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del Guidi:
Questa è la man che fabbricò sul Gange
I regni agl’Indi, e sull’Oronte avvolse
Le regie bende dell’Assiria a’ crini;
Pose le gemme a Babilonia in fronte,
Recò sul Tigri le corone al Perso,
Espose al piè di Macedonia i troni.
Tra’ verseggiatori più preziosi e affettati è da porre il Lemene, e tra’ più civettuoli e fioriti Giovambattista Zappi. La degenerazione del genere si vede nel Frugoni, il più vuoto e il più pretensioso.
Spettacolo assai istruttivo è questo di un popolo che per parecchie generazioni spende tutta la sua attività intorno a quistioni di forme, ed erge a suo obbiettivo la parola in sè stessa, staccata da ogni contenuto. Che è divenuta Firenze, la madre di Dante, di Michelangiolo e di Machiavelli? Eccola, quale è vantata dal Filicaia:
Qui del puro natio dolce idioma
L’oro s’affina, e se non è a’ dì nostri
Spenta la gloria de’ toscani inchiostri,
Forse invidia ne avranno Atene e Roma
Qui d’ogni voce il peso, il senso, il suono
A rigoroso esame ognor si chiama,
E il reo si purga e si trasceglie il buono
Onde l’alto valor fregia e ricama
La gran maestra del parlar, che trono
Erge a sè stessa, ed a sè stessa è fama.
Firenze è la gran maestra della parola. Là è il suo trono e la sua fama. E qual maraviglia che gli uomini di qualche ingegno, trovando insipida e invecchiata la parola l’ornano, l’aguzzano, l’imbellettano, e, come dice il Filicaia, vi fanno intorno fregi e ricami? Nè ci è coscienza che con tanto liscio al di fuori, con tanta