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Pari a lei di fama e di genio e di virtù fu Vincenza Armani, di Venezia, scrittrice e attrice, che ne’ drammi pastorali rappresentava la parte di Clori. La parte del Dottore fu resa celebre dal Graziano, e Arlecchino ebbe il suo grande interprete in Giovanni Ganassa, da Bergamo, che nel 1570 introdusse nella Spagna la commedia dell’arte come Flaminio aveva fatto a Parigi e a Londra. Il Roscio del secolo fu il Verato, di Ferrara, celebrato dal Tasso e dal Guarini, che intitolò dal suo nome un’apologia del suo dramma. La commedia dell’arte non era altro se non la stessa commedia erudita tolta di mano agli accademici e rinfrescata nella vita popolare, maneggiata da scrittori meno dotti, ma più pratici del teatro e più intelligenti del gusto pubblico, perciò più svelta e vivace nel suo andamento, e rallegrata da quello spirito che viene dall’improvviso e dall’uso del dialetto, non senza cadere a sua volta nel vizio opposto alla pedanteria, ne’ lazzi sconci degli arlecchini. Di essa non sono rimasti che gli scheletri; tutto ciò che vi aggiungeva l’immaginazione improvvisatrice vive solo nell’ammirazione de’ contemporanei.

Accanto al comico e al romanzesco si sviluppava il sentimento idillico, con tanto più forza quanto la società era più artificiata e raffinata. L’idillio si presentava come contrasto tra l’onore e l’amore, tra la città e la villa, tra le leggi sociali e le leggi della natura. Naturalmente è l’amore o la natura che vince. La felicità posta nell’età dell’oro, cioè a dire fuori de’ travagli e delle agitazioni della vita reale, nel riposo o tranquillità dell’anima, la vita rustica con quelle bellezze della natura, con quella vita di godimenti semplici, con quella spontaneità e ingenuità di sentimenti, era quel naturale contrapposto di un mondo convenzionale, che senti nell’Aminta e nel Pastore di Erminia. L’ideale poetico posto fuori della società in un mondo