e onesto, natura soave e tranquilla. Ma perchè un contenuto sia poetico, non basta sia nell’animo come un mondo abituale e tradizionale, a quel modo che era nel Chiabrera: dee essere passione, che stimoli l’immaginazione e svegli la meditazione. Una passione l’ha il Chiabrera, e non è pel contenuto, a lui indifferente, quale esso sia, ma per le forme. Dico forme, e non forma, perchè a lui manca pure quel senso della bellezza e della forma, che fa grandi i nostri artisti del cinquecento. Perciò gli fa difetto ogni qualità di poeta e di artista, la fede del contenuto e il senso della forma. Ha pure in grado mediocrissimo quel senso musicale, che natura concede così facilmente a italiani, sgraziato nell’intreccio delle rime e nella combinazione de’ suoni e talora dà in dissonanze e stonature. La sua idea fissa è di trovare, come Colombo, un mondo nuovo, e parve ai contemporanei ci fosse riuscito, sì che Urbano scrisse sulla sua tomba: novos orbes poeticos invenit. Mondi nuovi poetici ci erano allora, ed erano i mondi che creavano Camoens, Cervantes, Montaigne, Shakespeare e Milton. Ma in Italia, mancata ogni vita interiore, la novità era nelle forme, ed esausto il mondo latino, il Chiabrera si mise a cercar novità nel mondo greco: thebanos modos fidibus Hetruscis adaptare primus docuit, dice Urbano. I quali modi tebani sono le strofe, l’antistrofe e l’epodo, accozzamenti di parole fuor dell’usato, costruzioni artificiali, una certa moralità astratta e volgare, una sobrietà e semplicità di colori. Forme meccaniche, le quali non vengono da virtù interiore, ma sono pura imitazione. Anzi niente è più lontano dallo spirito del Chiabrera che la bellezza greca, quel candore, quella grazia, e quella semplicità; e spesso la sua semplicità è aridità, il suo candore è volgarità, e la sua grazia è cascaggine; affettato e pretensioso in quei modi e in quelle forme che presso i greci sono vezzi natii, veggasi il suo Ditirambo. Del resto,