Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro II/Capo I

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LIBRO SECONDO.

(anno 1759 sino al 1790.)


CAPO PRIMO.

Minorità del re.

I. Al fluire dell’anno 1759 essendo re, come ho riferito nel primo libro, Ferdinando Borbone nella età che non compiva gli otto anni, furono reggenti Domenico Cattaneo principe di san Nicandro; Giuseppe Pappacoda principe di Centola, Pietro Bologna principe di Camporeale, Michele Reggio balì di Malta e generale di armata, Domenico Sangro capitan-generale dell’esercito, Jacopo Milano principe di Ardore, Lelio Caraffa capitano delle guardie, e Bernardo Tanucci. Il re ebbe titolo di Ferdinando IV re delle due Sicilie e di Gerusalemme, infante di Spagna, duca di Parma, Piacenza e Castro, gran principe ereditario di Toscana. I reggenti allevati nelle pazienze del viceregno, quindi usati alle servitù della corte, oggi cadenti per vecchiezza, tra loro il solo Tanucci prendeva il carico degli affari ed era tenuto la mente della reggenza, del quale onore non ingelosivano gli altri perché inesperti, scevri delle ambizioni di governo, soliti obbedir lui, che per natura e non contrastata potestà si mostrava mansueto e riverente. Ajo del re lo stesso principe di San Nicandro, onesto di costume, ignorante delle scienze o lettere, unicamente voglioso di piacere all’allievo; e persuaso dal Tanucci a non alzare l’ingegno del giovine principe , meglio convenendo a re di piccolo stato godere in mediocrità di concetti le delizie della signoria.

Alla mestizia vera della reggia e della città per la partenza di Carlo succederono i segni di allegrezza per lo innalzamento del successore; il quale rimettendo le pene a parecchi delitti, fece liberi molti prigioni, assicurò più rei, e dopo ciò, con fasto e cerimonie regali assistè nel duomo agl’inni di grazie cantati nella cappella di San Gennaro. Quindi la reggenza comandò che la baronia, i magistrati, i deputati della comunità fossero in certi giorni a palazzo per riconoscere il nuovo re, e giurargli fede ed obbedienza. Tutti accorsero; e confidando ne’ ricordi del padre, nel consiglio del buon ministro, [p. 87 modifica]e nel prospetto di lunga pace, speravano regno mansueto e felice. Poscia il re, seguendo l’esempio de’ predecessori, chiese al pontefice la investitura del regno; e, concordata, prestò il dì 4 di febbrajo del 1760, in iscritto e con la voce del cardinale Orsini suo legato, il giuramento chiamato «di omaggio e di vassallaggio al sommo pontefice; e di non procurare di essere eletto in re imperatore de’ Romani, oppure re di Germania, signore della Lombardia e della Toscana; e nel caso vi fosse eletto, non vi presterebbe alcun consenso,»

II. La reggenza governava co’ precetti di Carlo antichi e nuovi, perciocchè da Spagna venivano comunicati al Tanucci, sotto forma di suggerimenti, e pur talvolta di comando. Il quale privato carteggio agevolò i disegni del ministro con fare i reggenti vieppù arrendevoli al suo giudizio in certe imprese disapprovate dalla coscienza; erano le libertà dalla curia romana, ossia l’affrancare l’impero dal sacerdozio, e soggettare all’impero i sacerdoti del regno; le quali ragioni di stato si tenevano a peccato dalle anime plebee di que’ reggenti: ma una servitù vincendo l’altra, prevaleva il vero o supposto comando di Carlo al tacito consiglio della coscienza. E così lo scorto Tanucci, per dispacci, ordinamenti, decisioni della reggenza, tanto mutò dall’antico, e tante novelle relazioni e bisogni civili compose, che il re divenuto maggiore in libera sovranità non poteva disfare le cose fatte senza produrre all’universale danni e disordini. Fu perciò necessario a Ferdinando durare e procedere nello irrevocabile cammino; cosicchè io raccogliendo ciò che in materie giurisdizionali fu operato ne’ trent’anni descritti in questo libro. avrò rappresentato il senno di un sol uomo, il Tanucci.

Dirò per sommi capi le prammatiche della reggenza e del re su le quistioni con la curia romana. I ministri regii provvidero agli spogli ed ai beni de’ trapassati vescovi, abati, benefiziati; le entrate delle sedi vacanti furono addette ad opere di civile utilità.

Furono soppressi parecchi conventi; due in Calabria, ricettacoli di malviventi, uno in Basilicata, quattro in Puglia, tre in Abruzzo, ventotto nella Sicilia, per motivi diversi o per esercizio di sovranità. I beni di que’ conventi andarono al comune.

Le decime ecclesiastiche, prima ristrette, poi contrastate, finalmente abolite.

E dipoi, rimossi gli ostacoli e preparate le coscienze a legge di maggior momento, furono interdetti gli acquisti alle mani-morte; dichiarati mani-morte i conventi, le chiese, i luoghi pii, le confraternite, i seminarii, i collegi; ed acquisti, ogni nuova proprietà, l’accrescimento delle case o de’ conventi, la fondazione di nuove chiese o cappelle, i patrimonii de’ preti e le doti delle monache oltre i limiti della legge, le limosine per feste, per processioni, per [p. 88 modifica]messe. La provvida legge vietò a’ notari di scrivere testamenti che apportassero nuovi acquisti a quelle mani; impedì le permute; agguagliò a censi le enfiteusi a tempo, i lunghi affitti e gli affitti rinovati a’ locatori medesimi; talchè Le mani-morte conservassero il canone, perdessero la proprietà.

I quali provvedimenti superiori alla civiltà comune, erano contrastati dalla ignoranza del popolo, dalla scaltrezza de’ cherici. Donna divota nominò nel testamento sola erede l’anima sua. Trapassato di subita morte Giovan Battista Latilli di Bitonto, il vescovo e ’l parroco fecero insieme il testamento dell’anima, legando buona parte del patrimonio a celebrazione di messe; testamento simile fece il vescovo di Bisceglia per l’anima di Francesco Pascullo, ucciso; ed altro ne fece in Pisticce il vicario della diocesi per l’anima del sacerdote Lisanti, morto intestato. Tutti furono dal governo rivocati, biasimati i vescovi, e con legge i teslamenti all’anima e dell’anima proibiti. Succederono gli eredi legittimi; e poichè al Pascullo mancavano, ereditò la comunità di Bisceglia.

III. Così provvide a scemare le soperchie ricchezze della Chiesa, altre leggi abbattevano le pretensioni chiamate da’ pontefici diritti, e di queste leggi riferirò gli effetti. Fu allargata la giurisdizione laicale, e altrettanto ristretta la ecclesiastica, ed al tribunale misto, ed al delegato della giurisdizione regia (magistrati noti per il primo libro) si aggiunse un avvocato della corona, vigilatore alle ragioni della sovranità.

Fu minuito il numero de’ preti, il dieci per mille anime praticato da Carlo diventò legge dello stato; dipoi annoverarono fra i dieci i frati sacerdoti, e finalmente il dieci si ridusse al cinque.

Non si ordinavano preti o diaconi se mancavano del patrimonio, nè il patrimonio potevasi accrescere o stabilire a danno delle famiglie.

Vietavasi al figlio unico il chericato; ed alla casa che aveva un prete, il secondo.

Si dichiarò cassa qualunque bolla o carta del pontefice, nuova, antica, antichissima, non fosse validata del regio assenso: nè basterebbe a legittimarla (sono parole dell’editto) l’uso, la pazienza, o il sommo de’ passati monarchi. Il regio assenso fu difinito: Rtegalia inalienabile che non mai si prescrive o si presume. E in altri editti, le concessioni di natura ecclesiastica, fatte o assentite dal re, si sciolgono a piacimento dello stesso re, o de’ re successori. Le volontà de’ fondatori si sopprimono, si commutano a beneplacito del re. Gli ecclesiastici dipendere dal re e da’ suoi magistrati, e non essere su la terra dignità che abbia diritto o possanza di derogare alle sentenze sopradette. [p. 89 modifica]

Le quali applicate a molti casi, e ripetute negli atti del governo, stabilirono a poco a poco le pratiche e le opinioni ne’ giudizii de’ magistrati, e nell’animo de’ popoli. Quindi il divieto di ricorrere a Roma senza il regio permesso; quindi le provviste de’ benefiziati fatte dalla cancelleria romana, annullate dal re; impedite le concessioni de’ pontefici sopra le rendite de’ vescovi; impedito al papa congiungere, separare, multar confini alle diocesi; abolite le regole della cancelleria romana; non accettar nunzii se non approvati dal re. Il matrimonio definito contratto civile per natura, sacramento per aecessione; le cause matrimoniali, di competenza laicale; o, se de’ vescovi, per facoltà delegata dal principe. E se n’ebbe pruova nel matrimonio del duca di Maddaloni, che voleva risolversi per caso preveduto dal concilio di Trento. Il nome, il grado, la ricchezza degli sposi fecero quella causa la più famosa del tempo, così che il nunzio voleva trattarla nel tribunale della nunziatura; ma il re, nominato il magistrato a deciderne, confermò essere i matrimonii patti civili.

IV. Crebbero per le cose dette le facoltà dei vescovi, ma in danno di Roma; perciocchè nello interno l’autorità vescovile fu ristretta e abbassata. Venne a’ vescovi proibito d’ingerirsi nella istruzione pubblica, e di stampare scritti non sottomessi alla censura comune ed approvati dal re. Vietate le censure de’ vescovi, vietati i processi per lascivie, interdette le carceri. Dipoi soppresse le immunità personali, proibite le questue, soggettate a tariffa le sportule ecclesiastiche, francati i luoghi pii dalle prestazioni a’ vescovi, rivocate per sempre certe esazioni che i vescovi facevano da origine tanto vetusta che dimenticata; e si diceva nel decreto: Il vescovo come prepotente non prescrive.

Qui rammento che nel 1746, tentata dal papa e dal cardinale Spinelli la introduzione del tribunale del santo-uffizio, mosso il popolo a tumulto, non si ebbe quiete prima che scomparissero le cose e i segni del tribunale abborrito, e non fossero eletti (a sicurtà dell’avvenire) quattro del popolo col nome e ‘l carico di deputati avverso al santo-uffizio. Questi medesimi, dopo la partenza di Carlo, dimandarono al re successore la conferma di que’ privilegi accordati con gli antichi re, per le preghiere, i tributi ed i tumulti del popolo. E la reggenza, sollecita di contentare la onesta dimanda, riprodusse gli editti medesimi di Carlo confermati e giurati dal successore. Così ella stessa, poco innanzi la maggiorità del principe (dicendo a’ magistrati che vegliassero alle ragioni della sovranità, affine d’impedire che le male usanze della corte romana, svette a stento dalla sapienza de’ due regni borbonici, si rallignassero), impose l’obbligo alla regal camera di Santa Chiara, al delegato della giurisdizione regia, all’avvocato della corona, d’instruire per [p. 90 modifica]dotte popolari scritture i reggitori e i soggetti ne’ veraci dogmi della religione di Cristo, e tornare in concordia l’impero, il sacerdozio, il giudizio de’ magistrati, la coscienza de’ popoli.

V. Si operavano le dette cose mentre il principe di San Nicandro provvedeva alla sanità ed agli studii del re, il quale nato con felicità di robustezza, e dedito agli esercizii della persona, acquistando tuttodì gagliardia, inchinava alle pruove di forza; secondato dal precettore che andava superbo di quella corporale valetudine. Furono ravvivate le ordinanze per la caccia, rammentate le pene, anche i tratti di corda a’ trasgressori, popolati i boschi di fiere, moltiplicati i custodi, e, avanzando lo stesso genio smodato di Carlo, aggiunte altre foreste alle antiche. Aveva il re dodici anni, Gli esercizii e i diletti consumavano molte ore del giorno, e svagavano la mente dagli studii. Gli uomini di più fama e dottrina erano suoi maestri; ma ora il tempo, ora mancando il volere, nessuno o raro l’insegnamento, si vedevano crescere del re la forza e l’ignoranza, pericoli dello stato nell’avvenire.

Fanciullo, non soffriva conversar co’ sapienti, e fatto adulto, ne vergognava. Godeva mostrare o narrare come sapesse abbattere cignali o cervi, colpire a volo uccelli, frenar destrieri, essere sagacissimo alla pesca, primo alla corsa; talenti millanterie da barbaro, tenuti a pregio da genti del popolo educate a costume spagnuolo. Coll’andare degli anni avanzava il gusto incivile del re; e adulto appena (a sedici anni) divenuto libero sovrano di ricca e grande monarchia sperdeva il tempo ne’ piaceri della giovinezza e del comando tra giovani, come lui, atleti e ignoranti. l’attitudine a quelli esercizii. la forza, il vivere dissipato, i gusti plebei, divennero ambizioni de’ soggetti, e tanto più de’ nobili, compagni al re o da lui ammirati nella corte. E tanto si appresero all’animo di lui quelle barbare costumanze che non bastò a sbandirle lunga età, e regno pieno di varie fortune. Era già marito e padre quando in Portici, dopo ammaestrati al maneggio dell’armi certi soldati che nominò Liparotti, alzava bettola nel campo, e con vesti ed arnesi da bettoliere ne faceva le veci, dispensando cibo e vino a poco prezzo, mentre i cortigiani e talvolta la moglie simulavano della bettola i garzoni e la ostessa. Altra volta giuocando a pallone, vedendo tra spettatori giovine macro e stentato, bianco il capo di polvere, con veste lucida e nera di abate, volle per ingiurioso diletto farne spettacolo di riso; e piegatosi all’orecchio di un cortigiano, fu veduto questi partirsi e tornare con coperta di lana, che quattro de’ giuocatori più gagliardi (il re tra loro) distesero tirandola per le punte: e subito l’abate preso da servi o manigoldi, trasportato nell’arena del giuoco, messo per forza su la coperta, balestrato in aria più volte ricadeva sconciamente tra le risa e le grida di plebaccia e di [p. 91 modifica]re, che presagivano altre feste popolari e feroci. Essendo quello abate il signor Mazzinghi, nobile fiorentino, ln corte di Toscana fece lamentanze alle corti di Napoli e di Spagna; ma non potendo ragion privata disturbare la concordia de’ regnanti, spettava alla istoria vendicare il Mazzinghi. Il quale fuggendo la inospitale città, e vergognando di tornare in patria, fermato a Roma dopo alcuni mesi di melanconia si morì.

Più volte all’anno, dopo la pesca ne’ laghi di Patria e del Fusaro, il re vendeva il pesce, serbando pratiche, aspetto ed avarizia di pescivendolo. Le malattie o le morti nella famiglia, le guerre infelici, le sventure di regno, la perdita di una corona, nol distoglievano dalla caccia nè da’ giuochi villani, siccome andrò narrando nel corso della istoria. I quali esercizii, e la conseguente stanchezza, e l’ozio, e ‘l molto cibo, e il sonno prolungato, riempiendo tutte le ore del giorno toglievano il tempo a coltivare la mente o a governare lo stato. Non mai per vaghezza di studii o per pubblici negozii leggeva libro o scrittura; e come nella minorità la reggenza guidava il regno, così quando ei fu libero lo guidavano i ministri o la moglie. Apportandogli tedio sottoscrivere del suo nome gli atti d’impero, li faceva in sua presenza segnare con sigillo a stampa che gelosamente custodiva. Impaziente alle funzioni della mente, fastidiva i consigli di stato; raro li chiamava, presto li discioglieva; vietando i calamai per ischivare la tardità dello scrivere. Nelle quali particolarità essendo le cagioni di molti fatti, ho voluto trattenermi ne’ principii del libro, acciò i racconti non tornino incredibili o maravigliosi.

VI. Nell’anno 1763 per iscarso ricolto di biade i reggitori si affrettarono a provvedere l’annona pubblica. i cittadini la privata; ma volse in danno il rimedio; però che il molto grano messo in serbo, soccorrendo i bisogni avvenire; trasandando i presenti, fece la penuria nel cominciar dell’anno 1764 certa ed universale, Le inquietudini e i lamenti del popolo, i falli del governo, l’avidità de’ commercianti, e i guadagni che vanno congiunti ad ogni pubblica sventura, produssero danni maggiori e pericoli; si vedevano poveri morir di stento; si udivano votati magazzini o forni; poi furti, delitti, rapine innumerevoli. La reggenza, prefiggendo alle biade piccolo prezzo in ogni terra o città, desertò i mercati; dicendo non vera la penuria ma prodotta da monopolisti, concitò turbolenze; e disegnando a nome certi usurai, furono uccisi. Spedì nelle province commissarii regii e squadre di armigeri a scoprire i depositi di frumento, metterlo a vendita ne’ mercati, e punire (diceva l’editto) gli usurai nemici de’ poveri. Capo de’ commissarii con suprema potestà era il marchese Pallanti, che a mostra di rigorosa giustizia, faceva alzare le forche ne’ paesi doye poco appresso ci giungeva con [p. 92 modifica]seguito numeroso ed infame di birri e carnefice. Nessun deposito fu scoperto, però che tutti i magazzini erano stati innanzi vuotati dal popolo; nessun uomo restò punito perchè non mai vero il monopolio; quelle provvidenze valsero a palesare la stoltizia del governo, e accrescere nella plebe la disperazione e il disordine. S’ignora quanti morissero di fame, e quanti ne’ tumulti; gli uni e gli altri non computati per negligenza, o non palesati per senno del governo. Finalmente, saputa ne’ mercati stranieri la fame di Napoli, vennero con gara di celerità molte barche di grano, e la penuria cessò. Allora nuova prammatica sciolse i contratti della carestia, riducendo a prezzi bassi ed a condizioni prescritte le cose innanzi pattovite per comune volontà e interesse; ed altra prammatica rimise le colpe (furti, spogli, omicidii) commesse per causa di penuria. Tutte le dottrine di stato, tutte le giustizie furono conculcate.

Nè i riferiti avvenimenti ammaestrarono la reggenza; per lo contrario, divenuta più timida, accrebbe negli anni seguenti le provvigioni dell’annona, vietò l’uscita a’ prodotti nativi del regno, doppiò la povertà. E però i cittadini migrando a stuoli non che a famiglie, fecero necessario nell’aprile del 1766 che il governo li ritenesse per leggi e pene.