastarle, e porre a saccheggio e in rovina una parte del suo Stato. Così la rozza e feroce violazione del gius delle genti produsse a Barnabò delle inquietudini mortali durante il suo regno; e questo è il primo de’ due fatti. L’altro fatto si vede originato dall’animo istesso di quel sovrano truce ed ignorante. Sino dall’anno 1362 s’era formata l’alleanza fra il papa, i Carraresi signori di Padova, gli Scaligeri signori di Verona, gli Estensi signori di Ferrara, e un Gonzaga signore di Reggio. Quei principi collegati, prima di commettere ostilità, spedirono i loro ministri a Barnabò, facendogli dire che essi avevano fatto lega col papa, ma unicamente in difesa dello stato della Chiesa; non mai per invadere gli Stati altrui; onde qualora il signor Barnabò avesse restituito i luoghi da lui occupati nel Bolognese e nella Romagna, essi non avrebbero mosse le armi contro di lui. Tale era la commissione di que’ legati. A questo colto e nobile ufficio Barnabò [p. 444 modifica]corrispose nella più villana maniera. Ordinò che i legati venissero a corte; ivi non si degnò di lasciarsi vedere, ma volle che esponessero la loro ambasciata avanti di un notaro; e poichè ebbero ciò eseguito, egli spedì una squadra d’armati e fece attorniare i legati de’ principi; indi furono essi dalla forza obbligati a indossarsi alcune vesti bianche preparate apposta per esporli alla derisione della plebe. Vennero poscia costretti, in tal ridicolo arnese, di porsi a cavallo; e per due buone ore volle che in tal meschina e pazza forma rimanessero avanti la porta del palazzo di corte: indi li fece girare per la città, esposti al vilipendio, ed alle fischiate della ciurmaglia; e con tale infamia vennero scortati poi sino ai confini. Non è dunque da stupirsi che i principi italiani sempre gli fossero poi contrari, e pronti a secondare contro di lui tutte le proposizioni del papa. Barnabò pensava come l’imperatore Federico I, e sarebbe nato a proposito, se fosse stato suo contemporaneo e suo nemico. In mezzo alle guerre fra le quali visse, una volta sola Barnabò comparve in campo, e fu l’anno 1363, nel quale si portò sul Modanese alla testa de’ suoi. Egli era intrepido, e fu ferito; ma questo non basta per essere un buon capitano: venne sempre battuto. Barnabò era violento, coraggioso e feroce; ma di poco ingegno. Per richiamare intorno di sè i militi sparsi nello Stato, e riparare le perdite che faceva, ei mandò loro ordine che immediatamente si portassero da lui nel Modanese sotto pena della vita. Da questo modo barbaro di comandare minacciando la morte, si deve concludere, o che Barnabò non aveva avuto il talento di scegliere i suoi militi e di formarli, poichè conveniva minacciar loro la morte per indurgli ad accostarsi al nemico, [p. 445 modifica]ovvero che Barnabò non aveva il talento di comandare la gente d’onore e sensibile alla gloria, la quale si aliena anzi, trattata colle minacce e con viltà. Sempre in quella spedizione Barnabò fu battuto.

Se riguardiamo adunque Barnabò Visconti come principe e signore potente, dobbiamo confessare che egli non meritò stima alcuna; poichè la porzione sulla quale ei regnò venne diminuita colla perdita di Bologna, delle terre del Bolognese, della Romagna e del Modanese, ch’egli aveva ereditate dall’arcivescovo Giovanni. Egli con puerili e feroci insulti animò i suoi nemici, e non ebbe forze abbastanza per difendersi. Osserviamolo come legislatore del suo popolo e conservatore della felicità pubblica. Egli lasciò che la pestilenza desolasse Milano nel 1361; quella pestilenza alla quale ho attribuita la partenza del Petrarca; se pure anche l’indole del governo non isforzò del pari quell’uomo illuminato a tal partito. Quella sciagura distrusse più di settantamila abitatori di Milano, e fece nelle terre ancora strage molto maggiore. Dopo sì gran flagello, mentre Barnabò stava alla guerra nel Modanese, alcune compagnie d’uomini facinorosi devastavano la città, tormentata dalle violenze, dalle rapine e da ogni genere di dissolutezza. Ritornato Barnabò, per rimediare a simil disordine, pubblicò un editto in cui proibì che alcuno in Milano non potesse andar di notte per le strade, sotto pena del taglio d’un piede. Tanto ci attesta l’Azario, che allora viveva. Un ammalato, di notte non poteva più avere soccorso in virtù di tal legge feroce. Barnabò lasciò soffrire ai suoi popoli la carestia negli anni 1364 e 1365, senza [p. 446 modifica]senza trovare modo di soccorrere i suoi sudditi. Questa carestia nacque da un fenomeno fisico che riferirò poi. Attendentes temporum sterilitates, et guerrarum discrimina, dicesi in un decreto di Barnabò dell’anno 1369, nel quale introdusse il costume di mettere alle Gride i fondi per assicurare al compratore la proprietà1. L’anno 1372 con altro editto comandò Barnabò che nessuno ecclesiastico potesse allontanarsi dal luogo di suo domicilio senza suo permesso. L’ordine poteva essere necessario, attese le scomuniche e l’assoluzione dal giuramento di fedeltà dette di sopra; ma la pena d’essere subito gittati nel fuoco gli ecclesiastici contravventori è orrenda. Il Corio ci assicura che Barnabò dopo la pestilenza, la carestia e le perdite dello Stato, se volse contra de li miseri subditi che per quatro anni adietro havevano pigliato porci salvatici, ed altre selvaticine, onde a molti di loro faceva doppuo grande tormento cavare gli occhi, et inde suspendere per la gola, de li quali si riferisce essere ascesi al numero de cento. Assai magiore summa de le crudele e tyranice mano fugendo li faceva proscrivere, dinde gli pigliava ogni sua facultate, et a molti altri habitanti ne le ville non havendo il modo di satisfare al Fisco per le condemnatione, le case sue faceva brusare ... due Frati Minori andandogli per riprendere de sì inaudita extorsione senza alcuno riguardo gli fece brusare incolpandoli de nuova heresia2. Amava Barnabò la caccia singolarmente de’ cinghiali, e manteneva un grande numero di cani; come ciò facesse, ce lo dice il Corio all’anno medesimo: teneva cinque milia [p. 447 modifica]e la magiore parte de quelli distribuiva ala custodia de li cittadini et anche a contadini, li quali niuno altro cane che quegli puotevano tenere. Questi due volte il mese erano tenuti a fare la mostra, onde trovandoli macri, in grande summa de pecunia erano condemnati, e se grassi erano, incolpandoli dil troppo, similmente erano mulctati, se morivano gli pigliava il tutto; e li officiali o caneteri più che pretori de le terre erano temuti. Pietro Azario, che vivea in quei tempi, ci lasciò scritto che certo Antoniolo da Orta, ufficiale in Bergamo, venne accusato presso di Barnabò di avere esatte delle propine arbitrarie nello spedire certe licenze. L’accusatore era un solo, e Barnabò sine alia determinatione et defensione praecedente, jussit unum suum domicellum cum litteris suis de praesenti ire, dirigendis Potestati Pergami, ut, visis praesentibus, dictum Antoniolum per gulam laqueo faceret suspendi sub poena suspensionis ipsius potestatis. Qui Potestas, licet invite, dictum Antoniolum in palatio Pergami, nullo alio expectato nisi quod cum sacerdote confiteretur, suspendi fecit. Se prestiamo fede agli Annali Milanesi, Barnabò con un editto proibì che alcuno più non ardisse di chiamarsi Guelfo o Gibellino, sotto pena del taglio della lingua, e furono tagliate le lingue ad alcuni contravventori. Fece bruciar vivi tre uomini ragguardevoli, imputati di tradimento. Fece bruciare due monache del Bocchetto. Due altre monache di Orona miseramente ebbero sorte uguale. Fece crudelmente torturare Tommaso Brivio, vicario generale dell’arcivescovo, perchè aveva ricusato di degradare quelle infelici. Fece bruciare il prete [p. 448 modifica]Stefano da Ozeno d’Incino, dopo di avergli fatto soffrire atroci tormenti. Fece impiccare l’abate di San Barnaba, perchè aveva prese delle lepri. Fece cavare un occhio ad un uomo, perchè trovato a passeggiare in una strada privata di Barnabò. Un povero contadino fu incontrato da Barnabò, e lo fece ammazzare dal suo canattiere, perchè egli aveva un cane. Un giovinetto raccontò d’avere sognato che uccideva un cinghiale, e per questo Barnabò gli fece cavare un occhio e tagliare una mano. Per un decreto di Barnabò nessun giusdicente poteva cominciare a ricevere il soldo assegnatogli, se prima non aveva fatto tagliar la testa a un uccisore di pernici. Giovanni Sordo e Antoniolo da Terzago, suoi cancellieri, furono chiusi in una gabbia di ferro con un feroce cinghiale. Il podestà di Milano Domenico Alessandrino, a forza di bastonate, fu obbligato a strappare la lingua ad un uomo colle sue proprie mani... Chiudasi l’atroce scena: chi ne bramasse più minute circostanze vegga il nostro diligente conte Giulini. Io suppongo che vi sia della [p. 449 modifica]esagerazione in questi fatti. Mi sento uomo; ed ho piacere di lusingarmi che un uomo simile a me non possa mai discendere in tale abisso di crudeltà. Credo esagerati i racconti di Nerone, di Caligola e di simili principi. Ma togliendo anche la esagerazione, sempre ne rimane abbastanza per detestarli. I popoli disgraziati che erano sudditi di un tal uomo, gemevano altresì sotto il peso di gravosissimi tributi. Il Corio ci dice che Barnabò ogni anno riceveva centomila fiorini d’oro pe’ carichi ordinari, e sessantamila fiorini d’oro pei straordinari; in tutto incassava centosessantamila annui fiorini d’oro dal suo Stato. Egli possedeva Cremona, Bergamo, Brescia, Crema, Lodi, Parma e la metà di Milano, e questo carico contributo da suoi popoli allora riusciva insopportabile. Oggidì il solo Cremonese paga altretanto senza che il popolo sia oppresso; il che sempre dimostra quanto ho detto al capitolo ottavo e ripetuto poi, cioè che il valore dell’oro, reso in questi tempi più abbondante, si è notabilmente diminuito.

Il fenomeno fisico di cui ho fatto cenno, quello cioè per cui l’anno 1364 venne una funesta carestia nelloFonte/commento: Pagina:Storia di Milano I.djvu/614 Stato, è per fortuna nostra così insolito nel Milanese, che le persone poco istrutte lo potrebbero collocare fra le favolose invenzioni immaginate per allettare colla maraviglia. Ma ve ne sono prove tali, che non ci lasciano luogo a dubitarne. Tre scrittori che allora vivevano, i quali, oscuramente celati, notavano gli avvenimenti de’ loro tempi, senza che uno potesse avere cognizione dell’altro, ce lo hanno tramandato concordemente; e sono Pietro Azario, l’autore degli Annali Milanesi, ed il cronista di Piacenza. Nell’anno 1364 [p. 450 modifica]comparvero nel mese di agosto de’ nembi di locuste. Queste occupavano l’aria, come dense e vaste nubi, ed offuscavano il sole. Esse volavano con molta forza, e tutte si dirigevano dalla stessa parte nel volo. Scendevano poi su i campi, e, a vederle discendere, pareva che cadessero fiocchi di neve. L’Azario dice che questi animaletti erano verdi, e col capo e collo grossi. Nel terreno sul quale avevano posato, erbe, foglie, frutta, tutto rimaneva distrutto; e così questi eserciti funesti di locuste, passando da un campo all’altro, isterilirono le terre; e durò il flagello da agosto sino al mese di ottobre. Un simile flagello, si dice che l’avesse provato la Lombardia quattrocentonovantun’anni prima, cioè l’anno 873, e ce ne tramandò memoria Andrea Prete. Ma se a quell’autor solo si poteva contrastare un avvenimento maraviglioso, converrebbe rinunziare alla storia se dubitassimo della verità rapporto all’anno 1364. Questo fenomeno, stranissimo per noi, è conosciuto in altre regioni verso il Levante. Carlo XII, re di Svezia, nella Bessarabia ebbe moltissimo a soffrire per i nembi di locuste; e l’autore della Histoire militaire de Charles XII de Suède ci narra un caso simile, ed eccone le parole: Une horribile quantitè de sauterelles s’elevoit ordinairement tous les jours avant midi du côtè de la mer, premièrement à petits flots, ensuite comme des nuages, à qui obscurcissoient l’air, et le rendoient si sombre, et si èpais que dans cette vaste plaine le soleil paroissoit s’être èclipsè. Ces insectes ne voloient point proche de terre, mais à peu près à la même hauteur [p. 451 modifica]que l’on voit voler les hirondelles, jusqu’à ce qu’ils eussent trouvè un champ sur lequel ils pussent se jetter. Nous en rencontrions souvent sur le chemin, d’oû ils se jettoient sur la même plaine oû nous ètions et sans craindre d’être foulès aux pieds des chevaux, ils s’elevoient de terre, et couvroient le corps et le visage à ne pas voir devant nous, jusqu’à ce que nous eussions passè l’endroit où ils s’arrêtoient, Partout oû ces sauterelles se reposoient, elles y faisoient un dègât affreux, en broutant l’herbe jusqu’à la racine; ensorte qu’au lieu de cette belle verdure dont la champagne ètoit auparavant tapissèe, on n’y voyoit qu’une terre aride et sablonneuse. Questi insetti, col favore del vento gagliardo, attraversano persino il mare a volo; e in conseguenza della sterilità avenuta nell’Asia, o di una prodigiosa moltiplicazione accaduta in quell’anno nella specie di quegl’insetti, o d’un vento straordinariamente violento, che gli abbia trasportati oltre i consueti loro confini, o alfine di qualche altra cagione che non posso conoscere, giunsero essi persino a noi l’anno 1364. Se questa devastazione fosse periodica, sarebbe da temersi da’ nostri figli, che vivranno l’anno 1855. Ma tali avvenimenti o non hanno periodo, ovvero l’hanno così vasto che oltrepassa la memoria,

Ritorniamo agli orrori di quel governo, e miriamo l’altra porzione dello Stato soggetta a Galeazzo II. Dopo che egli ebbe nuovamente in suo potere Pavia, ivi collocò la sua sede, lasciando che Barnabò alloggiasse in Milano. Galeazzo non ebbe tante brighe a sostenere colle armi, quante ne ebbe Barnabò; onde, abbandonando da principio ai ministri ogni cura dello Stato, egli null’altro ebbe in pensiero, che di apparentarsi con illustri matrimoni, [p. 452 modifica]celebrare regie pompe, e cercare la fama di protettore delle lettere. Le scuole di Pavia vennero da lui fomentate e promosse, e nell’anno 1362 sembra che venisse aperta quell’Università, la quale aveva maestri di leggi canoniche e civili, di medicina, fisica e logica. Radunò una biblioteca pregevole per quei tempi, anteriori quasi d’un secolo alla invenzione benefica della stampa. Per illustrare la sua famiglia, al figlio suo Gian Galeazzo (che non aveva più di sette anni) diede per moglie Isabella di Francia, figlia del re Giovanni, bambina essa pure di pochi anni; e la pompa di questi illustri sponsali costò ben cinquecentomila fiorini d’oro, cavati con ogni sorta di mezzi dai sudditi, senza eccezione alcuna; il che non bastò a togliere la sofferenza in ciascuno d’un aggravio enorme. Maritò sua figlia Violanta con Lionetto, figlio del re d’Inghilterra Edoardo III. Galeazzo aveva Bianca di Savoia per moglie; e così la casa Visconti, in meno di sessant’anni di tempo, dalla condizione nobile sì ma privata, passò a grandeggiare a segno d’avere le più strette parentele col re di Francia, col re d’Inghilterra e col duca di Savoia. Oltre a questi oggetti sproporzionati di spese, ei si volse a fabbricare senza riguardo. In Pavia si pose ad erigere un parco di più miglia, cinto di muro; ivi aveva le cacce, i giardini, le peschiere, che ricevevano l’acqua per un cavo ch’ei fece dal Naviglio di Milano sino colà. Queste spese, e quest’abbandono degli affari pubblici, in tempi di pestilenza e di carestia, mentre una parte dello Stato soffriva le invasioni de’ nemici, produssero danni così grandi, che, malgrado l’opulenza e l’adulazione che a più giri attorniavano quel principe, ei si dovette alla fine riscuotere. Aprì gli occhi; [p. 453 modifica]e vide tutte le cariche venali occupate da vilissimi ministri; i popoli rovinati; le sue milizie mancanti di paghe; il suo erario vuoto; e i suoi pochi sudditi, esausti e languenti. In quel momento fece quello che sogliono le anime da poco; dalla inerzia passò alla frenesia. Fece impiccare il suo direttore delle fabbriche in Milano. Fece impiccare il suo direttore delle fabbriche in Pavia. Il castellano di Voghera per essere stato assente, quando quegli afflitti abitanti scossero il giogo della oppressione, fu strascinato a coda d’asino, poi fu impiccato con un suo figlio. Sessanta stipendiati, perchè furono un poco lenti nell’eseguire una commissione, furono con una sola parola condannati tutti alle forche. Indotto a far loro grazia, se ne rammaricò poi, e fece porre in carcere Ambrosolo Crivello, suo cancelliere, e lo privò d’un anno di salario, perchè era stato sollecito nella spedizione della grazia. Questi fatti ci sono attestati da più autori contemporanei. L’Azario poi ci ha tramandato l’editto col quale quel principe ordinò a’ suoi giudici qual carnificina dovessero far eseguire contro i rei di Stato. Egli immaginò il modo per far soffrire atrocissimo strazio per quarantun giorni, riducendo un uomo sempre all’agonia senza lasciarlo morire. La natura freme; Busiri e Falaride non lasciarono altretanto: Intentio domini est quod de magistris proditoribus incipiatur paulatim. Prima die quinque bottas de curlo; secunda die reposetur; tertia die similiter quinque bottas de curlo; quarta die reposetur; quinta die similiter quinque bottas de curlo; sexta die reposetur; septima die similiter quinque bottas de curlo; octava die reposetur; nona die detur ei bibere aqua, acetum et calcina; decima die reposetur; undecima die similiter aqua, acetum et calcina; duodecima die reposetur; decima tertia [p. 454 modifica]die serpiantur eis duae corrigiae per spallas, et pergottentur; decima quarta die reposetur; decima quinta die dessolentur de duobus pedibus, postea vadant super cicera; decima sexta die reposetur; decima septima die vadant super cicera; decima octava die reposetur; decima nona die ponantur super cavalletto; vigesuma die reposetur; vigesima prima die ponantur super cavalletto; vigesima secunda die reposetur; vigesima tertia die extrahatur eis unus oculus de capite; vigesima quarta die reposetur; vigesima quinta die truncetur eis nasus; vigesima sexta die reposetur; vigesima septima die incidatur eis una manus; vigesima octava die reposetur; vigesima nona die incidatur alia manus; trigesima die reposetur; trigesima prima die incidatur pes unus; trigesima secunda die reposetur; trigesima tertia die incidatur alius pes; trigesima quarta die reposetur; trigesima quinta die incidatur sibi castronum; trigesima sexta die reposetur; trigesima septima die incidatur aliud castronum; trigesima octava die reposetur; trigesima nona die incidatur membrum; quadragesima die reposetur; quadragesima prima die intenaglientur super plaustro, el postea in rota ponantur. Pare impossibile che un sovrano abbia mai dato un comando tanto infernale; pare impossibile, che alcun uomo, soffrendo questi martirii, potesse sopravivere sino al quarantesimoprimo giorno. Eppure convien dire che crudelmente si andassero applicando i rimedii, per prolungare la vita e il tormento; poichè, ci attesta lo stesso autore, che harum poenarum exequutio facta fuit in personas multorum anno 1372 et 1373. Così pensarono i principi, così furono governati [p. 455 modifica]i popoli di quella città, in cui doveva l’immortale marchese Cesare Beccaria scrivere il libro dei Delitti e delle Pene; libro sacro all’umanità, alla ragione ed alla beneficenza. I principii di sublime filosofia che l’hanno dettato; la calda e libera eloquenza colla quale si annunziano; la compassionevole sensibilità ai mali degl’infelici, assicurano all’illustre nostro cittadino, ed all’amico e compagno de’ miei studi una celebrità costante: la onorata tranquillità poi di cui gode; anzi lo stipendio e le cariche delle quali è stato decorato, serviranno agli esteri non solo, ma alla posterità, di vera dimostrazione della felicità e della gloria del governo sotto cui abbiamo la fortuna di vivere.

Sin qui Galeazzo II poteva essere sedotto da malvagi consiglieri; ma il fatto seguente lo mostra quale egli era, senza difesa. Aveva quel principe incorporato nel vastissimo suo parco di Pavia i poderi di molti, e fra gli altri d’un povero cittadino pavese che aveva nome Bertolino da Sisti. Questo povero uomo aveva una famiglia numerosa da alimentare; i figli soffrivano la fame e la miseria, mancando di quel fondo, che non gli era stato pagato. Egli si prostrò avanti del suo sovrano, implorando umilmente soccorso, e il pagamento della sua porzione di terra. Venne accolto da Galeazzo con amarissima derisione e vilipendio, e non potè ottenere compenso alcuno. Quel disperato padre di famiglia aspettò poi, nel parco istesso dove Galeazzo soleva cavalcare, il momento della vendetta, e, il giorno 24 di agosto dell’anno 1369, lo ferì, mentre passava a cavallo, in un fianco; ma la fascia cordonata di seta lo difese. Fu arrestato quel suddito; sempre colpevole, [p. 456 modifica]ma degno di commiserazione, e finì, dopo fieri tormenti, squartato dai cavalli. Coloro che esclamano contro i costumi del nostro secolo, vedano se in tutta quanta l’Europa vi sia un angolo solo in cui gli uomini siano trattati come lo erano i nostri maggiori quattro secoli sono! A che attribuirne il cambiamento? All’ardimento che alcuni ebbero di pensare e cercare il vero, indipendentemente dalle opinioni ereditate; al progresso della ragione, all’accrescimento de’ lumi; alla moltiplicazione de’ libri; al genio della coltura; a quello spirito moderato e benefico di filosofia che ha dissipata la ferocia e il fanatismo, ed ha reso gli uomini benevoli ed umani, sotto di una santa e pura religione di concordia e di pace. Rendiamo umili azioni di grazie al Dator di ogni bene, e guardiamoci da coloro che ardiscono d’insultare a que’ felici mezzi co’ quali si è operata la consolante rivoluzione. Galeazzo II aveva la bassezza di voler giuocare ai dadi co’ sudditi che avessero denaro, e godeva di rovinarli. (1377) Quel principe fece un decreto l’anno 1377 che non ha esempio, a quanto mi è noto. Egli, con un foglio di carta, annullò, cassò, rivocò tutte le grazie e dispense che aveva sin allora concesse. Il decreto è del giorno 13 di ottobre, Datum in castro nostro Zojoso, sito nel Pavese, ora chiamato Belgioioso, nel quale soleva passar qualche tempo quel principe. Che un successore revochi le grazie di un sovrano che l’ha preceduto, benchè sia cosa dura assai per chi la soffre, se ne trovano esempi, ma che un principe cancelli, così in un colpo solo, tutte le sue beneficenze, non so che sia mai accaduto altra volta. [p. 457 modifica]

Paragonando i due fratelli, pare che Barnabò avesse l’animo più forte, e Galeazzo fosse freddamente crudele. Il primo, abbandonandosi ad una collera brutale, era capace di ogni eccesso; l’altro lo era sempre, con maligna tranquillità. Barnabò dava gl’impieghi a persone che li sapessero eseguire, e sapeva tenersele affezionate e fedeli; Galeazzo, per denaro, dava le cariche a’ più inetti uomini. Barnabò era veridico e palesava i suoi sentimenti; Galeazzo non era definibile. Il primo incuteva spavento, l’altro diffidenza. Barnabò si fece scolpire in una statua equestre di marmo, e la collocò sull’altar maggiore di San Giovanni in Conca. Essa ivi si vede, ma non più sull’altare. Galeazzo pazzamente fece distruggere le peschiere, le pitture del Giotto, e tutte le belle cose ordinate da Azzone nel palazzo di corte, quae domus, diceva l’Azario, cum ornamentis et picturis et fontibus, hodie non fieret cum trecentis millibus florenis. Galeazzo faceva alzare un gran muro con molta spesa; poi, parendogli che stesse male, lo faceva demolire. Faceva delle vòlte assai grandi in mezzo del verno, e diroccavano poi; e i mattoni, le travi, la calce si prendevano, per suo cenno, ove trovavansi, senza parlare di pagamento. Galeazzo fabbricò il castello di Milano e quello di Pavia: Barnabò, quello di Trezzo. Nessuno di questi due atroci fratelli ebbe commensali, come solevano averne Azzone, Luchino e Giovanni. Costoro offendevano un numero sì grande di persone, che non era poi loro fattibile la scelta di alcuni fra’ quali passare giocondamente le ore. Barnabò pagava esattamente i suoi stipendiati, e non permetteva che facessero estorsioni; Galeazzo trascurava [p. 458 modifica]di pagarli, e non badava alle loro angherie. Durante tale governo, i due successivi arcivescovi Guglielmo della Pusterla e Simone da Borsano non posero piede mai nella loro diocesi; sia che ciò nascesse per le dissensioni col papa; sia che, per godere le rendite dell’arcivescovato, i principi non volessero concederne a quei prelati il possesso; sia finalmente che la meschina vita che sotto a quel governo vi dovette passare l’arcivescovo Roberto Visconti, fatto porre in ginocchio per ascoltarsi il nescis, poltrone, di Barnabò, avesse fatto perdere il coraggio ai successori di presentarsi a vivere sotto quei terribili sovrani, animati anche contro degli ecclesiastici; i quali, con un editto di Barnabò, venivano obbligati a porsi in ginocchio tosto che l’incontravano per le strade, e, non solamente dovevano contribuire la porzione d’ogni tributo al paro di ciascun altro cittadino, ma dovevano portare il più delle tasse che quei sovrani arbitrariamente imponevano sul clero. (1378) Galeazzo II morì in Pavia il giorno 4 di agosto dell’anno 1378, dopo di aver regnato ventiquattro anni; e successe ne’ suoi Stati Giovanni Galeazzo, di lui figlio, che portava nome il conte di Virtù, per un feudo che gli era stato dato nella Francia, per dote della principessa Isabella.

Prima di terminare questo capitolo, credo di far cosa grata a’ miei lettori, informandoli d’un curioso dialogo che ebbe Barnabò con un villano, da cui non venne conosciuto. Io lo tradurrò, perchè la storia della patria può interessare anche persone che non sappiano il latino. Ho dovuto inserire anche troppi squarci, scritti in tal lingua, o per contestare l’autenticità dell’asserzione, o per non diventarne io medesimo responsabile, ovvero per non annunziare colle mie parole, cose che mi sarebbe [p. 459 modifica]dispiaciuto di dover dire. Il dialogo si trova nella Cronaca di Azario, e consiglio ai curiosi lettori di vederlo nel suo originale; perchè frammezzo a quella trascurata e rozza latinità, vi è certo lepore ingenuo, e una certa domestichezza di frasi che piacciono sommamente e dipingono il costume. Barnabò soggiornava parte dell’anno in Marignano; i contorni erano ancora pieni di boschi ed opportuni alla caccia, e questo era il motivo per cui Barnabò amava di trattenervisi. Egli a cavallo ben sovente si allontanava dalla comitiva, e s’innoltrava solo nel più interno de’ boschi. Un giorno fra gli altri aveva smarrita ogni traccia, nè sapeva più d’onde uscirne per ritornare al suo albergo. La stagione era assai fredda; l’ora avanzata, e rigido il verno. Per caso Barnabò s’avvide che taluno era in quel bosco. S’accostò, e riconobbe ch’era un povero contadino, assai lacero, che s’affaticava a tagliar legna. Ecco il dialogo che con lui tenne Barnabò: Il cielo t’aiuti, galantuomo. - Villano: Ne ho bisogno. Con questo freddo ho potuto far poco. L’estate è ita male. Potesse almeno andar meglio l’inverno! - Barnabò, scendendo dal suo cavallo affaticato: Amico, tu dici che la state è ita male; e come? L’annata è stata anzi felice; vi è stato abbondante raccolto di grano, vendemmia abbondante. E che t’è ito male? - Villano, mentre continua a tagliar la legna: Oh abbiamo di bel nuovo il diavolo per nostro padrone. Si sperava che allorquando venne scacciato il signor Bruzio Visconti, il diavolo fosse morto; ma ne è comparso un altro peggiore ancora. Costui ci cava il pane di bocca. Noi poveri Lodigiani lavoriamo come cani, e [p. 460 modifica]tutto il profitto colui ce lo carpisce. - Barnabò: Certamente, quel signore opera male assai... ti prego, guidami, amico, fuori del bosco; l’ora è tarda: la notte è vicina; e m’immagino che tu ancora non avrai tempo da perdere, se brami ritornartene a casa tua. - Villano: Oh! per andare a casa non ho alcun pensiero. L’imbroglio, padron mio, sarà a ritrovarvi da cenare; e davvero ho gran paura che non ne faremo nulla; mia moglie e i miei figli gli ho lasciati a casa con poco pane. - Barnabò: Ebbene conducimi fuori del bosco, e guadagnerai qualche cosa. - Villano: Tu mi vuoi distrarre dal mio lavoro... saresti tu mai uno spirito infernale... i cavalieri non vengono per questi boschi... sia tu chiunque ti piaccia, pagami prima, e ti scorterò dove vuoi. - Barnabò: Ebbene cosa vuoi ch’io ti dia? - Villano: Un grosso di Milano. - Barnabò: Fuori che saremo dal bosco ti darò il grosso, e ancora di più. - Villano: Oh sì domani! Tu sei a cavallo, e fuori che tu sia dal bosco, prendi il galoppo, ed io rimango come un cavolo! Così fanno gli ufficiali di quel diabolico nostro padrone; vengono scalzi, e ruban poi tanto, che passeggiano come grandi signori a cavallo. - Barnabò: Amico, poichè non mi vuoi credere, eccoti il pegno, e gli diede la fibbia d’argento che aveva alla cintura. Il villano se la gettò in seno nella camicia, e cominciò a precedere per uscire dal bosco; ma, stanco come era, camminava lentamente. - Barnabò: Galantuomo, monta in groppa sul mio cavallo. - Villano: Credi tu che quella rozza potrà reggere a due! Tu sei tanto grosso! - Barnabò: O, benissimo; porterà te e porterà me; tanto più che, a quanto dicesti, non hai mangiato troppo a pranzo. - Villano: tu dici il vero... proviamoci; [p. 461 modifica]e qui si pose a sedere in groppa, e mentre così proseguivano attraverso del bosco, continuò Barnabò: Amico, tu mi hai date delle cattive nuove del tuo padrone: e del signor Barnabò, che sta in Milano, che se ne dice? - Villano: Di lui se ne parla meglio. Benchè sia feroce, egli almeno fa osservare l’ordine; e s’egli non fosse, non avremmo osato nè io nè gli altri poveri entrar nel bosco a tagliar legna, per timore degli assassini. Il signor Barnabò fa osservare esatta giustizia, e quando promette, mantiene. Ma quest’altro che sta in Lodi, fa tutto al contrario. E così, proseguendo il discorso, gli riferì come un castellano gli aveva rubato un pezzo di terra ed alcuni pochi mobili; indi, usciti che furono dal bosco, disse il villano: Signore, tenete la campagna da questa banda, la notte viene, fate presto, perchè altrimenti vi potrete trovare in mezzo d’una strada. - Barnabò: Amico, mi vorresti gabbare, e con questo bel modo portarmi via la fibbia. - Tremava di freddo il villano, perchè a piedi almeno si riscaldava, e sedendo era, senza moto, esposto al rigore della stagione, e disse: Per Dio! non mi ricordava nemmeno più della fibbia; prendetela, signore. Se mi volete dar qualche cosa per amor di Dio, fatelo; se non vi piace, il cielo vi aiuti, e andate colla vostra fibbia. Correrei pericolo d’essere impiccato, se questa fibbia si ritrovasse presso di me; si direbbe che l’avessi rubata. Tenetela. Credo bene che, se mi volete fare la carità, non vi mancano in tasca denari. - Barnabò: Amico, fa a modo mio; accompagnami ad un albergo e ti prometto un grosso, e di più un buon camino per riscaldarti, e poi anco di più una buona cena: e così domattina di buon’ora tornerai da tua moglie. Il villano si [p. 462 modifica]consolò pensando a questi beni, e come la mattina vegnente con quel grosso avrebbe potuto comprare dodici pagnotte e darle alla sua povera famiglia. Scese dalla groppa e riprese il cammino, calpestando le stoppie attraverso de’ campi; e Barnabò cavalcava dietro lui. - Barnabò: E dove anderemo noi ad albergare? - Villano: Andremo a Marignano; vi sono delle buone osterie; vi si può entrare giorno e notte, e alloggeremo bene, e noi ed il cavallo, che mi pare ne abbia bisogno. - Barnabò: Dici bene. E da questo tuo Marignano siamo noi molto discosti? - Villano: Cosa ti preme? Se non vi giugneremo di giorno, vi giugneremo di notte. Non t’ho dett’io che ivi non si chiudono le porte! - Barnabò: Va dunque, sia come tu vuoi. Così proseguendo con tai discorsi il cammino, si videro da lontano comparire molte e grandi fiaccole, e Barnabò disse: Vedi tu que’ fanali e tante faci? - Villano: Le vedo. - Barnabò: E che vuol dir questo? - Villano: Vuol dire che vanno cercando il signor Barnabò, che tante volte s’innoltra nei boschi per amore della caccia; vuole essere solo, si perde, e i suoi domestici poi vanno la sera facendo de’ fuochi, acciocchè veda per dove possa ritornarsene. - Barnabò: S’ella è così, fanno bene: è segno che quei domestici hanno premura pel loro padrone. Discorrendo per tal modo s’andarono accostando a quei che portavano le faci; e tosto che questi videro Barnabò, scesero da cavallo; e salutato con riverenza quel sovrano (inclinatis capuciis, dice Azario), e rispettosamente attorniando lui e il villano, tutti giunsero a Marignano. Allora il povero villano s’avvide qual fosse l’uomo col quale aveva fatto il dialogo. Desiderava di essere già morto; tanto timore aveva de’ tormenti che s’ [p. 463 modifica]aspettava di dover patire nel castello di Marignano! Giunti che vi furono, il signor Barnabò, scoppiando dalle risa, raccontò a’ suoi domestici tutta l’avventura; e ordinò che il villano, tal quale era, stracciato e sporco, fosse condotto in una sala, e se gli accendesse un gran fuoco. Poichè fu ben ristorato dal freddo, fu chiamato il povero villano a cena; e dovette sedere di contro al signor Barnabò. Essi due soli sedevano; e volle che il villano venisse in tutto servito come egli lo era. Il contadino non voleva tanti onori; tremava; e Barnabò: son galantuomo, mantengo la parola. Ti ho promesso un buon fuoco, e te l’ho dato. Ti ho promessa una cena, e te la mantengo. Ti ho promesso un grosso di Milano, e domattina l’avrai. - Villano: Ah! signore, misericordia! io ho parlato da stolido qual sono! sono un povero uomo, che vive nei boschi solitario, non so quello che convenga di parlare: per pietà, mi lasciate partire: per carità, perdonatemi. Il villano combatteva fra lo spavento e la fame, stimolata da’ cibi insoliti; e la fame la vinse; mangiò bene assai. Poscia venne congedato dal principe, e condotto in una bella stanza; lavato con un bagno tepido, posto a dormire sopra di un magnifico letto; e la vegnente mattina fu condotto avanti del signor Barnabò, che gli disse: Ebbene, amico, come hai passata la notte? - Villano: Come in paradiso; ma, con vostra buona grazia, vorrei andarmene. - Barnabò: Se così ti piace, vi consento; indi rivolto ad un suo cameriere: dagli un grosso; e questi immediatamente lo consegnò al villano, poi Barnabò: La mia promessa ora è compiuta; pure ti ho lasciato sperare qualche cosa di più; cercami quella grazia che brami. - Villano: Signore, basta che mi lasciate [p. 464 modifica]partire vivo e sano. - Barnabò: Questo lo accordo; chiedi qualche altra grazia. - Villano: Se mi faceste restituire il mio piccolo podere toltomi dal castellano... subito facegli dare lettere colle quali il villano riebbe il suo, e tranquillamente se ne ritornò allo stato di prima. L’Azario, che allora viveva e che ci ha tramandata la memoria di questa scena, non ci riferisce chi fosse il governatore di Lodi che era succeduto a Bruzio Visconti. Questo avvenimento ha tanto verosimiglianza, che lo credo veramente accaduto; e Barnabò avendolo subito raccontato ai suoi cortigiani, è naturale che venisse poi divulgato come una novella di quel tempo. Non avranno trascurato alcuni d’interrogarne il villano medesimo, e così potrà essersi ancora più esattamente risaputo. Il carattere di Barnabò mi pare che vi sia dipinto al vivo. Non permetteva egli che si commettessero vessazioni ed ingiustizie; amava la sicurezza e l’ordine, manteneva la parola data. Ma un buon principe non avrebbe impresso nel cuore dei sudditi uno spavento generale, a segno che, per qualche incauta parola, temessero d’essere condannati alla carnificina, da lui medesimo, nel di lui palazzo. Nessun principe oggidì avrebbe piacere di far soffrire a quel meschino la barbara incertezza che lo tormentò per tante ore; e la prima parola gli annunzierebbe ilarità e pace. Poi lo sborso di un grosso, ossia il solo valore di dodici pagnotte, oggidì sembrerebbe affatto indecente. Il povero villano aveva dovuto lasciare la moglie ed i figli con poco pane; stanco e mal pasciuto, aveva camminato per ricondurre il sovrano senza sapere ch’ei fosse altro che un uomo; meritava adunque qualche cosa di più d’un grosso. Se il fatto fosse accaduto alla maestà dell’adorabile augusto [p. 465 modifica]bile Augusto Giuseppe II, o ad alcuno de' Reali Arciduchi, la sera medesima avrebbe la famiglia del villano avuto di che cenare; e in vece di tremare, come avrà fatto, avrebbe sparse lagrime di tenerezza, benedicendo la sovrana pietosa munificenza. Non bastava poi alla giustizia la restituzione del podere rubato dal castellano. Un principe buono non si sarebbe determinato a cosa alcuna colla esposizione d'un solo. Avrebbe disposte le cose in modo d’essere esattamente informato del fatto, e d’ascoltare anche il castellano, per dargli campo a giustificarsi; indi, s’egli aveva oppresso una povera famiglia, non bastava disfare il mal fatto. Voleva il ben pubblico che quel prepotente venisse contenuto per l’avvenire, e col suo esempio allontanasse i suoi pari dal meditare altrettanto. Nè avrebbe mancato un principe buono, di prendere informazione sul governatore di Lodi, e sugli ufficiali rapaci che l’attorniavano. Barnabò, anche in questa scena, manifesta un carattere duro, insensibile, atroce ne' momenti istessi della giocondità, ed appare violento, e niente addottrinato nella scienza di governare.



VERRI. Stor. Mil. T. I.
  1. Decreta Antiqu. Mediol. Ducum, pag. 34.
  2. Corio all'anno 1374.