Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro II
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LIBRO SECONDO.
(anno 1759 sino al 1790.)
CAPO PRIMO.
Minorità del re.
I. Al fluire dell’anno 1759 essendo re, come ho riferito nel primo libro, Ferdinando Borbone nella età che non compiva gli otto anni, furono reggenti Domenico Cattaneo principe di san Nicandro; Giuseppe Pappacoda principe di Centola, Pietro Bologna principe di Camporeale, Michele Reggio balì di Malta e generale di armata, Domenico Sangro capitan-generale dell’esercito, Jacopo Milano principe di Ardore, Lelio Caraffa capitano delle guardie, e Bernardo Tanucci. Il re ebbe titolo di Ferdinando IV re delle due Sicilie e di Gerusalemme, infante di Spagna, duca di Parma, Piacenza e Castro, gran principe ereditario di Toscana. I reggenti allevati nelle pazienze del viceregno, quindi usati alle servitù della corte, oggi cadenti per vecchiezza, tra loro il solo Tanucci prendeva il carico degli affari ed era tenuto la mente della reggenza, del quale onore non ingelosivano gli altri perché inesperti, scevri delle ambizioni di governo, soliti obbedir lui, che per natura e non contrastata potestà si mostrava mansueto e riverente. Ajo del re lo stesso principe di San Nicandro, onesto di costume, ignorante delle scienze o lettere, unicamente voglioso di piacere all’allievo; e persuaso dal Tanucci a non alzare l’ingegno del giovine principe , meglio convenendo a re di piccolo stato godere in mediocrità di concetti le delizie della signoria.
Alla mestizia vera della reggia e della città per la partenza di Carlo succederono i segni di allegrezza per lo innalzamento del successore; il quale rimettendo le pene a parecchi delitti, fece liberi molti prigioni, assicurò più rei, e dopo ciò, con fasto e cerimonie regali assistè nel duomo agl’inni di grazie cantati nella cappella di San Gennaro. Quindi la reggenza comandò che la baronia, i magistrati, i deputati della comunità fossero in certi giorni a palazzo per riconoscere il nuovo re, e giurargli fede ed obbedienza. Tutti accorsero; e confidando ne’ ricordi del padre, nel consiglio del buon ministro, e nel prospetto di lunga pace, speravano regno mansueto e felice. Poscia il re, seguendo l’esempio de’ predecessori, chiese al pontefice la investitura del regno; e, concordata, prestò il dì 4 di febbrajo del 1760, in iscritto e con la voce del cardinale Orsini suo legato, il giuramento chiamato «di omaggio e di vassallaggio al sommo pontefice; e di non procurare di essere eletto in re imperatore de’ Romani, oppure re di Germania, signore della Lombardia e della Toscana; e nel caso vi fosse eletto, non vi presterebbe alcun consenso,»
II. La reggenza governava co’ precetti di Carlo antichi e nuovi, perciocchè da Spagna venivano comunicati al Tanucci, sotto forma di suggerimenti, e pur talvolta di comando. Il quale privato carteggio agevolò i disegni del ministro con fare i reggenti vieppù arrendevoli al suo giudizio in certe imprese disapprovate dalla coscienza; erano le libertà dalla curia romana, ossia l’affrancare l’impero dal sacerdozio, e soggettare all’impero i sacerdoti del regno; le quali ragioni di stato si tenevano a peccato dalle anime plebee di que’ reggenti: ma una servitù vincendo l’altra, prevaleva il vero o supposto comando di Carlo al tacito consiglio della coscienza. E così lo scorto Tanucci, per dispacci, ordinamenti, decisioni della reggenza, tanto mutò dall’antico, e tante novelle relazioni e bisogni civili compose, che il re divenuto maggiore in libera sovranità non poteva disfare le cose fatte senza produrre all’universale danni e disordini. Fu perciò necessario a Ferdinando durare e procedere nello irrevocabile cammino; cosicchè io raccogliendo ciò che in materie giurisdizionali fu operato ne’ trent’anni descritti in questo libro. avrò rappresentato il senno di un sol uomo, il Tanucci.
Dirò per sommi capi le prammatiche della reggenza e del re su le quistioni con la curia romana. I ministri regii provvidero agli spogli ed ai beni de’ trapassati vescovi, abati, benefiziati; le entrate delle sedi vacanti furono addette ad opere di civile utilità.
Furono soppressi parecchi conventi; due in Calabria, ricettacoli di malviventi, uno in Basilicata, quattro in Puglia, tre in Abruzzo, ventotto nella Sicilia, per motivi diversi o per esercizio di sovranità. I beni di que’ conventi andarono al comune.
Le decime ecclesiastiche, prima ristrette, poi contrastate, finalmente abolite.
E dipoi, rimossi gli ostacoli e preparate le coscienze a legge di maggior momento, furono interdetti gli acquisti alle mani-morte; dichiarati mani-morte i conventi, le chiese, i luoghi pii, le confraternite, i seminarii, i collegi; ed acquisti, ogni nuova proprietà, l’accrescimento delle case o de’ conventi, la fondazione di nuove chiese o cappelle, i patrimonii de’ preti e le doti delle monache oltre i limiti della legge, le limosine per feste, per processioni, per messe. La provvida legge vietò a’ notari di scrivere testamenti che apportassero nuovi acquisti a quelle mani; impedì le permute; agguagliò a censi le enfiteusi a tempo, i lunghi affitti e gli affitti rinovati a’ locatori medesimi; talchè Le mani-morte conservassero il canone, perdessero la proprietà.
I quali provvedimenti superiori alla civiltà comune, erano contrastati dalla ignoranza del popolo, dalla scaltrezza de’ cherici. Donna divota nominò nel testamento sola erede l’anima sua. Trapassato di subita morte Giovan Battista Latilli di Bitonto, il vescovo e ’l parroco fecero insieme il testamento dell’anima, legando buona parte del patrimonio a celebrazione di messe; testamento simile fece il vescovo di Bisceglia per l’anima di Francesco Pascullo, ucciso; ed altro ne fece in Pisticce il vicario della diocesi per l’anima del sacerdote Lisanti, morto intestato. Tutti furono dal governo rivocati, biasimati i vescovi, e con legge i teslamenti all’anima e dell’anima proibiti. Succederono gli eredi legittimi; e poichè al Pascullo mancavano, ereditò la comunità di Bisceglia.
III. Così provvide a scemare le soperchie ricchezze della Chiesa, altre leggi abbattevano le pretensioni chiamate da’ pontefici diritti, e di queste leggi riferirò gli effetti. Fu allargata la giurisdizione laicale, e altrettanto ristretta la ecclesiastica, ed al tribunale misto, ed al delegato della giurisdizione regia (magistrati noti per il primo libro) si aggiunse un avvocato della corona, vigilatore alle ragioni della sovranità.
Fu minuito il numero de’ preti, il dieci per mille anime praticato da Carlo diventò legge dello stato; dipoi annoverarono fra i dieci i frati sacerdoti, e finalmente il dieci si ridusse al cinque.
Non si ordinavano preti o diaconi se mancavano del patrimonio, nè il patrimonio potevasi accrescere o stabilire a danno delle famiglie.
Vietavasi al figlio unico il chericato; ed alla casa che aveva un prete, il secondo.
Si dichiarò cassa qualunque bolla o carta del pontefice, nuova, antica, antichissima, non fosse validata del regio assenso: nè basterebbe a legittimarla (sono parole dell’editto) l’uso, la pazienza, o il sommo de’ passati monarchi. Il regio assenso fu difinito: Rtegalia inalienabile che non mai si prescrive o si presume. E in altri editti, le concessioni di natura ecclesiastica, fatte o assentite dal re, si sciolgono a piacimento dello stesso re, o de’ re successori. Le volontà de’ fondatori si sopprimono, si commutano a beneplacito del re. Gli ecclesiastici dipendere dal re e da’ suoi magistrati, e non essere su la terra dignità che abbia diritto o possanza di derogare alle sentenze sopradette.
Le quali applicate a molti casi, e ripetute negli atti del governo, stabilirono a poco a poco le pratiche e le opinioni ne’ giudizii de’ magistrati, e nell’animo de’ popoli. Quindi il divieto di ricorrere a Roma senza il regio permesso; quindi le provviste de’ benefiziati fatte dalla cancelleria romana, annullate dal re; impedite le concessioni de’ pontefici sopra le rendite de’ vescovi; impedito al papa congiungere, separare, multar confini alle diocesi; abolite le regole della cancelleria romana; non accettar nunzii se non approvati dal re. Il matrimonio definito contratto civile per natura, sacramento per aecessione; le cause matrimoniali, di competenza laicale; o, se de’ vescovi, per facoltà delegata dal principe. E se n’ebbe pruova nel matrimonio del duca di Maddaloni, che voleva risolversi per caso preveduto dal concilio di Trento. Il nome, il grado, la ricchezza degli sposi fecero quella causa la più famosa del tempo, così che il nunzio voleva trattarla nel tribunale della nunziatura; ma il re, nominato il magistrato a deciderne, confermò essere i matrimonii patti civili.
IV. Crebbero per le cose dette le facoltà dei vescovi, ma in danno di Roma; perciocchè nello interno l’autorità vescovile fu ristretta e abbassata. Venne a’ vescovi proibito d’ingerirsi nella istruzione pubblica, e di stampare scritti non sottomessi alla censura comune ed approvati dal re. Vietate le censure de’ vescovi, vietati i processi per lascivie, interdette le carceri. Dipoi soppresse le immunità personali, proibite le questue, soggettate a tariffa le sportule ecclesiastiche, francati i luoghi pii dalle prestazioni a’ vescovi, rivocate per sempre certe esazioni che i vescovi facevano da origine tanto vetusta che dimenticata; e si diceva nel decreto: Il vescovo come prepotente non prescrive.
Qui rammento che nel 1746, tentata dal papa e dal cardinale Spinelli la introduzione del tribunale del santo-uffizio, mosso il popolo a tumulto, non si ebbe quiete prima che scomparissero le cose e i segni del tribunale abborrito, e non fossero eletti (a sicurtà dell’avvenire) quattro del popolo col nome e ‘l carico di deputati avverso al santo-uffizio. Questi medesimi, dopo la partenza di Carlo, dimandarono al re successore la conferma di que’ privilegi accordati con gli antichi re, per le preghiere, i tributi ed i tumulti del popolo. E la reggenza, sollecita di contentare la onesta dimanda, riprodusse gli editti medesimi di Carlo confermati e giurati dal successore. Così ella stessa, poco innanzi la maggiorità del principe (dicendo a’ magistrati che vegliassero alle ragioni della sovranità, affine d’impedire che le male usanze della corte romana, svette a stento dalla sapienza de’ due regni borbonici, si rallignassero), impose l’obbligo alla regal camera di Santa Chiara, al delegato della giurisdizione regia, all’avvocato della corona, d’instruire per dotte popolari scritture i reggitori e i soggetti ne’ veraci dogmi della religione di Cristo, e tornare in concordia l’impero, il sacerdozio, il giudizio de’ magistrati, la coscienza de’ popoli.
V. Si operavano le dette cose mentre il principe di San Nicandro provvedeva alla sanità ed agli studii del re, il quale nato con felicità di robustezza, e dedito agli esercizii della persona, acquistando tuttodì gagliardia, inchinava alle pruove di forza; secondato dal precettore che andava superbo di quella corporale valetudine. Furono ravvivate le ordinanze per la caccia, rammentate le pene, anche i tratti di corda a’ trasgressori, popolati i boschi di fiere, moltiplicati i custodi, e, avanzando lo stesso genio smodato di Carlo, aggiunte altre foreste alle antiche. Aveva il re dodici anni, Gli esercizii e i diletti consumavano molte ore del giorno, e svagavano la mente dagli studii. Gli uomini di più fama e dottrina erano suoi maestri; ma ora il tempo, ora mancando il volere, nessuno o raro l’insegnamento, si vedevano crescere del re la forza e l’ignoranza, pericoli dello stato nell’avvenire.
Fanciullo, non soffriva conversar co’ sapienti, e fatto adulto, ne vergognava. Godeva mostrare o narrare come sapesse abbattere cignali o cervi, colpire a volo uccelli, frenar destrieri, essere sagacissimo alla pesca, primo alla corsa; talenti millanterie da barbaro, tenuti a pregio da genti del popolo educate a costume spagnuolo. Coll’andare degli anni avanzava il gusto incivile del re; e adulto appena (a sedici anni) divenuto libero sovrano di ricca e grande monarchia sperdeva il tempo ne’ piaceri della giovinezza e del comando tra giovani, come lui, atleti e ignoranti. l’attitudine a quelli esercizii. la forza, il vivere dissipato, i gusti plebei, divennero ambizioni de’ soggetti, e tanto più de’ nobili, compagni al re o da lui ammirati nella corte. E tanto si appresero all’animo di lui quelle barbare costumanze che non bastò a sbandirle lunga età, e regno pieno di varie fortune. Era già marito e padre quando in Portici, dopo ammaestrati al maneggio dell’armi certi soldati che nominò Liparotti, alzava bettola nel campo, e con vesti ed arnesi da bettoliere ne faceva le veci, dispensando cibo e vino a poco prezzo, mentre i cortigiani e talvolta la moglie simulavano della bettola i garzoni e la ostessa. Altra volta giuocando a pallone, vedendo tra spettatori giovine macro e stentato, bianco il capo di polvere, con veste lucida e nera di abate, volle per ingiurioso diletto farne spettacolo di riso; e piegatosi all’orecchio di un cortigiano, fu veduto questi partirsi e tornare con coperta di lana, che quattro de’ giuocatori più gagliardi (il re tra loro) distesero tirandola per le punte: e subito l’abate preso da servi o manigoldi, trasportato nell’arena del giuoco, messo per forza su la coperta, balestrato in aria più volte ricadeva sconciamente tra le risa e le grida di plebaccia e di re, che presagivano altre feste popolari e feroci. Essendo quello abate il signor Mazzinghi, nobile fiorentino, ln corte di Toscana fece lamentanze alle corti di Napoli e di Spagna; ma non potendo ragion privata disturbare la concordia de’ regnanti, spettava alla istoria vendicare il Mazzinghi. Il quale fuggendo la inospitale città, e vergognando di tornare in patria, fermato a Roma dopo alcuni mesi di melanconia si morì.
Più volte all’anno, dopo la pesca ne’ laghi di Patria e del Fusaro, il re vendeva il pesce, serbando pratiche, aspetto ed avarizia di pescivendolo. Le malattie o le morti nella famiglia, le guerre infelici, le sventure di regno, la perdita di una corona, nol distoglievano dalla caccia nè da’ giuochi villani, siccome andrò narrando nel corso della istoria. I quali esercizii, e la conseguente stanchezza, e l’ozio, e ‘l molto cibo, e il sonno prolungato, riempiendo tutte le ore del giorno toglievano il tempo a coltivare la mente o a governare lo stato. Non mai per vaghezza di studii o per pubblici negozii leggeva libro o scrittura; e come nella minorità la reggenza guidava il regno, così quando ei fu libero lo guidavano i ministri o la moglie. Apportandogli tedio sottoscrivere del suo nome gli atti d’impero, li faceva in sua presenza segnare con sigillo a stampa che gelosamente custodiva. Impaziente alle funzioni della mente, fastidiva i consigli di stato; raro li chiamava, presto li discioglieva; vietando i calamai per ischivare la tardità dello scrivere. Nelle quali particolarità essendo le cagioni di molti fatti, ho voluto trattenermi ne’ principii del libro, acciò i racconti non tornino incredibili o maravigliosi.
VI. Nell’anno 1763 per iscarso ricolto di biade i reggitori si affrettarono a provvedere l’annona pubblica. i cittadini la privata; ma volse in danno il rimedio; però che il molto grano messo in serbo, soccorrendo i bisogni avvenire; trasandando i presenti, fece la penuria nel cominciar dell’anno 1764 certa ed universale, Le inquietudini e i lamenti del popolo, i falli del governo, l’avidità de’ commercianti, e i guadagni che vanno congiunti ad ogni pubblica sventura, produssero danni maggiori e pericoli; si vedevano poveri morir di stento; si udivano votati magazzini o forni; poi furti, delitti, rapine innumerevoli. La reggenza, prefiggendo alle biade piccolo prezzo in ogni terra o città, desertò i mercati; dicendo non vera la penuria ma prodotta da monopolisti, concitò turbolenze; e disegnando a nome certi usurai, furono uccisi. Spedì nelle province commissarii regii e squadre di armigeri a scoprire i depositi di frumento, metterlo a vendita ne’ mercati, e punire (diceva l’editto) gli usurai nemici de’ poveri. Capo de’ commissarii con suprema potestà era il marchese Pallanti, che a mostra di rigorosa giustizia, faceva alzare le forche ne’ paesi doye poco appresso ci giungeva con seguito numeroso ed infame di birri e carnefice. Nessun deposito fu scoperto, però che tutti i magazzini erano stati innanzi vuotati dal popolo; nessun uomo restò punito perchè non mai vero il monopolio; quelle provvidenze valsero a palesare la stoltizia del governo, e accrescere nella plebe la disperazione e il disordine. S’ignora quanti morissero di fame, e quanti ne’ tumulti; gli uni e gli altri non computati per negligenza, o non palesati per senno del governo. Finalmente, saputa ne’ mercati stranieri la fame di Napoli, vennero con gara di celerità molte barche di grano, e la penuria cessò. Allora nuova prammatica sciolse i contratti della carestia, riducendo a prezzi bassi ed a condizioni prescritte le cose innanzi pattovite per comune volontà e interesse; ed altra prammatica rimise le colpe (furti, spogli, omicidii) commesse per causa di penuria. Tutte le dottrine di stato, tutte le giustizie furono conculcate.
Nè i riferiti avvenimenti ammaestrarono la reggenza; per lo contrario, divenuta più timida, accrebbe negli anni seguenti le provvigioni dell’annona, vietò l’uscita a’ prodotti nativi del regno, doppiò la povertà. E però i cittadini migrando a stuoli non che a famiglie, fecero necessario nell’aprile del 1766 che il governo li ritenesse per leggi e pene.
CAPO SECONDO.
Il re divenuto maggiore governa il regno.
VII. Il 12 di gennajo del 1767 uscì di minore il re Ferdinando, tacitamente, però che nessuno atto di governo, nè cerimonia nella reggia, nè festa nella città celebrò quel giorno; i reggenti divennero consiglieri o ministri, la sostanza o l’aspetto del politico reggimento non mutò. E poichè per le cose dette sono assai note le condizioni domestiche del regno, importa discorrere brevemente le esteriori. I potentati del settentrione, che per la bilancia politica del tempo non istendevano sino a noi la cupidigia e la potenza, mantennero i trattati di commercio fermati con Carlo; la Spagna e la Francia avevano con Napoli amicizie non alleanza, perciocchè gli accordi tra quei due regni del 1761, chiamati Patto di Famiglia, non per anco erano stati accetti (a ciò consentendo secretamente il re di Spagna) da’ Borboni delle Sicilie e di Parma. La casa d’Austria negoziava nuovo parentado col re di Napoli. Essendo finita sin dal 1763 la guerra de’ sette anni, riposava la Germania e stava in pace l’Italia. Era morto don Filippo duca di Parma e appresso a lui la vecchia regina Elisabetta Farnese, l’uno e l’altra per ambiziose voglie concitatori alla guerra. Il papa Clemente XIII contendeva contro Napoli ma inerme, perchè sprovvisto d’armi profane, e per le sacre non temuto.
VIII. Primo atto del re maggiore fu la cacciata de’ gesuiti, che importa esporre dal capo al fine; percioechè il re medesimo riappellando, tempo dopo, la espulsa compagnia, ed altri re mutando in favore di lei le già praticate ostilità, giova conoscere le cagioni così dello sdegno che dell’effetto. È noto per altre istorie come nell’anno 1540 sotto il pontificato di Paolo III fu instituita la compagnia di Gesù a insegnare e convertire, professando per voti la povertà, la castità, l’obbedienza; come si sparse in varie parti del mondo e nelle reggie; come divenne di povera, opulenta; d’infima, prima; di modesta, ambiziosa, e quante querele ella mosse è respinse.
Nell’anno 1758 Giuseppe I re del Portogallo, tornando dopo notturne lascivie dalla città alla reggia, fu leggermente ferito da colpo di moschetto; e ricercati gli attori e le cagioni, si scoprì che molti nobili e frati gesuiti avevano congiurato di uccidere il re per mutare padrone, corte e ministri. Parecchi nobili, di condanna, furono morti; due frati gesuiti de’ meglio rinomati finirono nelle carceri, e si disse per comando del marchese di Pombal ministro potentissimo di Giuseppe; altro gesuita, Malagrida, accusato nel tribunale del santo-uffizio, dichiarato seduttore del popolo, perdè la vita sul palco nella città di Lisbona; e tutti dell’ordine in un giorno imbarcati, approdarono a Civitavecchia negli stati del papa. Fu questo il primo bando a’ gesuiti; venne seconda la Francia, perciocchè Luigi XV, dopo brighe di corte e allettamenti della Pompadour e decreti de’ parlamenti, scacciò la compagnia nel 1764; e tre anni appresso la sbandì dalle Spagne Carlo III, prescrivendo a’ sovrani di Napoli suo figlio e di Parma suo nipote, d’imitare l’esempio.
Nel mezzo della notte, che fu del 3 di novembre del 1767, tutte le case gesuitiche del regno napoletano (monasteri o collegi) furono investite da uffiziali del re e da genti d’arme; gli usci aperti o atterrati, ogni cella sorpresa e custodita; i frati, i serventi, i discepoli adunati in una stanza dell’edifizio; i mobili sequestrati, lasciando ad ogni uomo le sole vesti; è ciò fatto. tutti in truppa scortati al porto o spiaggia più vicina ed imbarcati sopra nave che subito salpò. Nè fu permesso il restare a’ vecchissimi o agl’infermi; tutti partendo con moti tanto solleciti che, per dire della sola città, i gesuiti navigavano per Terracina e non ancora la prima luce del giorno 4 spuntava.
Quelle sollecitudini e quel rigore vennero dall’esempio di Madrid, o per nascondere al popolo con la sorpresa e le tenebre spettacolo pietoso e irriverente. Gli editti che nel giorno si lessero, dicevano:
«Noi il re, facendo uso della suprema indipendente potestà che riconosciamo immediatamente da Dio, unita dalla sua onnipotenza inseparabilmente alla nostra sovranità, per il governo e regolamento de’ nostri sudditi, vogliamo e comandiamo che la compagnia detta di Gesù sia per sempre abolita ed esclusa perpetuamente da’ nostri regni delle Sicilie.»
Seguivano altre ordinanze per accertare il popolo che i beni de’ gesuiti, comunque incamerati, anderebbero in opere di pietà e giovamento comune; che i debiti di que’ frati, le limosine, i pesi, le opere meritorie, sarebbero mantenute; che si provvederebbe al mancato servizio delle chiese; e dalle scuole riordinate uscirebbe più vasto e sapiente il pubblico insegnamento.
Non fu noto quante ricchezze incamerasse la finanza, perchè il governo pose studio a non palesarle; ma già que’ frati, forse intesi e certamente sospettosi di loro svenlura, avevano involate molte cose preziose per valore di materia o eccellenza di arte. Le opinioni su la cacciata de gesuiti furono varie; apportando mestizia a’ balordi ed agli ipocriti, contentezza a’ sapienti, incuriosità alle moltitudini; ne godevano gli altri frati e cherici per insita malevolenza o invidia alle passate felicità e grandezze de gesuiti; il ministro Tanucci ne fu allegro: il re indifferente, ma l’animo giovanile si educava alle opere ardimentose verso la Chiesa, e a tener separate nella coscienza l’umiltà cristiana e l’allezza di re.
Per molti mesi fu dato adempimento alle promesse; e poi che i fatti ebbero mostrata la fedeltà del governo, comparve altro editto, che ad onore del re qui trascrivo. «Dalle nostre cure paterne, dopo la giusta e necessaria espulsione da’ nostri dominii della compagnia che dicevasi di Gesù (spiegando noi e commutando, con quella sovrana potestà che riconosciamo dirittamente da Dio, la volontà di coloro i quali nel lasciare i loro beni alla compagnia suddetta; intesero destinarli all’utilità spirituale de’ loro concittadini, per mezzo di quelle opere che la medesima professava di fare) sono nate le pubbliche scuole e i collegi gratuiti per educare la gioventù povera nella pietà e nelle lettere; i conservatorii per alimentare ed ammaestrare ne’ mestieri gli orfani e le orfane della povera plebe; i reclusorii per i poveri invalidi o per i validi vagabondi, che, togliendosi all’ozio ond’erano gravosi e perniciosi allo stato, si rendono nutili con istruirsi delle arti necessarie alla società; il sollievo alle comunità col rilascio delle annue prestazioni che facevano agli espulsi per le scuole; l’ajuto alle genti di campagna con la divisione de’ vasti territorii a piccoli censi; il soccorso alle persone oneste e bisognose con le fisse quotidiane limosine; e le tante altre opere pubbliche, fatte o che si van disponendo dopo le prime, del culto divino e degli esereizii della religione. Quindi essendosi co beni della espulsa compagnia abbondantemente provveduto alla pietà pubblica, e quanto al santuario sapendosi che ormai è tempo di quello avvertimento che fece, inspirato da Dio, Mosè condottiero del popolo ebreo, di non più portare donativi all’arca; perciò noi rivolgendo lo sguardo al sostentamento delle famiglie de’ nostri sudditi ed al riposo loro sui beni che possedono, siamo venuti col presente editto a risolvere e dichiarare cadute tutte le sostituzioni o chiamate a favore degli espulsi gesuiti non ancora avverate; essendo nostra regal volontà che i beni compresi nelle sostituzioni o chiamate restino alla libera disposizione dell’ultimo secolar possessore, dopo il quale sarebbero chiamati i gesuiti. Napoli 28 luglio 1769. — Ferdinando re.»
IX. Tra mezzo alle riferite cose corsero per l’Europa lettere del papa, in forma di breve, contro il duca di Parma, che ad esempio di altri re, come ho detto innanzi, aveva discacciata la compagnia di Gesù; e perciò Clemente XIII minacciando anatemi e censure a principe debole e fanciullo, non ne temeva lo sdegno, e sperimentava l’eflicacia delle armi sacre per coglier sovrani di maggior potenza. Il breve dicendo essere lo stato di Parma feudo della Chiesa, e contrarii alle ragioni e potestà di lui gli atti avverso la compagnia di Gesù fatti a dispregio degli avvisi, della indulgenza, della mansuetudine del sommo pontefice, conchiudeva: «Siccome è notorio e incontrastabile (per la bolla in Cœna Domini) che gli autori o partecipanti alla pubblicazione degli atti suddetti sono incorsi nelle censure ecclesiastiche, così i medesimi non potranno ricevere l’assoluzione se non da noi o da’ nostri successori.»
Reggeva il ducato di Parma per l’adolescenza del principe il ministro Guglielmo du Tillot, francese, il quale, nulla mutando alle amministrazioni dello stato, ebbe ricorso a’ re di Spagna, Francia, Napoli e Portogallo contro il papa che aveva offeso nel sovrano di Parma tutti i sovrani cattolici. Il re del Portogallo, pronto ed usato a’ litigi, riprovò il breve; il re di Spagna lo confutò, riproducendo le querele e le proteste contro alla citata bolla in Cœne Domini; Luigi re di Francia fece occupare gli stati di Avigone e ’l Venesino posseduti dal papa. Ed in Napoli la regal camera di Santa Chiara e ’l delegato della giuridizione regia, intenti a sostenere le ragioni della sovranità, dimostrando la fallacia delle pretendenze di Roma, pregarono il re provvedesse a’ diritti suoi e dello stato; e ’l re, disapprovato il breve e vietatolo ne’ suoi regni, comandò che gli stati di Benevento e Pontecorvo ritornassero all’antico dominio de re delle Sicilie. Per lo che nel possesso, facendo da sovrano legittimo e durevole, confermò a ’ cittadini le presenti franchige, ravvivò le antiche de’ passati re cominciando da Ruggiero, e ne promise altre nuove in premio di fedeltà. I popoli giurarono al nuovo impero, vogliosi di lasciar l’antico per usata incostanza, e perchè a governo sacerdotale, quando anche apporti agiatezza e quiete, sdegna obbedienza l’indole generosa degli uomini. Il pontefice, a quelle viste, pregò la imperatrice Maria Teresa di portar pace con la sua potenza alla religione, alla Chiesa, a’ monarchi. Ma colei, simulando modestia e debilità, schivò gli officii, interdisse ne suoi stati d’Italia la bolla in Cœna Domini, e comandò le copie introdotte bruciarsi. Tante ripulse premevano la insazietà del papato l’anno 1768.
X. Quando il re Ferdinando. giunto ad età virile, trattò matrimonio con Maria Giuseppa arciduchessa d’Austria, figliuola dell’imperatore Francesco I, stabilite le nozze, cambiati i doni, prefissa la partenza della giovine sposa e preparate le feste del viaggio, ella infermò, e morì; sì videro nello impero e nella casa mutate a lutto le vesti e le apparenze dell’allegrezza. Altra principessa Maria Carolina, sorella della estinta, fu eletta in moglie a Ferdinando, e nell’aprile del 1768 si partì di Vienna per Napoli. Ella, onorata nel viaggio da principi d’Italia e vie più in Firenze dove regnava Pietro Leopoldo suo fratello, giunse il 12 di maggio a Portella, e sotto padiglione magnifico incontrata dallo sposo, ricambiarono gli atti e i segni di riverenza e di affetto. La reggia di Caserta prima li accolse, poi passarono a Napoli privatamente il 19 dello stesso mese, e con pompa regale il 22. Le feste e la gioja nella città e nella casa durarono parecchi mesi, inchinandovi per godimento il re, per fasto la regina, per servitù la corte, e per ispettacoli e guadagni la plebe.
Una principessa della casa austriaca, regina del maggiore stato d’Italia, e moglie di re trascurante, variava la politica del governo, serva sino a quel giorno della mente di Carlo re di Spagna; e tanto più che la giovine entrerebbe ne’ consigli dello stato, non per legge o usanza della monarchia, ma per patto fermato ne’ capitoli del matrimonio. Il ministro Tanucci potente per la corte di Madrid, non fu gradito alla regina, ed egli stesso non gradì lei: tardi attristandosi dall’aver prodotta o nutrita la ignoranza del re. La regina, benchè non finisse ancora i sedici anni, aveva senno maturo; e poichè bella, ingegnosa, auguratrice di prosperità al regno, attraeva gli sguardi e le speranze de’ soggetti. Il fratello di lei Pietro Leopoldo gran duca di Toscana l’aveva seguita a Napoli per le nozze, e l’anno appresso vi giunse l’altro fratello Giuseppe, imperatore, i quali ne’ discorsi co’ più dotti personaggi del regno palesavano il proponimento di riformare i loro stati come volevano secolo e sapienza. Così che a noi tutta la prole di Maria Teresa parve famiglia di filosofi potenti mandati da Dio a ristorare l’umanità.
XI. Morto in quell’anno 1769 Clemente XIII, ascese al papato frà Lorenzo Ganganelli col nome di Clemente XIV. Il quale ammaestrato da’ travagli del predecessore, meglio esperto de’ tempi, voglioso di quiete, propose accomodamenti a’ sovrani adirati; e questi per la mansuetudine di lui e i profferti pegni di amicizia, deponendo lo sdegno, accettarono i nunzii, mandarono ambasciatori, restituirono gli occupati dominii. Poscia il pontefice mantenendo le date promesse, e ripensando che l’appena sopita discordia nacque o fu inasprita da’ casi della compagnia di Gesù, cedette alle continuate istanze de’ principi e pubblicò un breve che ne confermava la cacciata. Il qual breve era dello stile ingannevole di Roma, quasi mostrando»che il pontefice per evitare il peggio piegasse alla prepotenza de’ principi; ma cotesti principi dissimularono quella pontificale scaltrezza, ora superbi per la potenza, ora paurosi de’ preti per coscienza. Godeva di quella pace Clemente, quando occupato da malattia miseramente finì, e gli accidenti del morbo e della morte, o certi presi antidoti, accreditarono la voce ch’ei morisse avvelenato da frati della compagnia per vendetta del breve che toglieva a que’ briganti le ragioni e la speranza di risalire alle antiche ricchezze. Se pure bugiarda la voce, non fu maligno il sospetto.
XII. Divenne pontefice Pio VI, già cardinale Braschi: e avvegnachè il re di Napoli aveva per ministri contrastata la elezione di lui, si fecero i due sovrani, dalle contese di stato e di persona, doppiamente avversi. Vacò l’arcivescovato di Napoli, e ’l re lo provide, benchè a provvederlo pretendesse il pontefice; e comandò al prescelto di sopprimere nelle sue lettere le parole solenni: «Per grazia della Sede apostolica» a fin di evitare il dubbio che la sede romana avesse partecipato alla scelta. Da tre secoli almeno gli arcivescovi di Napoli ottenevano la porpora cardinalizia, ma al nuovo arcivescovo la negò Pio VI, al quale fece il re scrivere che la ripulsa lo incitava a compiere la già meditata instituzione di un ordine ecclesiastico ne’ suoi regni, spettabile per dignità e ricchezze, decorato anch’esso di color di porpora, nel fatto e alle apparenze più magnifico del collegio dei cardinali, soperchianza nella gerarchia. Ma non perciò l’arciveseovo ebbe il cappello, nè il re fondò l’ordine. Poco dipoi il re nominò vescovo di Potenza Francesco Serao, dotto autore di molti scritti a pro delle giurisdizioni laicali, e notato giansenista dal pontefice che rifiutò di sacrarlo; e non consigli, non minacce nè preghiere bastarono a muoverlo dal proponimento; insino a tanto che il re scrisse, farebbe in ciascuna provincia consecrare i vescovi nuovi da tre degli antichi, sì come prescrivono le sante e prime discipline della chiesa.
XIII. L’anno 1776 leggero accidente partorì cosa memorabile. Usavano i re di Napoli, come è noto per le nostre istorie, presentare al papa in ogni anno la chinea (cavallo bianco riccamente bardato) e settemila ducati d’oro. La cerimonia era pomposa, perciocchè un ambasciatore nel 29 di giugno, giorno di san Pietro, offeriva quel dono in nome del re al pontefice, che, negli atrii della basilica vaticana ricevendolo, diceva: «essere il censo a lui dovuto per diretto dominio sul regno delle due Sicilie.» In quell’anno, mentre il principe Colonna gran contestabile del regno e ambasciatore del re cavalcava alla basilica, disputazione di precedenza tra i servi dell’ambasciatore di Spagna e del governatore di Roma, produsse nel popolo ivi adunato moti di calca e romori di voci che subito quietarono. Pare, terminata la cerimonia; l’ambasciatore riferì le popolari turbolenze al re che, per dispaccio del suo ministro. rispose:
«Le controversie alla occasione della chinea, hanno afflitto l’animo divoto del re, perchè a cagione de’ luoghi, del tempo, delle circostanze potevano apportare disgustose conseguenze da turbare la quiete de’ due sovrani e de due stati. E poichè l’esempio ha dimostrato che un atto di sua mera divozione, qual’è il presente della chinea, può essere motivo a scandalo ed a discordie, egli ha deliberato e risoluto che la cerimonia cessi per lo avvenire, e che a quell’atto di sua divozione verso i santi apostoli egli adempisca quando glie ne venga desiderio per mezzo del suo agente o ministro. Gli esempii, la ragione, le riflessioni, le cautele, l’umanità, la rettitudine, hanno concorso a muovere il regio animo a tale deliberazione, di quell’atto dipendendo unicamente la forma dalla sovrana volontà, e dall’impulso di sua pietà, e da religiosa compiacenza. Questi sensi di figliale venerazione verso il capo supremo della chiesa sieno comunicati alla corte di Roma, Da Napoli 29 di luglio del 1776.»
Il pontefice, dimandata fa rivocazione del foglio, e non ottenuta, protestò in contrario. E sebbene da quel giorno fosse cessato il vergognoso tributo, egli nella festa di san Pietro ne faceva lamentanza e protestazione al governo di Napoli. Anni appresso il re privatamente offerse settemila ducati d’oro senza chinea o cerimonia, come dono di principe divoto alla chiesa; e il papa rifiutandoli dichiarò più che mai solennemente le sue ragioni, e la disobbedienza (così la diceva) della corte di Napoli.
XIV. Le buone leggi di Giuseppe e di Leopoldo a pro de’ popoli, narrate dalla fama, commendate da’ sapienti, lodatissime dalla regina di Napoli sorella di que’ principi, stimolando a certa gloria per fin l’animo svagato del re, agevolarono al ministro Tanucci e ad altri egregi del tempo l’erto cammino della civiltà. Erano in officio il Palmieri, il Caracciolo, e de Gennaro, e Galliani, ed altri dottissimi che ministri o magistrati diffondevano con l’autorità e l’esempio le dottrine della politica; mentre alle buone riforme preparavano la mente de’ reggitori e l’animo de’ soggetti, gli scritti del Filangieri, del Pagano, del Galanti, del Conforti, le lezioni (poco innanzi dettate) da Antonio Genovesi, maraviglia d’ingegno e di virtù, dottissimo e povero, e le accademie, le adunanze e perfino il semplice conversare. Perciocchè il bene dello stato essendo allora il tema della sapienza comune, l’aura di società circondava chi meglio ne ragionasse.
Il discacciamento de’ gesuiti diede materia e gara ad ordinare la istruzion pubblica; essendo impegno e debita del governo superare il bene che i discacciati erano creduti fare. Ogni comunità salariò maestri di leggere, di scrivere, d’abbaco. In ogni provincia fu eretto convitto per i nobili, con dodici letture, due sole di argomenti ecclesiastici, dicci di scienze o lettere; altrettante nelle città maggiori del regno; ed altre, ma in minor numero, nelle città più ristrette. Era pubblico l’insegnamento; i professori eletti per pubblico esame. I vescovi, solamente direttori de’ seminarii sotto l’autorità del re, non avevano nella comune istruzione voce o ingerenza; e quando vi s’impacciavano (confidando nella pietà del principe, o per memoria degli usi antichi o perchè ardimentosi) erano severamente respinti e biasimati. A denunzia di un vescovo che certi maestri non osservavano le regole della fede cattolica fu risposto, che l’essere solamente cristiano era la condizione richiesta per i maestri delle scuole pubbliche; e chiedendo altro vescovo che alcune cattedre nella diocesi, fondate (contro le bolle pontificie) senza suo permesso, si sopprimessero, il re dichiarò inutile il permesso vescovile, colpevole il domandarlo, e casse per sempre le bolle che si allegavano a sostegno della temeraria dimanda.
L’università degli studii fondata da Federico II, mutata (spesso in peggio) da’ re successori, quasi morta nel tempo lunghissimo del viceregno, ravvivata da Carlo, ebbe compimento da Ferdinando che vi raccolse tutto l’intelletto di quel secolo. I professori ottennero maggiori stipendii, migliori speranze; e tolte le cattedre inutili, ne posero selle nuove che io qui diviserò per mostrare come già il tempo volgeva alle utili instituzioni; erano, di eloquenza italiana, di arte critica nella storia del regno, di agricoltura, di architettura, di geodesìa, di storia naturale, di meccanica. L’università ebbe stanza nel convento che fu de’ gesuiti; vastissimo, detto il Salvatore; con ivi le accademie di pittura, scultura, architettura, le biblioteche Farnesiana e Palatina. i musei Ercolanese e Farnesiano, un museo di storia naturale, nun orto botanico, un lavoratorio chimico; un osservatorio astronomico, un teatro di anatomia; cose tutte affatto nuove, o dall’antico migliorate. Quella biblioteca e quel museo Farnese erano parte delle ricchezze che il re Carlo portò seco a Napoli spogliatone la reggia di Parma.
L’accademia delle scienze e delle lettere mutò ordini e migliorò, perciocchè abbandonate le ciance o le pompe de’ trascorsi tempi, e mirando alle utilità nazionali, fu prescritto che le scienze si applicassero alle arti, a’ mestieri, alla medicina, a trovare novelli veri; e le lettere chiarissero le oscurità della storia patria così, da giovare alla sapienza comune, e all’arte del governarsi. Ma è notabile che il presidente dell’accademia era per legge il maggiordomo di corte, e che gli accademici onorarii venivano eletti dal supremo arbitrio del re (sono parole dello statuto) nella sublime nobiltà; tanto era impossibile affrancare qualunque sociale instituzione dall’arbitrio regio e dalla potenza de’ nobili. Fu ricomposta l’accademia Ercolanese, principiata da Carlo nel 1755, poi abbandonata; così che di diciassette accademici, quattro soli per ventura di longevità restavano. Parlerò in miglior luogo de’ collegi militari pure in quel tempo fondati.
In tante scuole o accademie convenivano, maestri e socii, gli uomini più dotti del regno; altri pari a questi sorgevano; e gli uni e gli altri venuti a cognizione e riverenza della Italia, illustravano la patria ed il secolo. Qui vorrei registrare gli onorati nomi e le opere, e forse il tempo mi verrebbe meno prima che la materia de’ racconti; ma, impedito dalla proposta brevità, ricorderò que’ soli che alla storia più importano; tra’ nobili, Raimondo di Sangro principe di Sansevero, Francesco Spinelli principe di Scalèa, Paolo Doria, principe d’Angri; de’ magistrati, il marchese Vargas Macciucca, Giuseppe Aurelio de Gennaro, Pasquale Cirillo, Biagio Troise; degli ecclesiastici oltre il Galliani e ’l Genovese, il padre della Torre, uno de’ tre fratelli Martini, il padre Carcani, l’arcivescovo Rossi; e finalmente delle donne, Faustina Pignatelli, Giuseppa Barbapiccola, Eleonora Pimentel, e sopra tutte Mariangiola Ardinghelli. Così le classi per lo innanzi meno pazienti degli studii, allora zelosamente li coltivavano.
Pubblicavansi libri pregiatissimi, de’ quali citerò due soli di maggior grido; i Saggi politici di Mario Pagano, e la Scienza della legislazione di Gaetano Filangieri. Per essi, fatta chiara la costituzione sociale, s’intesero le ragioni de’ soggetti e del principe, si sperò fine al comandar cieco, ed alla cieca obbedienza. La stile rettorico di quelle opere, comechè sconvenevole alla gravità dell’argomento, piacque e giovò, perchè le querele si addicono agli oppressi e speranti; gli autori trassero lodi dall’universale, premii dal governo, così che il Pagano ebbe cattedra nella università degli studii, e ’l Filangieri alta magistratura nella finanza e pensione di che soccorrere all’onorata povertà della famiglia.
Queste che brevemente Lo corse erano le imprese dell’ingegno napoletano per migliorare lo stato, avanzando nelle buone opere gli altri regni d’Italia. Notiamo cosa vera e dolente: che i primi germi del bene politico, neila età nostra e de’ padri, spuntarono dal suolo di Napoli; ma sempre fu visto trasformato il merito in delitto, la buona fama in infamia; e quelle ingiustizie uscire più spesso dagli amici che da’ contrarii. Vedremo in giorni non lontani da quelli che descrivo quale fosse degli uomini che ho citati la misera fine, decretata dal governo, applaudita dal popolo. Avvegnachè i buoni concetti e le savie leggi non essendo ingenerate nella mente del re, nè sentite dalla moltitudine (l’una e l’altira più basse di quella civiltà), piccolo numero di sapienti le immaginava, numero poco maggiore le aveva in pregio: la plebe se ne sdegnava qual suole delle novità; e di poi il governo le punì come colpe.
XV. Le altre parli della economia pubblica maneggiava minor senno; Napoli che aveva preceduto la Toscana nello affrancarsi dalla Chiesa, videsi da Pietro Leopoldo sopravanzata negli statuti dell’amministrazione. Benechè lasciato libero alle comunità il modo di amministrarsi, e prescritto il sindacato, punite le infedeltà, ed eletti dal popolo ne’ parlamenti gli amministratori, i sindacatori, i giudici del conto; non di meno questi benefizii poco profittavano, confusi dalle stesse libertà, e però dall’ingegno vario, e dalle passioni fugaci degli amministratori e de comuni; altri vivevano a catasto, altri a gabelle, altri a testalico; dove si preferivano le opere civili, e dove di pietà; là prevaleva il poco spendere, qua il troppo; le virtù di un anno parevano vizii l’anno appresso, e i disegni degli uni erano disfatti dagli altri; all’amministrazione mancava unifermità e perseveranza, quindi grandezza e durata. Il re prestò al comune di Pescocostanzo i danari onde ricomprarsi dall’avaro barone Pietro Enrico Piccolòmini, dicendo nella concessione del prestito: «Acciò sottraggasi dalla servitù e dal giogo baronale»; ma quell’atto unico, transitorio, era segno non sostanza di prosperità.
Le arti stavano soggette alle fraterie ed a’ consoli; îl traffico interno alle annone, alle assise, a’ privilegi baronali, ad alcuni resti di franchige o immunità de’ cherici, e soprattutto alla mano continua del governo su le imprese e interessi de’ privati. Ritornò libera la coltivazione del tabacco, ma per altre gravezze al vino, al sale, alla carta, a’ libri. L’industria della seta ingrandita nel regno di Carlo, eccitò l’avidità del successore; e messa tra gli arrendamenti del fisco patì le condizioni della servitù: poco prodotto, estirpazione de’ gelsi, decadenza delle fabbriche nazionali di seta e drappi. Pena il capo al barcajuolo che portasse controbando di seta, e le più leggiere mancanze spesso punite dalla tortura con tratti di corda.
XVI. Altro danno patì la ricca industria dei coralli. La Torre del Greco, bella ctltà su la riva del mare, a’ più del monte Vesuvio, alberga dodicimila abitatori, la più parte marinari o mercatanti, perchè le terre coperte o minacciate dal soprastante vulcano apportano scarsi e mal sicuri alimenti al bifolco. Alcuni tra’ marinari fin dal secolo XVI andavano alla pesca del corallo nei mari di Corsica e di Sardegna; ma più arrischiandosi nel 1780, bene armati e pronti a guerra, corsero le coste d’Africa, ed occuparono piccolo scoglio deserto e innominato, lontano ventiquattro miglia dall’isola di Gàlita, e quarantatrè dalle terre di Barberia: lo chiamarono Summo dal nome del marinaro che primo vi pose il piede; e trovato il lido ricco di coralli, costruirono su lo scoglio frascati, ricoveri e difese. Così per due anni; di poi audacissimi tentando lidi più lontani, pericolosi di guerra e di schiavitù dalle genti africane, pescarono fortunatamente oltre capo Negro, capo Rosa e capo di Bona. Per le quali prosperità montò l’industria tanto, che andavano ogni anno seicento barche grandi ed alte da resistere alle tempeste con più di quattromila marinari, salpando nell’aprile e ritornando prima che invernasse. La città perciò arricchita ergeva superbi edifizii, non curando i pericoli del vicino monte, e (riferisco portenti che ho veduti) s’ella per tremuoti cadeva, o coperta di lava scompariva, fabbricavano in meno di un anno altra città più ornata e bella, su l’aja istessa per amore del suolo e religioni della casa.
Furono tanti e sì grandi e nuovi gl’interessi generati dalla pesca del corallo, che non bastava il codice universale a regolarne i modi e la giustizia: formavano per occasione piccole congreghe o le scioglievano, mossi da privato benefizio: chè il pensiero di comun bene mancava a quelle genti, e spesso vedevi l’un pescatore arricchire della povertà del vicino- Le quali deformità in negozii di sì gran momento diedero motivo a comporre società più vasta, ma volontaria, che scema di pubblica forza non bastò al bisogno; e allora il governo vi pose mano, e per leggi e ordinamenti, chiamando compagnia la società, regolò la partenza, il ritorno, la pesca, la vendita del corallo, i magistrati, i custodi, il foro, i giudizii; tante leggi dettò che al libro di esse diede nome di Codice Corallino. Ebbe la compagnia bandiera propria; sopra scudo azzurro una torre tra due rami di corallo, e in cima tre gigli d’oro. Quando la società fu libera, benchè tra querele e ingiustizie, prosperava: e quando, ridotta in compagnia, ebbe codice, finite le ingiustizie e le querele, decadde la ricchezza: la società era spinta da instancabile zelo di privato guadagno; la compagnia movea lentamente per guadagno comune. Qggi dura la pesca del corallo, ma sfortunata.
XVII. Buona legge prescrisse che le terre incolte ridotte a campo non pagassero tributo prediale per venti anni, piantate ad ulivi per quaranta. Per altre leggi si popolarono le isole deserte di Ustica e Ventotene, poi di Tremiti e Lampadusa. A’ coloni delle due prime, presi tra i poveri di famiglie oneste, fu concesso terre, vitto per certo tempo, ed istrumenti di agricultura e di pesca. Prosperarono. Furono coloni delle altre, ladri e vagabondi del regno, a giudizio precipitato di magistrati eletti dal re; e quelle perivano: il governo vi spediva nuovi coloni e troppi, che per crescer di numero peggioravano di costumi e di arti. Quelle istesse sollecitudini per la quiete pubblica diedero motivo a dividere la città in dodici rioni, e in ognuno stabilire magistrato vigilatore che per giudizi abbreviati condannasse alla prigionia, e più spesso al confino su le isole di pena. Colpivano quegli arbitrii gente di plebe disonesta; il regno si sgravò di molti tristi; la città migliorata ne godeva; ma poco appresso, per sospetti di maestà e per le usate licenze di sfrenato potere, mandati alle isole cittadini non giudicati nè rei, solo spiacenti al dispotismo, tornò dogliosa e atterrita la città e il regno.
Un camposanto fu murato nel luogo prima detto Pichiodi, poi Santa Maria del Pianto; di tante fosse quanti sono i giorni dell’anno. Vi erano trapassati i corpi della povera gente, perciocchè i ceti maggiori verzognandosi di quel luogo interravano i loro morti nelle chiese della città. L’architetto cavalier Fuga diede il disegno del cimitero, che per danari provveduti dalla pietà fu compiuto in un anno.
Utilissima delle instituzioni fu il regio archivio; di che il primo Ferdinando di Aragona, sin dal 1477, ebbe il pensiero; l’ebbero Carlo V nel 1533, Filippo III nel 1609; ma la incostanza de’ principi o le contrarietà di fortuna impedirono l’effetto sino a Ferdinando Borbone che nel 1785 compiè l’opera. E comandato che gli atti generanti azione ipotecaria serbassero nell’archivio memoria e registro, resa chiara la proprietà, certa la ipoteca, pronta la vendita de’ beni ascritti, assicurò i creditori, costrinse i debitori a rispondere del promesso pagamento. Il sistema ipotecario, meritamente lodato nel codice Napoleone, era in gran parte raffigurato, trent’anni prima, nell’archivio regio di Ferdinando; questo invero fu meno vasto, poco precettivo, niente avaro; il francese, ampio, forzante, fiscale. L’archivio manifestava il patrimonio di ogni casa, impediva le frodi, scemava i litigi; perciò gli si opponevano i curiali, potenti già, come ho riferito nel regno di Carlo, più potenti al tempo del quale scrivo. E questi, o ministri del re, o magistrati, capi ed uffiziali dello stesso archivio, turbavano l’effetto della provvida legge, comunque dalle cure incessanti del governo mantenuta. E così toglievano gran bene alla società, tornando i debiti e le ragioni all’antico scompiglio.
XVIII. E dirò più gravi errori della finanza. Regnante Carlo, i denari della Spagna, i guadagni della conquista, poi la pace e sempre la parsimonia de reggitori e la contentezza de’ popoli francati dalla dogliosa servitù di provincia, ristoravano o nascondevano la scarsezza dell’erario. Il concordato con Roma del 1741 fruttò qualche tributo da’ beni ecclesiastici; e ’l catasto negli anni appresso fece palesi e sottopose al fisco assai terre, per innanzi franche perchè tenute feudali o della Chiesa; ricchezze di Carlo, consumate dal nuovo regno. Tre fonti sorgevano nell’erario: i donativi, le taglie dirette, le indirette. I donativi abusati nelle età scorse, perchè più adatti alla brevità del comando, furono rari Carlo, e due soli nel regnare di Ferdinando.
Le taglie dirette, poste per comunità, si pagavano per fuochi (dicevasi fuoco la famiglia);: parecchie comunità, feudi originarii o presenti della Chiesa, ed altre assai favorite dalle concessioni dei passati dominatori, godevano franchigia piena o parziale da’ pesi comuni. La partizione tra le comunità paganti non misuravasi dalla estensione o fertilità della terra, dalle arti o dalla industria de’ cittadini, dalle felicità del commercio, e, per dirla con la parola moderna, dalla proporzione de’ valori; ma seguiva certa norma di popolazione più supposta che numerata nel 1737. Per i quali errori spesso vedevi di due città confinanti, l’una ricca di terre, piena d’arti, copiosa di fortune; l’altra povera d’ogni cosa: pagar la seconda più della prima.
Non erano meno fallaci i mezzi di esigere, chiamati di capitazione, di arti-fabbrili, di possessi. Da’ due primi andavano esenti gli ecclesiastici, i baroni, coloro che nobilmente vivevano, i dottori, i medici, i notai, e tutti gli altri senza mestiero, dicendosi che accrescevano la classe ragguardevole de’ nobili: perciò que’ tributi solamente premevano la testa e le braccia, ossia la vita e la fatica de’ poveri. In quanto a possedimenti, restando franche (dove in tutto dove in parte) le terre feudali, quelle del re o del fisco, le ecclesiastiche, i patrimoni de’ chierici, i beni de’ seminarii, delle parrocchie, degli ospedali, sostenevano pochi sfortunati possessi tutto il peso delle taglie dirette, le quali montavano a due milioni ed ottocentodicianovemila e cinquecento ducati all’anno, accresciuti di altri duecentononantamila ducali, sotto colore di aprir nuove strade.
Erano taglie indirette tutte quelle che il sottile ingegno pubblicano seppe inventare in ogni età, sopra ogni popolo a pro del fisco: le arti, le industrie, le consumazioni per il vivere, î godimenti, i vizi, le meretrici, il giuoco, profittavano alla finanza. Si chiamavano, come ho detto, dallo spagnuolo, arrendamenti; e furono la più parte venduti o impegnati per novelli debiti, o dati a sicurtà degli antichi; ed allora curavano la esazione i compratori o creditori, che medesimamente punivano le contravvenzioni con le severe prammatiche del fisco. Esercitata perciò la vigilanza con lo zelo dell’avarizia privata, e con la potenza della forza pubblica, l’arrendamento fruttava al compratore il doppio che all’erario, e costava triplicato a tributarii.
Il re abolì parecchi arrendamenti, quello detto del minuto, l’altro del capitano della grascia, e sul tabacco, la manna, l’acquavite, il zafferano, i pedaggi, e, in certe province, la seta; ma per non privare l’erario di quell’entrate, nè mancare agli obblighi fermati con gli acquirenti, furono messe nuove taglie, altre accresciute, meno gravi al popolo, meglio profittevoli alla finanza. Questo è il luogo di riferire fatto memorabile per documento del tempo. Visto il danno che gli arrendamenti portavano allo stato, voleva il governo ricomprarne alcuno, e poichè gli assegnatarii (era il nome dei possessori) nol consentivano, il re decretò che i tribunali ne giudicassero con forme uguali e libere. Si trattava se il fisco potesse riscattare a condizioni giuste gli arrendamenti trasferiti ad altrui dominio; e così muovere o migliorare, secondo i bisogni deilo stato, la finanza pubblica. Era tra’ giudici Ferdinando d’Ambrosio, per fama scaltro ed avaro, il quale nell’atto della sentenza, udendo i giudici compagni sostenere le ragioni del fisco, pregò silenzio, e tirato da’ viluppi della toga grosso crocifisso, in positura e con voce da missionario, disse: «Ricordatevi, o signori, che dobbiamo morire, che solamente l’anima è immortale, che questo Iddio (indicando la croce) vorrà punirci dell’avere anteposto alla giustizia l’ambizione. In quanto a me, io proferisco per gli assegnatarii.» Ma il voto non fu seguito perchè ingiusto, e sapevasi che un congiunto del divoto oratore stava nelle parti contrarie al fisco; così l’arrendamento del sale fu ricomprato. E pure l’azienda pubblica, disordinata, come ho detto, traeva in ogni anno quattordici milioni e quattrocentomila ducati; e di tanta somma la baronia, benchè possedesse più che metà delle terre del regno ne pagava solamente duecentosessantottomila.
XIX. Impercciochè la feudalità poco depressa nei regno di Carlo, acquistava tutto di maggiori dovizie sotto Ferdinando per opera de’ curiali, i quali, intendendo a scemare le giurisdizioni feudali per ammontarle alla curia, e ad accrescere le ricchezze de’ feudatarii per esserne a parte, trovavano potenti ajuti quando dal governo, inteso pir esso a spegnere il mero e misto imperio; e quando dal re che per abitudini, affetti ed istinto regio favoriva i baroni. Perciò si leggono di quel tempo molte prammatiche o dispacci repressivi della giurisdizione baronale; e, a costo ad essi, altri ne mantengono le è franchige e scemano le taglie; così che per Adoa e Rilevio (sono i loro nomi) pagavano i baroni più gravati il sette per cento di rendita, mentre i cittadini più favoriti il venti, la comune il trenta, altri il quaranta o il cinquanta, e alcuni miserrimi il sessanta; si vedevano sostenute le decime feudali, le angarie, tutta la congerie degli abusi che dicevano diritti. Di modo che i paesi feudali si palesavano al primo vederli per la povertà delle case, lo squallore degli abitanti, la scarsità de comodi e delle bellezze cittadine; ivi mancavano tutti i segni della civiltà, casa di pubblici negozii, foro, teatro; ed abbondavano le note della tirannide e della servitù, castelli, carceri massicce, monasteri e case vescovili sterminate, altri pochi palagi vasti e fortificati tra numero infinito di tugurii e di capanne. Lo storico meritissimo Giuseppe Maria Galanti temeva dir cosa non credibile che nel feudo San Gennaro di Palma, distante quindici sole miglia (cinque leghe) da Napoli, visitato da lui nel 1789, abitassero in case i soli ministri del barone, e che il popolo, due mila uomini, si riparasse come bestie dalla inclemenza delle stagioni sotto graticci o pagliaje, e nelle grotte. Tal era la condizione de’ feudi; è frattanto in un reame che numera duemila settecento sessantacinque città, terre o luoghi abitati, soli cinquanta nel 1734, e non più di duecento nel 1789, non erano feudali. Ventura che i feudatarii, inciviliti dal secolo, vergognavano delle peggiori pratiche di padronaggio.
XX. Le riferite leggi su la economia dello stato furono le sole in 30 anni degne di memoria. l’amministrazione e la finanza durarono, come a’ tempi di Carlo, rozze e servili; non giovando a noi gli esempii di altri regni e della vicina Toscana, patria del Tanucci, dove Pietro Leopoldo promulgava l’affrancazione de’ possessi, la divisione delle terre, lo scioglimento delle servitù prediali, e (sua vera gloria) la libertà del commercio. Meglio in Napoli fu provvisto a’ giudizii ed a’ magistrati, parte di governo che appelliamo giustizia. Ristretta per nuovi provvedimenti la giurisdizione de’ baroni e ’l numero degli armigeri baronali, cresceva di altrettanto la potestà regia e comune; ma con essa l’autorità della curia, ormai sfrontatamente disonesta e pericolosa. Parecchie ordinanze intesero a frenare que’ vizii, soggettando i curiali a studii, ad esami, a discipline; moderandone l’avidità per tariffe, la malvagità per minacce; svergognandoli de’ nomi di cavillosi, ignoranti, scostumati. Ma non ostante valevano gli usi antichi, e la curia ingrandiva d’uomini d’ogni specie, anche di plebe, togati.
Furono i matrimonii sapientemente regolati da nuove leggi, le quali afforzando l’autorità paterna, vietando le querele di stupro per seduzione, invalidando le promesse e i giuramenti innanzi al sacerdote o all’altare, svanivano le insidie delle donne, le fughe degli sposi, i parentadi ineguali, con vantaggio de’ costumi e della quiete delle famiglie.
Statuto di maggior grido regolò i giudizii. Da che tra noi le magistrature sederono prime o più possenti tra gli ordini dello stato, elle, sdegnando il dire comune e semplice de ragionamenti, presero lo stile dell’autorità e del comando; la quale superbia velando la ignoranza di alcuni giudici, l’arbitrio altri, grata quindi a tutti, fece che le sentenze altro non fossero che intimate dichiarazioni di volontà e d’imperio. E poichè ad uomini avviliti nella servitù più costa il pensiero che l’obbedienza, il popolo restò cheto sino a quando dal miglior governo de’ due Borboni e dall’avanzato universale ingegno dirozzate le menti, mal soffriva que’ giudizii; dicendo che mascheravano con la brevità del comando, le ingiustizie, la venalità, le ambizioni de’ giudici. Nuova legge venne a quietare le sollecitudini del popolo; prescrivendo a’ magistrati, ragionassero le sentenze, dimandassero al re nuova legge se mancava nei codici, o il vero senso di alcun’altra, se dubbio. E allora i magistrati del regno ammutinarono, dicendo offesa la dignità, la indipendenza de’ giudici: opporsi, disobbedire, rassegnare gli officii, furono i primi tumultuosi consigli; ma dipoi sperando che i richiami e le brighe bastassero a rivocare la ingrata legge, riserbando per la estremità de casi gli estremi partiti, attesero a far chiare le loro ragioni. L’immenso numero de’ curiali, per ignoranza o adulazione o amore alle discordie, accompagnava e accresceva il grido de’ giudici.
Il supremo consiglio, primo de’ magistrati, era ordinato in quattro sezioni chiamate Ruote; e quando mai, per gravezza o dubbietà di alcuna lite, tutte in una si raccoglievano, tanta sapienza era creduta in quel consesso che i suoi giudizii avevano forza di legge. E nel caso presente il consiglio, nelle quattro ruote congregato, espose al principe gli errori e i danni del nuovo statuto, con audace ragionamento; e pubblicò lo scritto. Gli uomini più dotti sostenevano la sapienza del decreto; ed allora Gaetano Filangieri, della età che non compiva ventidue anni, venne la prima volta al cospetto del pubblico per un’opera che intitolò: Riffessioni politiche su la legge del 23 di settembre del 1774, e dimostrò che la libertà dei cittadini e la sovranità dell’imperio consistendo nella piena esecuzione delle leggi, l’arbitrio dei magistrati era tirannide sopra il popolo, ribellione al sovrano; piacque lo scritto e presagì la futura gloria del giovine. Il re con editto rispondendo al consiglio dichiarò: Essere decoro del magistrato la certezza della giustizia, e non, come pretenderebbe il supremo consiglio, il velo degli oracoli; spettare alla sovranità far nuove leggi, o chiarire i sensi oscuri delle antiche; spettare a’ giudici eseguirle; i responsi de’ dottori e gli articoli del commentatori essere studii a’ giudici, non leggi, stando le leggi nelle prammatiche.
Quindi l’editto rigettava le eccezioni proposte, biasimava i ritardi all’adempimento del decreto, è chiudeva il dire come appresso: «il re perdona nella umana fragilità e nelle assuefazioni del supremo consiglio, i sofismi escogitati ed esposti nel suo foglio; spera è che la obbedienza dei magistrati prevenga e disarmi la giustizia indivisibile della sovranità.» Per lo stile minaccevole dell’editto la curia chetò, è i curiali impauriti si dissero persuasi; nessuno de magistrati rassegnò l’uffizio, nessun partito estremo, che nella sconfitta onora l’umana dignità, fu praticato. E così da quel giorno, dimostrate le sentenze, la comune ragione migliorò,
XXI. Antica prammatica de’ principi aragonesi aveva stabilito nel regno il sindacato per gli amministratori del denaro pubblico e pe’ magistrati; erano sindacatori nella città capitale gli eletti delle piazze; nelle altre città e terre, i cittadini scelti dal popolo in parlamento: durava per ogni anno il cimento quaranta giorni, venti a ricevere, venti a discutere le accuse, nel qual tempo l’uffiziale messo ad esperimento restava privo d’impiego e di autorità; a ciascuno, fin della plebe, era concesso accusarlo di fatta ingiustizia o di giustizia negata; se andava immune, lettere patenti commnendavano la sua virtù, e se in contrario, aprivasi giudizio a suo danno. I re che succederono agli aragonesi trasandarono quegli ordinamenti che poi Carlo Borbone richiamò, Ferdinando accrebbe, ma senza pro, giacchè le altre parti di governo ed i costumi universali non toccavano a quell’altezza; spesso il timore della vicina rinascente autorità chiudeva il labbro degli offesi da giudici disonesti, e spesso privata vendetta dava travagli al giusto giudice sol perchè fu punitore di alcun prepotente. La Buona legge produceva frutti non buoni, come libertà che sta sola in mezzo a moltiplici servitù.
XXII. Le cose di giustizia fin qui descritte sono degne di lode; dirò le contrarie. Duravano come a tempi di Carlo i giudizi criminali; e però lo stesso processo inquisitorio, gli stessi scrivani inquisitori, tortura e supplizii agli accusati; il criterio de’ giudici arbitrario; e le sospezioni contro loro, innanzi ammesse, oggi da nuova legge rivocate. Mantenuto il giudizio del truglio, anzi fatto più frequente, e peggiorato perchè non interrogata la volontà del condannato, nè il suo consentimento necessario. Legge barbara puniva i ladri, detti saccolari dal rubar nelle tasche, con la tortura, per pruove benchè indiziarie, con processo inquisitorio ancorchè non compiuto, e non inteso l’accusato, nè difeso: riferisco le parole della prammatica. Legge più superba prescrisse il rispetto alla reggia; così appellando tutte le case del re, le ville, le abitazioni di campagna o di caccia, gli atrii, le corti, le officine de’ suddetti edifizii. comunque dal re non abitati: chi brandisse un’arma in que luoghi pena la morte. Altra legge punì i Franco-massoni, chiamati così dall’editto, agguagliandoli a’ rei di maestà giudicabili dal tribunale di stato con forma ad modum belli; e la pena, benchè non espressa, era, per la qualità del definito delitto, la morte. Poco appresso nuova legge agguaglià a Franco-massoni altre secrete adunanze, pericolose (dicevasi) alla quiete dello stato, all’autorità del sovrano; cominciarono i sospetti di regno. Leggere i libri del Voltaire portava a pena di galera per tre anni, e leggere la gazsetta di Firenze a sei mesi di carcere. I tratti di corda, più rari come sperimenti di procedura, si frequentavano come pene.
Composto novello magistrato col nome d’ Udienza Generale di Guerra e Casa Reale per giudicare le liti criminali e civili de’ militari e di altri favoriti del privilegio del foro, divenne più estesa, piena e continua la giurisdizione militare. Un generale dell’esercito era il capo, quattro magistrati erano i giudici; le forme brevi, le sentenze inappellabili. E dalle persone passando a’ luoghi, altra prammatica stabilì che le colpe o le civili controversie degli abitatori di certe case, o in certe strade della città, fossero trattate presso l’udienza generale di guerra. Lo spazio privilegiato nella sola Napoli era un buon vigesimo della città, e gli abitatori non meno di trentamila. L’esempio spandendosi nel regno, qualunque fortezza, o castello, o edifizio militare aveva intorno a sè terreno e cittadini liberi dalla giurisdizione comune. Più crebbe la intemperanza, prescrivendo che nessun tribunale potesse giudicare i misfatti e i civili negozii degli ufficiali delle segreterie di stato, perchè il re, secondo i casi, provvederebbe, La qual dispotica legge fu proposta dal marchese Tanucci, a giovamento di un uffiziale del suo ministero in causa civile.
Per tanti errori di governo crescevano di numero e di gravezza i delitti. Un bando del re contro i malfattori, diceva: «Sono continui i furti di strada e di campagna, i ricatti (delle persone cadute in preda degli assassini), le rapine, le scelleratezze; è perduta la sicurezza del traffico; sono impedite le raccolte.» Quindi comandava a’ magistrati ed alle milizie di arrestare o spegnere i turbatori della quiete pubblica; e consigliava ai mercatanti e ai viaggiatori (avvisandosi che il bando non bastasse) di andare a carovana ed armati. Spedì nelle province un brigadiere di esercito. Selaylos, con genti d’armi ed assoluto imperio per la distruzione de’ malfattori: e intanto invitandoli a tornare obbedienti, prometteva de passati misfatti dimenticanza e perdono; blandizie non agguerrite da pietà, e non accettate per ravvedimento, ma la necessità le persunadeva al governo ed a’ malfattori, come tregue domestiche e passeggiere. Concorrevano a peggiorare i costumi le rimissioni di colpa e pena alle occasioni delle felicità della reggia, matrimonii, natali; tanto frequenti che se ne contano diciannove nei trent’anni di questo libro: cosicchè il popolo quasi aggiravasi i cerchio perpetuo di delitti, di barbare pene, d’impunità e delitti peggiori.
XXIII. Ma buoni furono i provvedimenti per il commercio; e dopo che Ferdinando ebbe aggiunti nuovi statuti agli statuti del padre, comandò che disposti a libro componessero il codice di commercio. La qual opera compiuta per fatica di Michele Iorio, ed in quattro volumi pubblicata, non autenticata dal re, e negletta poco appresso per domestiche agitazioni e per la guerra, si tenne a documento di buon volere, o come studio e regola nelle cause commerciali. Fu istituito il tribunale dell’ammiragliato, speciale a decidere le cause commerciali e le civili degli addetti alla mercatura ed al mare, sotto l’autorità del magistrato supremo di commercio eretto da Carlo. Furono rammentate le pene contro i fallimenti dolosi, tanto inacerbite che leggo nelle prammatiche, raccapricciando la mutilazione di membra. Un duca di famiglia nobilissima e tra i primi della corte, debitore per polizza di cambio, schivando il pagamento e le punizioni sotto 1’ombra del nome, accusato al re, fu sottoposto alle discipline comuni: il re dicendo, che non altezza di grado, nè chiarezza di natali, nè autorità di magistratura basterebbe ad assicurare il debitore quando fosse obbligato per lettere cambiali. Altra legge instituì la Borsa di commercio, e provvide che i cambii con le nazioni oltre mari ed oltre monti si facessero direttamente, e non più come innanzi per le città mezzane di Roma, Livorno, Genova e Venezia. Dopo le regole date al commercio, il re confermò gli antichi trattati di navigazione con altre genti, e novelli ne strinse; 1°. con la reggenza di Tripoli nell’agosto del 1785; a condizioni eguali per i negozii, ma più onorevoli al re per dignità e potenza; essendo serbata da’ cieli ad età più misera per la napoletana monarchia fin la vergogna di restar vinta da’ Tripolini. 2°. Con la Sardegna nel giugno del 1786. 3°. Con la repubblica di Genova nell’anno e mese istesso. 4°. Con la Russia nel maggio del 1787; concordando non solamente quanto al commercio, ma (per casi di guerra) ne’ doveri scambievoli di neutralità, secondo il giure delle nazioni.
XXIV. In ogni parte dell’amministrazione vedevi statuti buoni appresso ai contrarii, ed i primi superare i secondi; la sola milizia per naturale decadimento delle cose che si abbandonano, da peggio in peggio discendeva; la guerra obliata, da che l’ultima fu del 1744: la pace gustata e naturata; il cielo di Napoli benigno e lascivo; il terreno ubertoso; gli uomini come il clima; il re dedito a’ piaceri; i suoi ministri desiderosi di successi civili e di comodi; la curia nemica degli ordini militari; la regina istessa cupida di fama e d’impero ma trascurante di milizie perchè allora inutili alle ambizioni di regno; i reggimenti formati da Carlo già infraliti da vecchiezza; i muri delle fortezze sdruciti; vuoti gli arsenali; la scienza, le arti, gli ordini, gli usi della milizia, si obliarono.
Il re, quando era fanciullo, compose un battaglione che appellò de’ Liparotti; e insieme si esercitavano per giovanile diletto al maneggio dell’armi. Quindi fondò il collegio militare dei cadetti per ordinanze compilate da uffiziali nè dotti nè esperti della guerra. E poi coscrisse quattordici migliaja di militi civili nel solo regno di Napoli, delle classi più abiette della società, bastando dire che la baronia, la nobiltà, il dottorato, il possedimento di beni stabili, l’esercizio delle professioni o delle arti esentavano da’ ruoli; vi entravano gl’infimi cittadini; e meritamente, da che la milizia era lo stato più basso della nazione. Spesso i rei, e di misfatti più infami, si condannavano al militare servizio; e più spesso mutavano in soldati i galeotti e i prigioni. Tale era lo stato militare nell’anno 1780, quando per avvenimenti, che tra poco dirò, fu levato un esercito.
XXV. La regina, sgravatasi di un principe, pretese l’ingresso è il voto ne’ consigli dello stato, come stabilivano i capitoli delle sue nozze. Il re non faceva contrasto al desiderio, ma il ministro Tanucci che temeva l’ingegno, l’alterigia e ’l casato di lei, le si opponeva con segreti maneggi e quindi arditamente alla scoperta; ella, rimasta vincitrice, discacciò il ministro. Re sbandito dal regno non è della perdita querulo e doloroso quanto fu il Tanucci poi che lasciò la sedia ministeriale; l’abbandono de’ creduti amici, la irriverenza de’ sottoposti, le sale deserte, la mutata scena del caduto potere, antichi vizii, comparivano al Tanucci maravigliosi effetti di corruttela presente; così che per fuggire l’odiosa vista degli uomini, si riparò alla campagna dove finì la vita. Ministro del re in Napoli l‘anno 1734, licenziato dall’ufficio l’anno 1777, governò lo stato con potenza di principe 43 anni. morì l’anno 1783 senza figliuoli; e lasciò vecchia consorte, quasi povertà, e buona fama.
La caduta del Tanucci afforzò nelle opinioni de’ sudditi e ne‘ consigli dello stato la potenza della regina; la quale nella valida età di 25 anni, avventurosa di molti figli, bella, superba per natura e per la grandezza di sua casa, potè di facile assoggettare il marito, solamente inteso a‘ corporali diletti. Mutò le relazioni straniere, rompendo i legami con la Spagna, ed inchinando più all’Inghilterra che alla Francia. Per opera di lei fu ministro in luogo del Tanucci il marchese della Sambuca, ambasciatore gradito alla corte di Vienna. Il quale venuto in Napoli secondò le voglie di lei onorevoli, perchè, ad esempio dei fratelli bramando ancor essa il plauso de’ sapienti, attendeva a riformare in meglio il reame. Divenuta così la speranza de’ grandi, degli ambiziosi, degli onesti, del popolo, sentì la sua possanza e ne fu lieta.
La politica nuova faceva il regnante più libero e più altiero; ma, non più all’ombra di re stranieri e potenti, bisognava ch’ei provvedesse alle proprie sorti, reame invidiato e ricco, scemo qual era di esercito e di armata, rimaneva esposto ai pericoli della prima guerra; estese marine non avevano difesa, e ormai vasto commercio riposava su la fede cangiante dei trattati e le fallaci promesse de’ Barbareschi. Bisognavano vascelli e milizia, ma non trovando fra i soggetti chi sapesse abbastanza di cose militari, piaceva cercare tra gli Austriaci un generale di esercito, e altrove un ammiraglio che non fosse nè Spagnuolo nè Francese. Tali cose agitavano ne’ privati della regina uomini alti di autorità e d’ingegno; ammessi, chi per afforzaew il segreto voto di lei nel consiglio del re o proporlo come fosso loro propri, e chi per dar corso e credito agli editti ed alle opere del governo. In un dei circoli il principe di Caramanico, grato e forse caro alla regina, propose di chiamare ammiraglio del navilio napoletano il cavaliere Giovanni Acton, negli stipendii in quel tempo, della Toscana, ornato di fresca gloria nella impresa di Algeri, con fama di esperto in arti marinaresche e guerriere, imprendente, operoso. Il marchese della Sambuca secondò la proposta perchè, assetato di ricchezza e di subiti guadagni, già dechinando dal favore de’ due sovrani, adulava le opinioni de’ potenti. E perciò, non contrastato il parere del Caramanico, ed acconsentito dalla regina e poco appresso dal re, fu mandato a Firenze il cavaliere Gatti per avere al nuovo ammiraglio licenza dal granduca Leopoldo. Cosi Acton venuto in Napoli nel 1779, bene accolto dalla regina, svagatamennte dal re, lodato dai grandi, fu direttore del ministero di marina.
La finanza dello stato decadeva per quel che innanzi ho detto; e perchè, accresciute le spese della reggia, non bastavano le gravezze antiche, e sembravano le nuove oltrachè sconvenienti a tempi di pace, insopportabili da’ popoli. Il marchese Caracciolo ambasciatore in Francia, aveva riputazione di dottrina nelle materie di economia, e perciò chiamato al ministero in luogo del Sambuca, fu creduto che ristorerebbe l’azienda pubblica senza la increscevole minorazione delle spese, che pure ne’ consigli di stato timidamente si proferiva; e per quella fidanza duravano lo spendere del re, le prodigalità della regina, il lusso della casa, la difficoltà dell’erario. II marchese Caracciolo, dotto e filosofo dei tempi suoi, ma per troppa età indebolito d’animo e di mente, vide gli errori dell’amministrazione, sentì che a lui mancavano i giorni e le forze a correggerli; il favore del Caramanico, la nascente potestà dell’Acton non concitavano in lui nè gelosia, nè disdegno; già scorsa l’età delle passioni, egli volea godere nel riposo gli onori passati e i comodi presenti. La debilità del ministro, appigliata come avviene in dispotiche signorie a tutte le membra dello stato, agevolò le speranze dell’Acton.
XXVI. La corte di Roma quando vide Napoli governato da ministro debole alle contese, propose novello concordato; ed, accettata l’offerta, inviò per le sue parti monsignor Caleppi a referire pretensioni ardite e sterminate; ma pure si concordarono ventidue punti, rimanendo controversia su la nunziatura e per la elezione dei vescovi. Voleva il papa che avessero i nunzii giurisdizione, uomini armati, carceri; e in quanto a prelati che, proposti dal re, fossero da Roma riconosciuti degni ed accettabili per giudizio o almeno in coscienza del pontefice; formole tra le usate con le quali era stata per secoli esercitata la tirannide pontificale: perciò non accette. E tirando a lungo e a fastidio le contese, rotto il congresso, fu il Caleppi, nunzio e negoziatore, discacciato dal regno. L’ultima gloria del ministro Tanucci era stata l’abolizione della chinea; l’ultima del Caracciolo fu la descritta resistenza alla corte di Roma; quelle erano le libertà, l’ardire, il talento del tempo. Mentre duravano le discordie, si andava rammentando ad onore del ministro ch’egli da vicerè in Sicilia sbandì il santo-uffzio, ed applaudì al popolo palermitano che, impedito a distruggere il palazzo della inquisizione, ruppe in pezzi e disperse la statua in marmo di san Domenico, bruciò gli archivii, e atterrando le porte delle carceri condusse liberi e trionfanti gl infelici che vi stavano chiusi. Ne’ quali tumulti furono visti audacissimi ed implacabili i più anziani, canuti e curvi sotto al peso degli anni, ma che, ricordando l’atto-di-fede del 1724, raccontavano a’ giovani per più accenderli le sventure di Geltrude e di frà Romualdo, riferite nel primo libro di queste istorie. Così laudato dal mondo il ministro Caracciolo pieno d’anni morì.
La fortuna agevolava le ambizioni al cavalier Acton, il quale, vivente il Caracciolo, fu ministro per la marina; e piacendo alla regina, e secondando il genio del tempo e del governo, facevasi ammirare dalla corte, Fu, indi a poco, ministro per la guerra; e, morto il Caracciolo, ebbe carico degli affari esteriori. Scaltro per natura e pratico degli affetti umani, temeva il favore non appieno caduto del Caramanico, e la vicinanza nella reggia, le abitudini, le memorie; ma ottenne che il rivale fosse mandato ambasciatore a Londra, indi a Parigi, e infine vicerè nella Sicilia. Pur sospettava il giudizio del pubblico, e a farselo benigno lusingava i migliori del regno: mostravasi avverso alla feudalità; dileggiava gli ozii dei nobili; introdusse le scuole normali e le diffuse; soccorreva il commercio ristaurando i porti di Miseno, Brindisi e Baja; disegnando molte strade regie o provinciali; pubblicando per bandi la tolleranza religiosa in Brindisi e Messina. La condizione di straniero non gli toglieva rispetto dai Napoletani troppo usati a quella pazienza; e la scarsezza di personaggi adatti o ambiziosi di ministeri lo scampava da nemicizie gravi e da intoppi. Egli schivando per sè la cura pericolosa del denaro pubblico, ma sospettando che alcun ministro, ingrandito dalla grandezza dei bisogni, potesse vincerlo in potenza e in favore, fece abolire il ministero per la finanza, e affidarne il carico ad un consiglio; perchè spartendo sopra tredici consiglieri il merito e le lodi del successo, nessun uomo salirebbe in fama. Gli atri carichi di governo, la giustizia, il sacro culto, le amministrazioni erano affidati ad uomini della curia, Carlo de Marco, Ferdinando Corradini, Saverio Simonetti, appellati ministri, ma invero soggetti al cavaliere Acton; il quale per uffizio, per favore, per servito degli altri, era nelle opinioni e nel fatto ministro primo e solo, potente quanto re; ma più venerato e temuto del re Ferdinando, spensierato imbestiava nei grossi diletti della vita.
Il cavaliere Acton nominato maresciallo di campo, prese da quel giorno titolo d generale, e lo serbò sino alla morte; poi tenente-generale, capitan-generale; decorato di tutti gli ordini cavallereschi del regno e di parecchi stranieri, elevato al grado di lord per servigi resi da ministro di Napoli alla Inghilterra, fatto ricco straboccheevolmente, sano e bello della persona, nessun dono della fortuna invidiava. Ma spesso addolorato (come taluno di sua famiglia mi diceva) sfogava per vane afflizioni quella mestizia che in contrapposto della contentezza mette natura in ogni uomo; così che vediamo piangere nelle felicità, ridere nelle miserie; e sconmparendo i beni e i mali della sorte. attristarsi e rallegrarsi quanto vuole, nella eguaglianza dataci da Dio. umana vita.
Egli prese a formare il navilio e l’esercito. Bisognando tante navi che difendessero le marine e intimorissero i piccoli potentati Barbareschi, il meno od il troppo nuoce in vario modo; ma per ambizioni vaste della regina e per grandigia del ministro si fabbricarono molti vascelli, fregate, altri legni, che superiori allo stato del commercio lo peggioravano, tenendo al servizio delle navi da guerra i marinari addetti al traffico. Ed oltracciò l’erario per la inutile spesa impoveriva, e nuove cagioni di alleanze o di nemicizie straniere ne sorgevano; come difatti assai presto per l’acquistata potenza in mare fummo forzati a ingrate necessità. Essendo la nostra milizia in nome di trentamila soldati ma in fatto di quattordicimila, fu primo pensiero del ministro ricomporre i reggimenti, così che tornasse intero l’esercito: e per quello effetto con legge nuova impose alle comunità buon numero di fanti, ed alla baronia cavalieri e cavalli: poscia poscia i volontarii, gl’ingaggiati, i vagabondi, i tratti dalle prigioni e dalle galere aggiungevano al contingente. Chiamarono ad instruire le nuove schiere il barone Salis dai Grigioni; e per l’artiglieria il colonnello Pomereul francese, noto in patria per ingegno e servigi. Molti miliziani e sergenti stranieri vennero invitati o condotti dal Salis e dal Pomereul; e tra loro (sergente) Pietro Augereau, quell’istesso che Anni dopo, generale della repubblica francese maresciallo dell’impero e duca di Castiglione, empiè molte carte della storia: e (tenente) Giovanbattista Eblè, poi primo generale dell’artiglieria di Francia, istromento di molte vittorie, morto dalla guerra nel 1812: avventuroso che non vide le mutate bandiere.
La leva degli uomini increbbe agli avviliti popoli napoletani: e le discipline, gli usi, le voci forestiere a’ soldati, e tanto più agli uffiziali maggiori che velavano col nome di onor di patria l’ambizione di comandare l’esercito: stolta superbia perchè ad essi mancava l’uso delle milizie, perduto nelle corruttele di oziosa città. Si alzò tanto grido che il governo pigliandone sospetto di pericolosa scontentezza, congedò il Salis ed altri uffiziali stranieri; non già il Pomereul, che avendo affare con poca parte dell’esercito e con uffiziali meno della comune ignoranti, non aveva concitate le opposizioni della moltitudine e della invidia. Ne derivò che l’esercito decadde, l’artiglieria migliorò: cominciarono gli odii del popolo contro l’Acton e la regina; crebbe l’amore per il re, tenulo (ed era) avverso a quelle novità, benehè si espedissero in suo nome, per sua pazienza ai desiderii della moglie e del ministro.
La fa della ingrandita potenza del regno diede a’ Borboni di Francia e di Spagna brama di legami più stretti col re delle Sicilie; ma gli affetti e i disegni di questa corte essendo mutati, ebbero risposte fredde e infine ripulse; e però Carlo III con lo stile di re, di padre, di benefattore, scrisse al figlio di cacciare dal ministero e dal regno il mal favorito Giovanni Acton: ma non fu ascoltato: Indi a poco propose di unire alle flotte spagnuole per l’America due vascelli napoletani e quanti legni mercantili ei volesse; e pure quella offerta, in tanti modi giovevole, fu ricusata. Si negarono alla Francia i legnami per costruzioni navali, dati ab antico a largo prezzo, e soperchianti nei boschi delle Calabrie. Tutte le asprezze a que’ re congiunti, tutte le cortesie ai sovrani dell’Austria e della Inghilterra. Per le quali cose Luigi XV fu avverso alla corte di Napoli; Luigi XV dopo speranze di amicizia fallite, tornò contrario: lo stesso Carlo III morì scontento del figlio.
XXVII. L’ordine de’ tempi mi ha condotto all’anno 1783, quando terremuoto violentissimo abbattè molte città, scompose molti terreni della Calabria e della Sicilia con uccisione di uomini e greggi, e universale spavento nei due regni: della quale sventura dirò le parti più memorabili. Il 5 di febbraio, mercoledì, quasi un’ora dopo il mezzogiorno, si sconvolse il terreno in quella parte della Calabria ch’è confinata da’ fiumi Gallico e Metramo, da’ monti Teio, Sagra, Caulone e dal lido, tra que’ fiumi, del mar Tirreno. Lo chiamano Piana perchè il paese sotto gli ultimi Apennini si stende in pianura per ventotto miglia italiane e diciotto in larghezza. Durò il tremuoto cento secondi: sentito sino ad Olranto, Palermo, Lipari e le altre isole Eolie; ma poco nella Puglia e in Terra-di-Lavoro; nella città di Napoli e negli Abruzzi, nulla. Sorgevano nella Piana centonove città e villaggi, stanze di centosessantasei mila abitatori: e in meno di due minuti tutte quelle moli subissarono con la morte di trentaduemila uomini, di ogni sesso ed età, ricchi e nobili più che poveri o plebei: alcuna potenza non valendo a scampare da que’ subiti precipìzii.
Il suolo della Piana, di sasso granito dove le radici del monte si prolungano, o di terre diverse trasportate dalle acque che scendono dagli Apennini, varia di luogo in lunogo per saldezza, resistenza, peso e forma. E perciò, qualunque fossero i principii di quel terremuoto, vulcanici secondo gli uni, elettrici secondo gli altri, ebbe il movimento direzioni d’ogni maniera, verticali, oscillatorie, orizzontali, vorticose, pulsanti; ed osservaronsi cagioni differenti ed opposte di rovina: una parte di città o di casa sprofondata, altra parte emersa; aberi sino alle cime ingojati presso ad alberi sbarbicati e capovolti; e un monte aprirsi e precipitare mezzo a diritta, mezzo a sinistra dell’antica positura; e la cresta, scomparsa, perdersi nel fondo della formata valle. Si videro certe colline avvallarsi, altre correre in frana, e gli edifzii soprapposti andar con esse, più spesso rovinando, ma pur talvolta conservandosi illesi, e non turbando nemmeno il sonno degli abitatori; il terreno fesso in più parti formare voragini, e poco presso alzarsi a poggio. L’acqua, o raccolta in bacini, o fuggente, mutare corso e stato; i fiumi adunarsi a lago o distendersi a paduli, o, scomparendo, sgorgare a fiumi nuovi tra nuovi borri, e correre senz’argini a nudare e insterilire fertilissimi campi. Nulla restò delle antiche forme; le terre, le città, le strade, i segni svanirono; così che i cittadini andavano stupefatti come in regione peregrina e deserta. Tante opere degli uomini e della natura nel cammino de’ secoli composte, e forse qualche fiume, o rupe eterna quanto il mondo, un solo istante disfece. La Piana fu dunque il centro del primo terremoto: ma per la descritta difformità del suolo vedevi talora paesi lontani da quel mezzo più guasti de’ vicini.
Alla mezzanotte del medesime dì vi fu nuova scossa, forte pur essa ma non crudele quanto la prima: perciocchè le genti, avvisate dal pericolo e già prive di casa e di ricovero, stavano attonite ed affannose alio scoperto. Solamente più soffersero dal secondo moto che dal primo le nobili città di Messina e Reggio, e tutta la contrada della Sicilia che dicono Valdemone. Messina in quell’anno 1783 non aveva appieno ristorato i danni del tremuoto del 1744, così che scuotendo palagi e terre già conquassati, tutto precipitò; si accumularono nuove a vecchie rovine. Duravano i tremuoti, sovvertendo le terre medesime, e tornando spesso allo scorperto materie ed uomini giorni avanti sotterrati. L’alta catena degli Apennini e i grossi monti sopra i quali siedono Nicòtera e Monteleone resisterono lungo tempo, e vi si vedevano fessi gli edifizii, non atterati, e mossa, non già sconvolta la terra. Ma il dì 28 di marzo di quell’anno medesimo, alla seconda ora della notte, fu inteso romor cupo come rombo pieno e prolungato: e quindi appresso moto grande di terra, nello spazio tra i capi Vaticano. Sùvero, Stilo, Colonno, 1200 almeno miglia quadrate, che fu solamente il mezzo dello scotimento, percioccchè la forza pervenne a’ più lontani confini della prima Calabria, e fu sentita per tutto il regno e nella Sicilia. Durò novanita secondi, spense duemila e più uomini; diciassette città, come le centonove della Piana, furono interamente abbattute; altre ventuna rovinate in parte ed in parte cadenti; i piccoli villaggi, subissati o crollanti, più che cento e quel che un giorno stava ancora in sublime, nel vegnente precipitava; imperocchè i moti durarono sempre forti e distruggitori, sino all’agosto di quell’anno, sette mesi: tempo infinito, perchè misurato per secondi.
XXVIII. I turbini, le tempeste, i fuochi de’ vulcani e degl’incendii, le piogge, i venti, i fulmini accompagnavano i tremuoti, tutte le forze della natura erano commosse; pareva che spezzati i legami di lei, quella fosse l’ora novissima delie cose ordinate. Nella nette del 5 di febbrajo, mentre scoteva la terra, l’aeremoto rompeva e balestrava le porti elevate degli edifizii; un campanile in Messina fu scapezzato, un’antica torre in Radicena fu mozzata sopra la base, ed un rottame (tanto massiccio che tiene in seno parte della scala) sta nella piazza dove fu lanciato, e lo mostrano per maraviglia al forestiero; molti tetti o cornici non caddero su le rovine del proprio edifizio, ma scagliati dal turbine andarono a colpire luoghi lontani. Intanto il mare tra Cariddi, Scilla e le piagge di Reggio e di Messina, sollevato di molte braccia, invadeva le sponde, e ritornando al proprio letto trascinava gregi ed uomini. Così morirono intorno a duemila della sola Scilla, i quali stavano sulla rena o nelle barche per campare da’ pericoli della terra; il prìncipe città, ch’era tra quelli, scomparve in un istante, nè i servi o i parenti, o le promesse di larghissimi premii poterono far trovare il cadavere per onorarlo di alcuna tomba. Enta e Stròmboli più del solito vomitarono lava e materie, disastri poco avvertiti perchè assai men gravi degli altri che si pativano; il Vesuvio durò nella quiete. Fuoco peggiore de’ vulcani veniva dagli accidenti del tremuoto, avvegnachè ne’ precipizii delle case, le travi cadute su i focolari bruciavano, e le fiamme dilatate dal vento apprendevano incendii tanto vasti che parevano fuochi uscenti dal seno della terra; donde le false voci e le credenze di ardori sotterranei. Tanto più che udivano fremito e rombo come di tuono, talora precedere gli scuotimenti, talora accompegnarli, ma più sovente andar solo e terribile. Il cielo nubiloso, sereno, piovoso, vario, nessun segno dava del vicino tremuoto; le note di un giorno fallavano al vegnente, ed altre si citavano fino a che fa visto che sotto qualunque cielo scuoteva la terra. Comparve nuova tristezza; nebbia folta che offuscava la luce del giorno e addensava le tenebre della notte, pungente agli occhi, grave al respiro, fetida, immobile, ingomberante per venti e più giorni l’aere delle Calabrie; indi melanconie, morbi, ambasce agli uomini ed a’ bruti.
XXIX. Incomincio racconto più mesto; la miseria degli abitanti. Al primo tremuoto del 5 di febbrajo quanti erano dentro le case della Piana morirono, fuorchè i rimasti mal vivi sotto casuali ripari di travi o di altre moti che nelle cadute inarcarono: fortanati, se in tempo dissepolti; ma tristissimi se consumarono per digiuno l’ultima vita. Coloro che per caso stavano allo scoperto furono salvi, e nemmen tutti, altri rapiti nelle voragini che sotto ai piedi si aprivano, altri nel mare dalle onde che tornavano, altri colti dalle materie projettate dal turbine, infelicissimi i rimanenti che miravano rovinate le case, e soggiacenti la moglie, il padre, i figliuoli. E poichè, anni dopo, io stesso ragionai co’ testimonii della catastrofe e con uomini e donne tratti dalle rovine, potrò, quanto comporta l’animo e l’ingegno, rappresentare le cose morali de’ tremuoti delle Calabrie, come finora ho descritto più facilmente le parti fisiche e materiali.
Alla prima scossa nessun segnale in terra o in cielo dava timore o sospetto, ma nel moto ed alla vista dei precipizii, lo sbalordimento invase tutti gli animi, così che, smarrita la ragione e perfino sospeso l’istinto di salvezza, restarono gli uomini attoniti ed immoti. Ritornata la ragione, fu primo sentimento de’ campati certa gioja di parziale ventura, ma già fugace perchè subito la oppresse il pensiero della famiglia perduta, della casa distrutta; e fra tante specie presenti di morire, il timore di giorno estremo e vicino, più gli straziava il sospetto che i parenti stessero ancora vivi sotto le rovine, sì che vista l’impossibilità di soccorrerli, dovevano sperare (consolazione misera e tremenda) che fossero estinti. Quanti si vedevano padri e mariti aggirarsi fra i rottami che coprivano le care persone, non bastare a muovere quelle moli, cercare invano ajuto ai passeggeri; e alfine disperati gemere dì e notte sopra quei sassi. Nel quale abbandono de’ mortali, rifuggendo alla fede, votarono sacre offerte alla Divinità, e vita futura di contrizione e di penitenza; fu santificato nella settimana il mercoledì, e nell’anno il 5 di febbrajo; ne’ quali giorni per volontarii martorii e per solenni feste di chiesa speravano placare l’ira di Dio.
Ma la più trista fortuna (maggiore di ogni stile, d’ogni intelletto) fu di coloro che viventi sotto alle rovine aspettavano con affannosa e dubbia speranza di essere soccorsi: ed incusavano la tardità, e poi l’avarizia e l’ingratitudine dei più cari nella vita e degli amici; e quando oppressi dal digiuno e dal dolore, perduto il senno e la memoria, mancavano, gli ultimi sentimenti che cedessero erano sdegno a’ parenti, odio al genere umano. Molti furono disotterrati per lo amore dei congiunti, ed alcuni altri dal tremuoto istesso che sconvolgendo le prime rovine li rendeva alla luce., Quando tutti i cadaveri si scopersero, fu visto che la quarta parte di que’ miseri sarebbe rimasta in vita, se gli ajuti non tardavano; e che gli uomini morivano in attitudine di sgomberarsi d’attorno i rottami; ma le donne con le mani sul viso, o disperatamente alle chiome; anche fu veduto le madri, non enranti di sè, coprire i figliuoli facendo sopr’essi arco del proprio corpo; o tenere le braccia distese verso que’ loro amori, benchè impedite dalle rovine non giungessero. Molti nuovi argomenti si raccolsero della fierezza virile e della passione delle donne. Un bambino da latte fu disotterrato morente al terzo giorno, nè poi morì. Una donna gravida restò trent’ore sotto i sassi, e dalla tenerezza del marito liberata, si sgravò giorni appresso di un bambino col quale vissero sani e lungamente; ella richiesta di che pensasse sotto alle rovine. rispose: «Io aspettava.» Una fanciulla di undici anni fu estratta al sesto giorno e visse; altra di sedici anni, Eloisa Basili, restò sotterra undici giorni tenendo nelle braccia un fanciullo che al quarto morì, così che all’uscirne era guasto e putrefatto; ella non potè liberarsi dell’imbracciato cadavere perchè stavano serrati fra i rottami, e numerava i giorni da fosca luce che giungeva sino alla fossa.
Più maravigliosi per la vita furono certi casi di animali; due mule vissero sotto un monte di rovine, l’una ventidue giorni, l’altra ventitrè; un pollo visse pur esso ventidue giorni; due majali sotterrati restarono viventi trentadue giorni. E cotesti bruti e gli uomini portavano, tornando alla luce, una stupida fiacchezza, nessuno desiderio di cibo, sete inestinguibile e quasi cecità, ordinario effetto del prolungato digiuno. Degli nomini campati alcuni tornarono sani e lieti, altri rimasero infermicci e melanconici; la qual differenza veniva dall’essere stati soccorsi prima di perdere la speranza o già perduta; la giovinetta Basili, benchè bella, tenuta comodamente nella casa di suo padrone, ricercata ed ammirata per le sue ven ture, non aprì mai nella vita che le restò il labbro al riso. Ed infine que’ dissepolti, dimandati de’ loro pensieri mentre stavano sotterra, rispondevano le cose che ho riferite, e ciascuno terminava col dire: «fin qui mi ricordo, poi mi addormii.» Non ebbero lunga vita; l’aflitta Basili morì giovane che non compiva i venticinque anni, non volle marito, non velo di monaca; si piaceva star sola, seduta sotto un albero, donde non si vedessero città o case; volgeva altrove lo sguardo all’apparir di un bambino.
XXX. Furono lenti gli ajuti a’ sepolti, ma non per empietà de’ congiunti o del popolo; chè pure ne’ tremuoti di Calabria gli uomini furono, come sempre, più buoni che tristi, e fra tutti alcuni profondamente malvagi, altri eroicamente virtuosi, Un uomo ricco faceva cavare ne’ rottami della casa; e quando scoprì e prese il denaro ed altre dovizie intermise l’opera, benchè lasciasse sotto alle rovine, forse ancora non morti, lo zio, il fratello, la moglie. Contendevano il possesso di ampio patrimonio due fratelli; ed cerano, come avviene tra congiunti, l’uno dell’altro adirati e nemici: Andrea cadde con la casa; Vincenzo ereditava il contrastato dominio, ma sollecito, irrequieto, solamente intese a disotterrare il fratello, e, fortunato, lo strasse vivo. Appena appena si ristabilirono i magistrati, l’ingrato Andrea, sordo alle proposte di accomodamento, ridestò il litigio e ’l perdè. Se tutti gli esempii di pietà o di fierezza, di riconoscenza o d’ingratitudine io narrassi, empirei molte pagine per dimostrare la già vieta sentenza essere l’uomo l’ottimo, il pessimo delle cose create. Ma la tardità negli scavi dipendeva dalla cura della propria salvezza, e dallo sbalordimento che ne’ primi giorni oppresse ogni altro pensiero, ogni altro affetto. Privi di casa nel più rigido mese dell’inverno, sotto piogge stemperate, e turbini, e vento; distrutte le canove, sperduta l’annona, paurose le vicine genti di portar vettovaglie là dove continua e facile era la morte; tutti spendevano l’opera e ’l denaro a comporre rozza baracca, e procacciare poco cibo a sostegno di vita. Era secondo e debole il pensiero de’ congiunti.
Quelle sventure divennero per lungo uso comportabili; le baracche di rozzissime si fecero migliori, poi belle; gli abitanti de’ lontani paesi, allettati dal guadagno, portavano vettovaglie ed arnesi di comodità e di lusso; e, obliati i danni e le affizioni, tornavano i godimenti della vita, gli amori, i matrimonii; si ricompose la società ma in peggio. Avvegnachè l’universale sentimento de’ primi giorni essendo stato il terrore, quietarono con gli altri affetti l’odio, la cupidigia, la vendetta, e mancando stimolo a’ delitti, fu quel maligno popolo in que’ giorni divoto ed innocente; se non se andava ripetendo, a vedere i grandi a capo chino ed abbietto; «Eh sì che tutti, signori e poveri, siamo eguali!» con malevole contentezza scusabile in vassalli di superbiosi baroni. Poscia i terrazzani, i servi, i tristi e i già prigioni (perciocchè agli orribili scuotimenti del 5 di febbrajo senso di umanità fece dischiudere le carceri) venivano a frugare nelle rovine, rubare nelle mal custodite baracche, rapire, uccidere; fu grande il numero de’ misfatti. E cotesti uomini guadagnavano largamente per l’opera delle braccia in ergere le capanne, o scavare nelle rovine, o andar lontano a comprar viveri; così che molte agiate famiglie impoverivano, e più che altrettante salirono a ricchezza. I beni mobili furono la più parte distrutti; il nuovo corso delle acque tolse terre o ne donò; terreni già fertilissimi sterilirono; agnati lontani di famiglie spente accolsero eredità non sperate; per terreni gli uni agli altri soprapposti, e per altri casi di dominio, nei quali mancavano i precetti del codice o la guida dell’umano giudizio, generandosi quantità di transazioni, la proprietà fu divisa e spicciolata; distrutti i processi con gli archivii, i fogli e i documenti con le case, si sperdevano le private ragioni o si confondevano. Le ricchezze furono dunque sconvolte quanto la terra; e que’ mutamenti di fortuna, rapidi, non pensati, peggiorarono i costumi del popolo.
XXXI. Velocissime giunsero in Napoli le prime nuove, ma per la stessa celerità non credute, e perchè le verità che avanzano l’intelletto comune danno le apparenze della fallacia. Altre voci di fama, altri fuggiaschi, e nuncii, e lettere avvisarono il governo de’ troppo veri disastri, e subito, quanto puote umana debilità contro le forze sterminate della natura, fu provvisto al soccorso di que’ popoli. Vesti, vettovaglie, denari, medici, artefici, architetti; e poi dotti accadeemici, e archeologi, e pittori andarono nella Calabria; capo di tutti, rappresentante ii principato, il maresciallo di campo Francesco Pignatelli: una giunta di magistrati reggeva le amministrazioni; una cassa detta sacra raccoglieva le entrate pubbliche o della chiesa, e manteneva gli ordini dello stato; le taglie che i possessi ecclesiastici pagavano per metà, come dal concordato del 1741, furono agguagliate nelle Calabrie alla sorte comune; s’impose, per soccorrere le due rovinate province, alle altre dieci del regno tassa straordinaria d’un millione e. ducentomila ducati. Si andava ristorando quell’afflitta società.
Quando nella estate, per fetore de’ cadaveri (bruciati ma non tutti e tardi), ed acque stagnanti, meteore insalutari, penurie, dolori, sofferenze, si manifestò ed estese nelle due Calabrie morbo epidemico, il quale aggiunse morti alle morti, e travagli ai travagli di quel popolo. Tanto miseramente procedè quell’anno; ed al cominciare dei 1784, fermata la terra, spenta la epidemia, scordati i mali o gli animi rassegnati alle sventure, si volse indietro il pensiero a misurare con freddo calcolo i patiti disastri. In dieci mesi precipitarono duecento tra città e villaggi, trapassarono di molte specie di morte sessantamila Calabresi; e in quanto a’ danni, non bastando l’arte o l’ingegno a sommarli, si dissero meritamente incalcolabili; furono al giusto i nati, non pochi e maravigliosi i matrimonii, i delitti molti ed atroci; i travagli, le lagrime infiniti.
XXXII. Ne’ primi giorni dell’anno 1784 venne in Napoli, sotto nome privato l’imperatore Giuseppe II; il quale, rifiutati gli onori debiti al grado, e le feste che la reggia preparava, dimandò chi gli fosse guida e maestro ad osservare le cose notabili della città, e dalla regina ebbe Luigi Serio, cultore delle lettere, dotto, ameno, eloquente. Giuseppe bramò visitare le recenti rovine delle Calabrie, ma lo ritennero i disagi del cammino, la stagione del verno, e ‘l mancar di strade regie o buone. Rivide que’ Napoletani (più conti per sapienza e per civili virtù) che aveva altra volta conosciuti; e rammentando loro î disegni filosofici e arditi che egli faceva per il governo dell’impero, si partì lasciando fama egregia e benedetta.
Agli esempii di lui e di Leopoldo gran duca della Toscana, desiderò la regina di Napoli, ed invogliò il re di correre la Italia; ma la superbia de’ Borboni non tollerando nomi privati, piccolo corteggio, fasto civile, viaggiarono con pompa regia: e il dì 30 di aprile dell’anno 1785 imbarcarono sopra vascello riccamente ornato, che, seguito da altre dodici navi da guerra, volse a Livorno; non tocchi gli stati di Roma per disdegno di riverire il pontefice, allora nemico. Arrivati in porto, furono subito visitati da’ prìncipi della Toscana, co’ quali passarono a Pisa e Firenze. Fu rinnovato in Pisa il vecchio arringo del ponte, ma senza gli usi guerrieri di età più maschia: sì che a’ molti giostratori e riguardanti fu scena e festa. Altri onori, altri diletti ebbero in Firenze. Si narra che il gran duca Leopoldo, pieno delle riforme praticate nella sua Toscana, dimandasse al re quante e quali ne aveva fatte nel suo regno, e quegli rispondesse: «Nessuna.» E dopo momentaneo silenzio: «Molti Toscani, ripigliò il re, mi supplicano di avere impiego nel mio regno; quanti Napoletani lo chiedono a V. A. in Toscana?» Nè l’altro rispose, perchè la scorta regina ruppe il discorso. Da Firenze passarono i due sovrani a Milano, indi a Torino e Genova, dove si imbarcarono su la flotta medesima, accresciuta di legni inglesi, olandesi e di Malta, che insieme ai legni del re (ventitrè navi da guerra d’ogni grandezza) lo convojarono per onore sino al porto di Napoli. Quattro mesi viaggiarono con tanta splendidezza e liberalità che Ferdinando acquistò nome ripetuto anni appresso ed accresciuto in Germania) di re d’oro. La città di Napoli fece grandi feste come a sovrani che tornassero dalla vittoria. Più di un milione di ducati costò all’erario il viaggio: bastava a risarcire i freschi danni del terremoto;
1l fine dell’anno 1788 lasciò mesta la reggia. Languivano infermi di vajuolo due infanti, Gennaro di nove anni, Carlo di sei mesi, allorchè celere nunzio recò la morte di Carlo III re delle Spagne, avvenuta il 14 del dicembre di quell’anno: e sebbene fosse succeduto Carlo IV fratello del nostro re, mancava alla potenza della casa il senno e ’l nome del defunto monarca, indi a pochi giorni morì l’infante Gennaro, e poco appresso l’infantino Carlo; gli stessi funerali, nella reale cappella celebrati, mostravano le immagini e i nomi del padre e di due figliuoli del re; cumulo di dolori che in casa privata cagionerebbe interminabile mestizia. Ma otto figliuoli viventi consolavano la reggia; era pregnante la regina; e quegl’infortunii avvenivano in famiglia di re, ne’ quali, per gli usi della vita e le distrazioni delle corti, sono deboli gli affetti che diciamo del sangue.
Più compianta dall’universale., in quell’anno medesimo 1788, fu la fine di Gaetano Filangieri, in età di anni trentasei; Lasciando incompiuta, ma per secoli durevole, l’opera che intitolò: Scienza della Legislazione. Amaramente lo piansero gli amici e i sapienti; ma venne tempo crudelissimo (nè lontano) che vedendo inorti per condanna o ne’ martorii altri uomini, quanto il Filangieri, egregi in doitrina e in virtù si consolarono di quella morte che per immaturità precedette alla tirannide.
XXXIII. La mente del re non migliorò dalla vista di altri paesi e governi; egli non curando le costituzioni, le leggi, gli avanzamenti o decadenza degl’imperii, poichè in nessun luogo avea veduto le bellissime apparenze della sua Napoli, tornò più amante dei proprio regno, più spregiatore degli altrui; il quale o sentimento errore ch’egli aveva comune co’ soggetti, ne’ popoli civilissimi o negli ancora barbari va confuso con l’amore di patria. Ma, comunque fosse il re, egli doveva alle usanze di quella età qualche regia grandezza; i palagi e i monumenti con gravi spese da lui compiuti, principiati dal padre, stavano a gloria di Carlo; i due teatri del Fondo e di San Ferdinando, alzati nel suo regno, davano a lui poca fama, in confronto della magnifica derivata al precessore dal teatro grandissimo di San Carlo; e l’altro edifizio detto i Granili al ponte della Maddalena, gli apportava biasimo, non laude; le buone leggi, la mantenuta giurisdizione incontro al papa, non generate dalla sua mente, e cominciate prima del suo regno, onoravano i consiglieri e i ministri. E perciò, ripetendo gli applauditi esempii delle colonie da lui mandate alle isole deserte della SIcilia, immaginò di fondare miglior colonia per le arti, in luogo poco lontano dalla reggia di Caserta. Scelse il colle detto di San Leucio, dove alzò molte case per abitazione de’ coloni, altre più vaste per le arti della seta, e poi l’ospedale, la chiesa e piccola villa per proprio albergo. Artefici forestieri, macchine nuove, ingegnosi artifizii con grandi spese provvide; e, ciò fatto, vi raccolse per inviti e libera concorrenza trentuno famiglie, che formavano un popolo di duecentoquattordici. Date le regole alle arti ed all’amministrazione della nascente società, egli scrisse la legislazione, della quale toccherò brevemente le migliori parti, giacchè quella fu vera gloria del re, documento del secolo e impulso non leggiero alle opinioni civili. Or dunque, l’anno 1789, un editto regio così diceva:
«Nella magnifica abitazione di Caserta, cominciata dal mio augusto padre, proseguita da me, io non trovava il silenzio e la solitudine atta alla meditazione ed al riposo dello spirito; ma un’altra città in mezzo alle campagne, con le stesse idee di lusso e di magnificenza della capitale: così che cercando luogo più appartato che fosse quasi un romitorio, trovai adatto il colle di San Leucio. Di qua le origini della colonia.»
E dopo di aver palesato l’intendimento e narrato le cose fatte, diede sue leggi e discorse i doveri di quel popolo verso Dio, verso lo stato, nella colonia, nella famiglia. Sono da notare gli ordinamenti che seguono:
«Il solo merito distingue tra loro i coloni di San Leucio; perfetta uguaglianza nel vestire; assoluto divieto del lusso.
«I matrimonii saranno celebrati in una festa religiosa e civile. La scelta sarà libera de’ giovani; nè potranno contraddirla i genitori degli sposi. Ed essendo spirito ed anima della società di San Leucio l’uguaglianza tra i coloni, sono abolite le doti, io, il re, darò la casa con gli arredi dell’arte e gli ajuti necessarii alla nuova famiglia.
«Voglio e comando che tra voi non sieno testamenti, nè veruna di quelle conseguenze legali che da essi provengono. La sola giustizia naturale guidi le vostre correlazioni: i figli maschi e femmine succedono per parti eguali a’ genitori; i genitori a’ figli; poscia i collaterali nei solo primo grado; ed in mancanza, la moglie nell’usofrutto, se mancheranno gli eredi (e sono eredi solamente i sopraddetti) andranno i beni del defunto al monte ed alla cassa degli orfani.
«Le esequie, semplici, devote, senz’alcuna distinzione, saran fatte dal parroco a spese della casa. È vietato il bruno: per i soli genitori o sposi, e non più lungamente di due mesi, potrà portarsi al braccio segno di lutto.
«È prescritta la inoculazione del vajuolo che i magistrati del popolo faranno eseguire senza che vi s’interponga autorità o tenerezza de’ genitori.
«Tutti i fanciulli, tutte le fanciulle impareranno alle scuole normali il leggere, lo scrivere, l’abbaco, i doveri; e in altre scuole, e arti. I magistrati del popolo risponderanno a noi dell’adempimento.
«I quali magistrati, detti Seniori, verranno eletti in solenne adunanza, civile da’ capi-famiglia, per bossolo secreto e maggioranza di voti. Concorderanno le contese civili, o le giudicheranno; le sentenze, in quanto alle materie delle arti della colonia, saranno inappellabili; puniranno correzionalmente le colpe leggiere; veglieranno all’adempimento delle leggi e degli statuti. L’uffizio di Seniore dura un anno.
«I cittadini di San Leucio per cause d’interesse superiore alla competenza de’ seniori, o per misfatti, saranno soggetti a’ magistrati ed alle leggi comuni del regno. Un cittadino, dato come reo a’ tribunali ordinarii, sarà prima spogliato secretamente degli abiti delia colonia; ed allora, sino a che giudizio d’innocenza nol purghi, avrà perduto le ragioni e i benefizii di colono.
«Ne’ giorni festivi, dopo santificata la festa e presentato il lavoro della settimana, gli adatti alle armi andranno agli esercizii militari; perciocchè il vostro primo dovere è verso la patria; voi col sangue e con le opere dovrete difenderla ed onorarla.
«Queste leggi io vi dò, cittadini e coloni di San Leucio. Voi osservatee, e sarete felici.»
Per leggi tanto buone prosperò la colonia ed arricchì. Nata di 214 coloni, è oggi, dopo quarant’anni, di 823. Le opere d’arte sono eccellenti; gli operai furono felici sino a che le pesti delle opinioni politiche e de sospetti non penetrarono in quel recinto d’industria e di pace. Ma quando il codice apparve, generò maraviglia nel mondo, contentezza ne’ Napoletani, i quali benchè sapessero non essere dal re que’ concetti, ne desumevano speranza di vedere allargati nel regno i principii governativi della colonia.
XXXIV. Due figlie del re, Maria Teresa e Luigia Amalia erano pervenute ad età da marito; ed ii figlio erede, Francesco, aveva dodici anni, allorchè la casa pensava di annodare con tre matrimonii nuove parentele. Sparita per la morte di Carlo III fin l’ombra dell’autorità spagnuola su la corte di Napoli, e niente pregiata la casa borbonica di Francia: la regina, libera di esterni riguardi e potente su la volontà del marito, strinse per tre legami una sola amicizia; maritando le due principesse a due arciduchi austriaci (Francesco e Ferdinando), e l’arciduchessa Maria Clementina di quella casa al principe Francesco di Napoli. Ma intervenne la morte acerba di Giuseppe II, nel febbrajo del 1790.
Suecedutogli Leopoldo gran duca, il suo primo figlio Francesco restò a Vienna speranza dell’impero; e Ferdinando, secondo nato, venne in Toscana gran-duca. Migliorate perciò le sorti delle due spose principesse, furono gli apparecchi accelerati; e nell’anno medesimo 1790 i sovrani di Napoli con le figlie andarono a Vienna dove si celebrarono i due sponsali; e si fermò il terzo, aspettando ne’ due sposi la maturità degli anni. La regina fu paga di que’ più stretti legami con la sua casa; le feste nella reggia de’ Cesari furono grandi; e, ad accrescerle, il nuovo imperatore Leopoldo andò a coronarsi re di Ungheria, corteggiato nella cerimonia da Ferdinando e Carolina di Napoli; a’ quali gli Ungheresi, poi ch’ebbero onorato il proprio re, fecero allocuzione in latino, laudandoli delle eseguite riforme a pro de’ popoli, e facendo udire il nome di San Leucio. Tanto lunge si spande la buona fama o la infamia dei principi.
CAPO TERZO.
Rivoluzione di Francia e suoi primi effetti nel regno di Napoli.
XXXV. Già turbava, nell’anno 1790, la quiete de’ principi e delle genti la cominciata rivoluzione di Francia, per la quale tanto mutarono le regole del governo che avresti detto in Napoli altro re, altro stato; e perciò in due libri ho distribuito il regnare di Ferdinando IV, come che procedesse continuo sino all’anno 1799: Le varietà della politica napoletana tornerebbero incredibili, disgiunte dalle cose di Francia; a raccontar le quali, benchè a’ dì nostri per altri libri e racconti conosciute, io (sperandomi alcun lettore nella posterità) credo far lavoro non disgrato a’ presenti, giovevole agli avvenire. E ciò premesso, imprendo a dire con quanta potrò brevità e pienezza i principii di quel rivolgimento, e ’l suo stato al finire dell’anno 1790 quando in Napoli si pervertirono l’impero e l’obbedienza.
I disordini dell’azienda francese cominciati nei tempi di Luigi XIV, cresciuti sotto i re successori, erano sentiti gravissimi nel regno di Luigi XVI l’anno 1786, e bisognando a riparo d’imminente rovina scemar le spese, abolire o stringere i privilegii, accrescere le taglie comuni, si opponevano ora gli usi ed il lusso della reggia, ora la baldanza del clero e della nobiltà, ora il timore del popolo. Tutto dì, come suole nello scompiglio di uno stato, mutavano i ministri; e la novità, sollevando il credito e le speranze, ristorava il tesoro pubblico; ma poco appresso cadevano più basso il tesoro, il credito, le speranze, il ministro. Il re chiamò in consiglio i notabili; sette principi o regali, cinque ministri, dodici consiglieri di stato, trentanove nobili, undici ecclesiastici, settantasei magistrati ed uffiziali; in tutto centocinquanta consiglieri. Convennero in Versailles al cominciare dell’anno 1787; il re, dicendo egli stesso voler seguire in quella adunanza l’esempio di parecchi re francesi, ed essere suoi disegni accrescere le entrate dello stato, renderle sicure e libere, affrancare il commercio, sollevare la povertà de sudditi, chiedeva a’ notabili consiglio ed ajuto. Parlarono appresso il guarda-sigilli laudando il re; e con diceria più altiera il controloro del fisco Carlo Alessandro Calonne, inteso a discorrere i pregi e le opere del principe, le miserie dell’azienda nel 1783, la prosperità di lei nel 1787, e le proprie gesta. Poi, minaccioso, rispondendo alle divulgate accuse del pubblico, tacciava di mentitori Terray e Necker, suoi predecessori nell’azienda, conchiudeva proponendo inusitate gravezze a’ beni ecclesiastici e feudali. Spiacquero i discorsi e la tracotanza, sconvenevoli a’ tempi, e peggio a’ bisogni del re e dell’erario.
Furono quindi oneste le opposizioni; e tanto grido si alzò contro il Calonne che il re per prudenza lo scacciò, e scelse successore il vescovo di Tolosa, tra’ notabili caldo parlatore, grato a’ compagni. E l’assemblea, secondando i voleri del re, propose gravezze nuove a’ beni del clero e de’ nobili, rivocò molti privilegi, scrisse l’atto de’ decreti, e si sciolse.
XXXVI. Mentre le riferite cose agitavano in Versailles l’assemblea de’ notabili e la corte, i sapienti e i novatori della Francia, disputando le stesse materie di governo con libertà popolana, concitavano gli animi e i desiderii a riforme assai più vaste delle profferte dal re. Le quali mandate secondo l’uso al parlamento di Parigi, questi, ambizioso di pubblica lode, negò apertamente di registrarle. Un giovine consigliero denunziò le prodigalità della reggia, altro consigliero espose il bisogno di convocare gli stati-generali, e poichè questi promettevano grande utilità, così dalla propria possanza come dal desiderio compreso e universale fu la voce lietamente udita e ripetuta. Gli stati-generali, principio della rivoluzione francese, ebbero veramente il primo grido nel parlamento di Parigi.
Il qual grido sdegnò il re, e chiamato il parlamento a Versailles, in adunanza comandata (detta nelle costituzioni di Francia Letto di Giustizia) fece compiere gli atti rifiutati a Parigi. Ma il congresso, tornato libero, protestò contro la patita violenza; e ‘l re, per castigo ed esempio, lo confinò a Troyes. Gli altri parlamenti della Francia denunziavano al popolo i fatti del parlamento di Parigi: e gli editti o leggi, però che non registrati, mancavano di effetto; e cresceva fuor di misura il bisogno del fisco. Il re costretto a simulare accordi, dicendo il parlamento ravveduto e supplichevole, lo richiamò a Parigi per adunarlo il dì 20 di settembre.
Quando egli, con fasto inopportuno e trasandando i discorsi di convenienza e d’uso, lesse decreto che imponeva il prestito di quattrocentequaranta milioni, e prometteva di convocare al quinto anno gli stati-generali. Si notava nell’adunanza silenzio e sbigottimente, allorchè il duca d’Orteans con atti sommessi dimandò, se quello era letto di giustizia o libero congresso; e il re «È seduta regale.» Dopo la prima voce, altre più ardite si snodarono; ed esiliati dall’assemblea e dalla città, l’Orleans e gli oratori, la nuova legge fu registrata per comando. Ne’ consigli regali essendo deciso fiaccare ne’ parlamenti le cagioni e gl inizii della disobbedienza, menomare le facoltà giudiziarie di que’ magistrati, e cassar le politiche, il re creò nuova corte, detta Plenaria, di pari, prelati e capi militari; ed aspettava per pubblicar l’editto che Je milizie giungessero nelle sedi de’ parlamenti, e i ministri dell’autorità regia preparassero, le sorprese e le pene a’ contumaci.
Pratiche oscure; ma palesate al parlamento di Parigi, che spiando e comprando i custodi del segreto, contrappose all’editto con pubblico manifesto le instituzioni della Francia, i diritti del popolo e del parlamento, gli obblighi del re. Si levarono voci minaccevoli. Scompigli peggiori agitavano province, dove la scontentezza non era frenata dal timore; o ingannata dalle arti, o corrotta da doni della corte; ed in quel mezzo, negate le nuove imposte, mancato il prestito, cresciute le spese, disordinate le amministrazioni, era vuoto l’erario. Nè più bastando gli artifizi, il re, alla metà dell’anno 1788, tratto da ingrata necessità convocò gli stati-generali per il primo di maggio dell’anno seguente, e richiamò Necker ministro. Un grande avvenimento in prospetto arrestò le brighe del presente; ogni fazione pose speranza in quella vasta assemblea; lo stesso re vi confidava per il dispotismo.
Tra la chiamata e l’adunanza i giorni scorrevano per ogni setta solleciti ed operosi; ma più potè la setta de’ sapienti, che, disputando le quistioni di stato, palesavano ciò che è popolo e ch’è monarca, dove risiede la sovranità; che sono nella nazione clero, nobiltà, terzo-stato; che sono nella signoria magistrati e tributi; qual’è il cittadino, i suoi debiti, i suoi diritti; quanto debba valere nelle intenzioni delle leggi e nelle opere de’ reggitori la dignità dell’uomo. Per le quali dottrine la Francia conobbe il suo meglio civile, e lo bramò. La libertà di quel tempo non procedeva oltre la monarchia; gli uomini medesimi che un anno poi furono caldi seguaci di repubblica terminavano i ragionamenti e le speranze ad una camera rappresentante, ad altre forme che nulla offendevano le ragioni e la grandezza del monarca.
Gli stati-generali rammentavano tempi difficili ma onorati. Di quattordici assemblee numerate dalla storia, cominciando dall’anno 1302 sotto Filippo il Bello sino al 1614 sotto Luigi XIII, una sola, quella del 1560 fa romorosa ed inutile; le altre tredici apportarono al re quando soccorso avverso al pontefice, quando quiete nelle discordie della famiglia, e talora forza contro i nemici e spesso danari ai fisco impoverito: ma non mai tra gl’infiniti moti di tanto affollate congreghe, la pace del regno fu sconvolta. De quali esempii il re incorava, ed attendeva ad introdurre nell’assemblea personaggi che sostenessero le prerogative del dispotismo.
XXXVI. I deputati nel prefisso giorno adunaronsi a Versailles, divisi d’animo, perciocchè la nobiltà ed il clero prevedendo ne’ precipizii dell’impero assoluto i proprii danni, ormai dolenti della palesata resistenza nell’assemblea de’ notabili e ne’ parlamenti, si avvicinavano al trono come che timidi e sconfidati, ma risoluti di sostenere i proprii diritti (così chiamando i privilegi) contro gl’impeti e la baldanza del terzo-stato, che veniva orgoglioso e potente di numero e di ragione. Durando le discordie, non si potè ridurre ad una le tre assemblee; e all’ultima sconvenendo il nome di terzo-stato, si chiamò assemblea dei comuni, poi nazionale. Lesse i mandati, e trovò che i commettenti dimandavano: il governo della Francia regio; la corona ereditaria in linea mascolina; la persona del re sacra, inviolabile; il re depositario del potere esecutivo; gli agenti dell’autorità responsabili; le leggi solamente valide quando fatte dalla nazione, confermate dal re; necessario a’ tributi l’assentimento nazionale; saecra la proprietà, sacra la libertà de’ cittadini. E tutti chiedevano che i presenti stati-generali dessero legge durevole al regno, e che le succcedenti convocazioni fossero certe e prefisse.
Questi erano i mandati e le speranze de’ Francesi l’anno 1789; documento e gloria di quella età e di quel popolo. Fu vista irreparabile la riforma dello stato, fuorchè dal re, da’ nobili, dal clero, accecati da’ diletti del dispotismo. Il 20 di giugno, impedita dalle guardie del re all’assemblea nazionale la entrata nella sala delle sue adunanze, ella, dopo inutile pregare, si ricoverò in un vasto edifizio destinato a giochi di palla; e là in piede (anche i vecchi e gl’infermi, un giorno intero) assunsero la stato, si dissero permanenti sino a che avessero dato alla Francia durevole statuto; e giurarono. L’adunanza, il luogo, la dichiarazione, il giuramento, erano primi atti di certa rivoluzione. Forza e mente a que’ moti fu Gabriele Onorato Ricchetti conte di Mirabeau, di seme italiano, nobile ma deputato del terzo-stato della Provenza, egregio per eloquenza e per i trovati della politica, passionato e campione di libertà, ma di quella che volevano i bisogni e i costumi della Francia. Altri uomiuni eccelenti si palesarono, ma le glorie più grandi che succedettero coprirono i loro onori; e di quel tempo restò solo in sublime, a spettacolo degli avvenire, il Mirabeau.
L’adunanza del 20 di giugno agitò il re e la corte. Il re annunziò per messaggio che il posdomani parlerebbe a’ tre stati uniti ad assemblea generale; e nel giorno seguente, chiamate numerose squadre di fanti e di cavalli, le accampò a modo di guerra intorno a Versailles e Parigi. Andò nel dì prefisso tra gli evviva del popolo al congresso; e parlando superbamente, rivocati i decreti e per fino il nome dell’assemblea nazionale, comandò la unione de’ tre stati. Fu notato che disse: «Nessun provvedimento degli stati-generali aver forza senza il suo beneplacito. Giammai re quanto lui aver tanto fatto a pro del popolo. Egli solo saper fare il bene de’ Francesi, sol egli (se abbandonato dagli altri) compirebbe l’opera cominciata, però ch’egli era il vero e il solo rappresentante de suoi popoli.» In mezzo al qual discorso il guarda-sigilli lesse diceria nella quale si udiva spesso, il re vuole, il re comanda, ed altre frasi che la condizione de tempi disdegnava. Poscia il re, dicendo fornite le bisogne di quell’adunanza, si partì; seguito da’ plausi e dalle persone de due primi stati, dal silenzio del terzo che restò nella sala a consultare; licenziato, resistè; ed in quelle angustie di animo e di tempo decretò inviolabili le persone de’ rappresentanti del popolo.
Crescevano il sospetto e ’ltumulto. Il re fastidito dei tiepidi consigli del Necker, lo mandò in esilio; altre milizie adunava intorno a Versailles; feste militari nella reggia concitavano le guardie; la rozina irritava gli sdegni; l’annona scarsa in quell’anno, più scemava; i moti civili turbavano la Francia intera. Pure bramavano pace l’assemblea ed il re; ma pace per l’una erano le nuove leggi, e un libero stato; pace per l’altro, la sommissione del popolo è l’antica pazienza; e però dal desiderio comune di quiete sorgevano le discordie. Gli animi, pronti a gran fatto. si mossero a Parigi, appena udita la cacciata del Necker, tenuto sostegno della finanza, oppugnatore a’ partiti estremi della tirannide, paciero tra l’assemblea e la corte. I popolani alzati a tumulto, portando ad onore per la città il busto in marmo del disgraziato ministro, gridavano voci onorevoli a lui, minacciose al monarca; e le guardie svizzere non sopportando lo spettacolo, fiaccata con l’armi la calca, ruppero il busto ed il trionfo. Trionfo indebito quanto l’esilio; avvegnachè il Necker, buono di animo, mezzano d’ingegno, vanitoso, non uguale all’altezza de’ tempi, ebbe fama o patì sventure dalle necessità del presente: tre volte chiamato in Francia onorevolmente, e tre scacciato; ogni caduta compianta; l’ultima, come dirò, inavvertita.
Le tre assemblee, sino allora discordi, amico il timore, sì che formate in una mandarono al re pregando di allontanare i campi dalle due città. e armare le milizie cittadine a sostegno dello stato. Rispose che i fatti di Parigi obbligavano anzichè allontanare quelle schiere, avvicinarle ed accrescerle; che le milizie civili in quel momento farebbero pericolo; ch’egli saprebbe reprimere i popolari tumulti; egli solo potendo giudicare la gravezza de’ casi. Le quali sentenze animose non risponderebbero al cuor debole di Luigi, se già gran tempo, per istinto di re, per deferenza a’ voleri dell’amata e superba regina, e per malvagi consigli, non avesse in sua mente stabilito spegnere per la forza dell’esercito i desiderii di novità; aspettare gli avvenimenti estremi per onestare l’eccesso di volgere l’armi contro i soggetti; cosicchè le dissensioni nelle assemblee, i tumulti, gli azzufamenti civili, agevolavano il mal disegno.
XXXVIII. Ma in Parigi la truppa urbana tumultuariamente composta elesse capo il marchese di La Fayette, chiaro per la gloria meritata in America da soldato di quella istessa libertà che sospirava la Francia. Sorge al un tratto in città voce «Alla Bastiglia»: i più arditi del popolo, forti delle armi involate a’ depositi ed alla casa degli invalidi, accresciuti da’ disertori de’ vicini accampamenti, furibondi e diresti dissennati, andarono ad assaltare la fortezza, valida per grosse mura, molte armi, e fedele presidio, comandato dal marchese di Launais, caldo per le regie parti, spregiatore del popolo e di civile libertà. Quelle torme di plebe, innanzi alle porte del castello, per grida e per ambasciate dimandavano la resa; che, negata, accrebbe lo sdegno, il moto, il numero e gli apparecchi.
Giorno spaventevole, che vedeva da una banda sei principi, cinquanta mila soldati, cento cannoni, otto campi attorno a Parigi ed a Versailles, altre schiere dentro le due città, una fortezza armata; e quegli strumenti di rovina pronti al cenno di un sol uomo, sdegnato e re. E dall’opposta banda briganti armati, soldati disertori, popolo, plebe infinita. Si presagivano tra le due parti scontri feroci, e la vittoria segnare i destini della Francia. Ma il re impaurito da quegli aspetti, o irresoluto, fece solamente avvicinare i campi alla città; la quale, a quelle viste, sbarrò in fretta le porte, guerni di armati le mura, scompose i lastricati, preparava la guerra, Le milizie urbane, centocinquantamila in vario modo armati, pendevano dal cenno della civile autorità, che stava in atto di offizio mirabilmente serena.
Ma la plebe intorno alla Bastiglia andava ciecamente furiosa cercando le entrate, tentando le porte e le mura, minacciando il presidio. Del quale il comandante fastidito di quella turba, sicuro nella fortezza contro genti avventicce, e certo di ajuti da’ vicini campi, comandò scaricare le armi sul popolo e vide parecchi cader morti, altri feriti. Le torme si allontanarono; ma subito successe allo spavento il furore, tante genti nemiche intorno la fortezza che la prima cinta fu presa, e stava il popolo sotto la seconda, quando il comandante, insino allora sordo agli accordi, mostrò bandiera di pace; e fu stipolato a’ cittadini la fortezza, al presidio la vita. Ma plebe furibonda non tiene i patti; l’infelice Launais, uscito dalle mura, fu trucidato, e ’l capo conficcato ad una lancia menato per la città con orribile festa. Molti fatti seguirono d’ambo gli estremi, eroici cd orribili; si trassero a pubblica vista gl’istromenti di martoro, e uscirono alla luce sette miseri, uno de’ quali mentecatto, cadente per ultima vecchiezza, abitatore immemorabile della Bastiglia, sconosciunto, nè mai più saputone il nome o la patria; un altro vi stava da 30 anni; e cinque vi entrarono, regnante il decimosesto Luigi. IL popolo il giorno istesso (14 di luglio del 1789) cominciò ad abbattere le mura, e l’assemblea nazionale decretò che la Bastiglia scomparisse. Scomparve: il luogo infame per tirannide chiamarono piazza della Libertà.
Procedeva la rivoluzione per fatti rapidi; manifesta già negli atti e nei giuramenti dell’assemblea, nella Bastiglia espugnata fu, per sangue cittadino, irrevocabile. Sollevò quella gesta tutte le menti, e sì che fu la corte compresa di timore, la plebe di arroganza, il popolo di sicurezza, il mondo di maraviglia. Il re, nel seguente giorno, senza guardie, senza corteggio, accompagnato de’ soli fratelli, andò all’assemblea, e rimasto in piede, disse che veniva a consultare degli affari più gravi allo stato e più penosi al suo cuore; i disordini della città. Il capo della nazione chiede all’assemblea nazionale i mezzi d’ordine pubblico e di quiete. Sapeva le voci malvage contro di lui, ma sperava che le smentisse il sentimento universale della sua rettitudine. Sempre unito alla nazione, confidando a’ rappresentanti ed alla fede di lei, aveva allontanate le milizie da Versailles e da Parigi.
Dopo gli applausi e i segni di riverenza e di gioja, fu pregato il re sceglier ministri meglio adatti al tempo, e mostrar se stesso al popolo di Parigi. Tutto concesse o promise; e si partì a piede, accompagnato per corteggio da’ tre stati sino alla reggia; dove in pubblico luogo la regina aspettava, tenendo per mano il delfino, e sì che la intera casa del re ed il popolo parevano uniti da legami concordi per la felicità della Francia. Mutato il ministero, tornò ministro Necker; molti della corte per comando o per mala coscienza si allontanarono; il re il seguente giorno andò a Parigi con pompa cittadina, perchè scortato da milizie civili, corteggiato dall’assemblea nazionale, incontrato da’ magistrati della città, accompagnato dal popolo innumerabile e plaudente. E confermate per discorsi le universali speranze, fu giuoco di fortuna contrapporre, nel corso di un giorno al tremendo spettacolo della Bastiglia spettacolo di pace magnifico.
XXXIX. Due mesi, o più, passarono le lusinghiere apparenze di concordia; faceva l’assemblea buone leggi, prometteva il re di approvarle; il clero, i nobili risegnavano gli antichi privilegi; i doni chiamati patriottici soccorrevano a’ poveri ed all’erario; fa dato al re titolo gradito di Restauratore della pubblica libertà; e mentre le forze buone dello stato così crescevano, di altrettanto scemavano i misfatti. Ma sotto la scorza di felicità due germi contrarii celatamente fecondavano; di repubblica e di tirannide. Imperciocchè scosso e poi spezzato il freno delle leggi, cadute le antiche autorità, quella del re dechinata, agevolato il salire alle ambizioni ed alle fortune, molti tristi, molti audaci congegnavano governo più largo, la repubblica. E, per la opposta parte, gli usi e i diletti del dispotismo, non mai scordati da’ prìncipi e da’ grandi, suggerivano disegni di tirannide. Erano mezzi alle speranze de’ primi le colpe e i disordini del popolo; e de’ secondi, le trame occulte e gl’inganni della reggia: ambe le parti per parecchi indizii si palesarono.
Avvegnachè le guardie reali ne’ due primi giorni di ottobre chiamarono a convito i reggimenti stanziati a Versailles, e nella ebbrezza si udirono saluti per il re e la regal famiglia, ingiurie o minacce per l’assemblea nazionale e per i deputati più chiari, indicati a nome. Comparve il re, tornando da caccia; indi la regina e ’l delfino; e allora crebbero le voci, gli auguri, lo scandalo, la gioja. La regina ne’ circoli, rammentando quelle allegrezze, premiava di doni e di laudi gli uffiziali più caldi a’ voti, o più arditi ai disegni; le dame della sua corte dispensavano coccarde bianche (segnale della parte regia); le guardie impedivano a chi portasse le tricolorate (le nazionali) ingresso al palazzo; e alcuni cittadini fregiati di quel nastro a tre colori erano stati nelle vie di Versailles e di Parigi dalle guardie del corpo battuti ed uccisi. L’assemblea, insospettita, mandò al re alcune leggi, pregando approvarle; e il re, che aveva ripigliate le maniere di libera signoria, rispose non essere ancor tempo di approvar leggi. Correvano la Francia quelle nuove, peggiorate dalla fama e dal malevolo spirito di parte.
Quindi cresceva l’animo a’ repubblicani. La mattina del 5 di ottobre numero di femmine (quattromila o più) plebee e parigine, simulando i lamenti e l’ardire disperato della fame, andarono alla casa del comune a cercar pane; e quindi con grida e gesti furibondi, saccheggiando e rubando nella città, si avviarono a Versailles. Le guidavano alcuni del popolo, notati ne’ fatti della Bastiglia; e quando quella torma incontravasi ad altre donne, a sè le univa o forzate o vogliose; erano l’armi, picche, mazze e clamori. Le truppe urbane sedarono i tumulti nella città, e parte segui le donne, insospettita di quella non usata milizia, e del mobile ingegno delle militanti. Quando all’improvviso i soldati stanziati a Parigi chiesero di andare ancor essi; e non bastando a distoglierli autorità e ’l consiglio del comandante supremo La Fayette, ventimila soldati, portando il nome di esercito di Parigi, mossero per Versailles, La Fayette li seguiva. Giunsero alla mezza notte poco appresso alle donne, e mentre quelle a gruppi o a folla scompigliavano la città, questi si accamparono nelle piazze.
Molte brighe accaddero la notte; maggiori al dì vegnente. Le donne comunicarono per deputazioni con l’assemblea e col re; ed esprimendo a fascio bisogni e desiderii, con preghi o minacce e pianto ed ira, avute risposte consolatrici e benigne, si univano alle compagne, riferivano le cose dette e le intese, contendevano, strepitavano; e già stanche della fatica de’ nuovi offici e delle piogge che stemperate cadevano, si ricoverarono dopo molta notte nelle chiese e negli atrii dell’assemblea. Ma non prendeva riposo una masnada di ribaldi (cinquecento almeno) venuti con le donne a Versailles, prevedendo tumulti o a suscitarne; i quali entrando spicciolati ne’ giardini o nelle corti mal guardate del palazzo, e quindi apertamente forzando ed uccidendo le guardie, occuparono la reggia. I prìncipi (erano il re, la regina, una principessa e due figli bambini) desti dal romore delle armi e da’ servi, rifuggirono ai più secreti pebetrali della casa; ed in quel tempo gli spietati manigoldi, con l’armi nude, cercando giunsero alla stanza dove poco innanzi dormiva la regina; e trovando il letto vuoto, ancora tiepido della persona, lo trapassarono di molti colpi di pugnale o di lancia, niente offensivi, più atroci. E fu provvedere divino che non sapessero gli ordini interni della casa, per lo che non pervennero al luogo dove stava la misera famiglia, sbigottita, e tacita gemendo, per sospetto che il pianto la denunziasse. Molte guardie del re, molti servi furono uccisi; accorsero le milizie civili di Versailles e l’esercito di Parigi; e spuntato alfine il giorno, i deputati dell’assemblea e i cittadini amanti giustizia si assembrarono; e, guardata la reggia, scomparvero gli empii carnefici della notte,
Orrenda notte, non mai cancellata dalla mente del re, cagione di alto sdegno e di domestica strage. I repubblicani, bramando che il re stesse a Parigi dov’era grande numero di loro, andavano strillando come plebe «Il re a Parigi.» L’assemblea non discordava, sperando in quella città maggior sicurezza; e lo bramava La Fayette per meglio custodire il re, serbare in lui la monarchia, e farlo ostacolo alle già palesi pratiche dei faziosi. Il re, dal terrore della notte indocilito, sempre dicendo volere quel che il suo popolo volesse, stabilì nel giorno medesimo andare a Parigi con la famiglia; l’assemblea nazionale seguirebbe.
Divelgata la nuova, si apprestò il partire, il ricevimento. I manigoldi, usciti di Parigi due giorni avanti, vi tornavano superbi come vincitori; portando a trionfo in punta delle lance due teschi che attestavano la morte di due guardie del corpo, fedeli al re, uccise combattendo nelle camere della reggia; sì che la barbara pompa era pietà ed onore agli oppressi, infamia a trionfanti. Succedevano i battaglioni delle donne, le quali avendo trasandato per i crudeli offizii di quei giorni le mondizie e le dolcezze del sesso, parevano in furie o mostri trasformate; indi marciavano con ordine le schiere, guidate da La Fayette, e dietro a tante moltitudini le carrozze del re, della regina e della famiglia; i quali (benchè alle voci festive con festivo sembiante rispondessero) portavano in fronte la mestizia, il sospetto, la fatica e ’l terrore della scorsa notte. Mutarono da quello istante le regole di governo; il re confermava le nuove leggi dell’assemblea; dava la cura della città a’ magistrati municipali; la custodia del regno e sin anche della reggia alle milizie nazionali. Stavano per forma di monarchia i ministri; reggevano lo stato le municipalità, gli elettori e l’assemblea. Il re faceva le mostro del prigioniero, ma si diceva libero per compiacere alla contraria fazione, che in lui ad un punto voleva modestia di cattivo acciò non opponesse a’ novelli statuti, e possanza di re per legittimarli. Egli perciò sconfidato di tornare in signoria per le proprie forze o per favore delle sue parti, volse l’animo e i maneggi a’ potentati stranieri; e sperò fuggirsi di Francia e rientrare con Prussiani e Tedeschi. Ma il gran cimento abbisognava di tempo e di fortuna.
Nel qual mezzo la Francia, sciolta da’ freni dell’usato imperio, si governava a ventura, seguendo il vario senno dei potenti del luogo. Gl’impeti primi del popolo si voltarono a’ castelli e terreni baronali, dove ardendo e rapinando in nome della libertà e per odio alle feudali memorie, infiniti misfatti commettevano. Uomini oscuri, per diventar potenti, si adunavano in secrete combriccole; e i nobili, fuggendo la infausta terra, andavano allo straniero; aristocratici e nemici fu un nome istesso. L’alta nobiltà migrando a Coblentz, e la nobiltà provinciale al Piemonte, sotto il conte d’Artois fratello del re, per armi e trame combattevano la rivoluzione. In tante guise il cammino alla repubblica si agevolava. Sola, fra disegni discordanti o perversi, un’ adunanza discuteva le dottrine di stato, e poneva la sperata monarchia sopra fondamenti di ragione. Dichiarata la uguaglianza tra gli uomini, venivano uguali le leggi, certa di ognuno da proprietà, sicure le persone, facile il cammino alla giustizia, le ingiustizie impedite o castigate; lasciati al re gli onori, le riechezze, l’imperio, la felicità di far grazia; non più il clero arricchito da superstizioni, ma dotato dallo stato; e però la chiesa impotente al male, cresciuta in dignità. Altre leggi sapienti e benefiche l’assemblea nazionale maturava.
XL. Tali erano in Francia le cose al finire dell’anno 1790; ma variamente raccontate nel mondo e producendo, come l’animo degli ascoltatori, opinioni differenti, spaventavano i re, i cortigiani, i ministri, concitavano il clero, allegravano i filosofi e i novatori. I due sovrani di Napoli con più odio e sdegno le sentivano, perchè parenti dei Borboni di Francia, e sorelle le due regine; ed essi stando in quel tempo nella reggia di Vienna, conoscevano i disegni dell’imperatore Leopoldo. Il quale già mosso ad ira dalle ribellioni del suo Belgio, quantunque inchinato al bene de’ soggetti, voleva che lo ricevessero da libere concessioni di sovranità; e perciò apprestava un esercito a soccorrere il re Luigi quando superasse con la fuga i confini della Francia.
Ma degli altri re non era concorde il consiglio; che sebbene le sentenze della rivoluzione francese si appropriassero a tutti i popoli, differivano le ragioni di stato, le nature de’ governanti. Godeva la Inghilterra ne’ travagli della sua rivale; impigriva la Spagna sotto re inesperto ed imbelle, la Prussia patteggiava con l’impero il prezzo di maggiori dominii nella Polonia; intendeva il Russo alla guerra col Turco; e la Italia in povero stato preparava interminabili sventure per vane colpe di desiderii e di speranze. Vero è che il Piemonte agitato da’ vicini moti della Francia, visti alcuni paesi dell’ultima Sayoja ribellanti, accresceva ed ordinava le sue milizie; e Napoli, ardendo delle passioni della sua regina, divisava guerra e vendette.
In mal punto; perciocchè le forze dello stato dechinavano. Il censo numerava quattromilioni ed ottocentomila Napoletani, ma niente armigeri per natura o per uso. I baroni scordatisi delle armi, divoti al re ma per amore di piaceri e di fasto, snervati che schivavano qualunque sforzo magnanimo. Il clero avverso al governo, nemico alla rivoluzione di Francia, indifferente agli affanni del re, ma compagno ne’ comuni pericoli. La curia irresoluta perchè non certa de’ futuri eventi; i curiali uniti a’ dominatori, da partigiani in segreto, da sottomessi in aperto, per essere preferiti ne’ benefizii del presente, e non esposti a’ pericoli dell’avvenire. I sapienti, gli amanti di patria e di meglio vagheggiavano le sentenze della rivoluzione; ma usati a vedere le utili riforme procedere dal monarca, abborrivano le violenze sovvertitrici della monarchia, il popolo che rimane, era amante del re; sapeva della rivoluzione di Francia quanto ne udiva da’ signori ne’ circoli, e da’ preti ne’ confessionali e ne’ pergami; teneva i Francesi irreligiosi, crudeli, incenditori di case e di città, uccisori d’uomini, oppressori delle nazioni.
L’esercito napoletano era di ventiquattromila fanti e cavalieri, metà stranieri e regnicoli, mal composto, peggio disciplinato; e non poteva crescere se non per le usate leve di doppio dispotismo: regio, feudale: nè divenire ammaestrato ed obbediente, perchè mancavano istruttori ed animo di guerra; la pace lunga, l’ingegno abbietto dei reggitori, la scarsezza dell’erario avevano fatto trasandare, come innanzi ho detto, il numero e ’l nerbo delle milizie. L’artiglieria, per le cure del Pomereut, era la meglio composta ma nascente; gli arsenali, le armerie non bastanti; l’amministrazione pessima; le fortezze cadenti; le tradizioni, le memorie, gli usi di guerra, nessuni. Il navilio era ordinato; tre vascelli, più fregate, altri legni minori, insieme trenta; diretto e maneggiato da uffiziali, parecchi buoni, qualcuni ottimi, e da marinari destri ed arditi.
La finanza, stretta già da dieci anni, e più angustiata per le spese del tremuoto della Calabria, per due viaggi fastosi de’ principi, e per tre maritaggi della casa, stentava non che a’ bisogni della guerra, al mantenimento pacifico dello stato. Nè poteva migliorare, da che le gravezze antiche premevano appena i ricchi, troppo i poveri, e dalle nuove andrebbero sicuri i primi per privilegi e possanza; i secondi, per impotenza. Quindi le arti poche, minori le industrie, il commercio povero e servo; l’agricoltura, favorita dal cielo, trattenuta dall’ignoranza de’ tempi, smagrita dalle male regole del governo; tutte le vene delle private ricchezze, rivoli del tesoro pubblico, aduste o scarse.
La Sicilia, che ubbidiva e fruttava allo stesso re, e non era meno che quarta parte del reame, poco valeva per uomini e per tributi, negando i soldati, e disperdendo le imposte fra gl’intricati giri della finanza e della corte.
XLI. Sopra tali uomini e tali cose regnava Ferdinando 1V fiacco d’animo e di mente, inesperto al governo de’ popoli, propenso a’ comodi ed ai piaceri, spassionato di gloria e di regno, e perciò inchinevole a vita torpida e allegra. La regina, che più del re governava, pativa diversi affetti; nata di Maria Teresa, cresciuta nella reggia austriaca tra le sollecitudini di lunghe guerre, sorella di Antonietta, regina di Francia, sorella dei due Cesari (Giuseppe e Leopoldo) gloriosi, vaga di ugual rinomanza, avida di vendetta, superba, ardimentosa più che femmina. La secondava il generale Acton ministro potentissimo, straniero così di patria e così di affetto a’ popoli che gli obbedivan; ignorante ma scorto, e assai fornito delle arti che menano a fortuna. Gli altri ministri o consiglieri servivano muti e obbedienti. Cosicchè tre menti, una del re, debole; l’altra della regina, femminile e annebbiata da bollenti passioni; la terza dell’Acton, corrotta da cupidige private, dovranno guidare il regno per mezzo alle vicine tempeste.