Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro I/Capo IV
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CAPO QUARTO.
Seguito e fine del regno di Carlo.
XLVIII. Dopo i fatti di Velletri e di Lombardia parve a Carlo ed al mondo assicurata la casa dei Borboni nel regno delle Sicilie. Il re tornando alle cure di pace, volle far pago il naturale desiderio di grandezza ne’ pubblici monumenti; alcuni, anche fra le incertezze della fortuna e le angustie dell’erario, ne aveva cominciati o compiuti; altri ne fece nelle maggiori felicità, e più ne immaginava quando passò al trono delle Spagne. Io dirò i più degni. Sono opere di Carlo il molo, la strada Marinella, quella di Mergellina, e tra l’una è l’altra l’edifizio della Immacolata. Tutto quel lido, sovente rotto dal mare, abitato da misera gente, lordo, insalubre, fu trasformato in istrada e passeggio bellissimo; delizia degli abitanti, ornamento della città.
Andando il re con la regina a Castellammare sopra gondola, e ritornando per terra, nell’iterata vista s’invaghirono dell’amena contrada di Portici; e Carlo udendo che l’aria vi era salubre, la caccia (di quaglie) due volte l’anno abbondantissima, il vicino mare pescoso, comandò farvisi una villa, e ad uno di corte che rammentava essere quella contrada soggiacente al Vesuvio, con animo sereno replicò: «Ci penseranno Iddio, Maria Immacolata e san Gennaro.» L’architetto Canovari diede il disegno e l’eseguì.
Quasi nel tempo stesso volle il re che si alzasse altra villa sul colle vicino alla città, detto Capodimonte; sol dal sentire che in quel luogo abbondano nell’agosto i piccoli uccelli beccafichi. Parecchie opere di quel monarca ebbero principio dalla soperchia passione della caccia; ma se più nobili obietti lo avessero mosso, le arti, la custodia delle frontiere, il commercio, quelle immense spese sarebbero state più degne di buon principe, più benedette da’ popoli. Del palazzo di Capodimonte diede l’idea l’architetto Medrano. A mezzo dell’opera, trovandosi fondato l’edifizio sopra grotte vastissime scavate in antico per tirarne pietre di tufo e lapilli, furono necessarie ad impedir la rovina immense moli sotterranee, La spesa ivi sepolta, fu tre volte doppia dell’apparente, il re ne prese tedio; non vi era strada rotabile che menasse a quel luogo, ed il pensiero di aprirla fu trasandato; lo stesso palagio restò incompiuto. A chi lo vede dalla città pare monumento antico, però che le fabbriche interrotte rendono aspetti di rovine. Venne poi tempo, come narrerò, che l’incompiuto edifizio piacque ad altri re.
XLIX. E volle Carlo che si ergesse un teatro, avendone allora la città pochi e sconci; e, per aggiungere alla magnificenza la maraviglia, comandò che fosse il più ampio teatro di Europa, fabbricato nel minor tempo possibile all’arte. Avutone il disegno dal Medrano, diede carico della esecuzione ad un tal Angelo Carasale nato di plebe, alzato in fama per ingegno di architettura e per opere ardite e stupende. Egli scelse il luogo presso alla reggia, abbattè molte case, aggiunse vasto terreno, acciò, aperto il palco scenico, si vedessero in distanza le maravigliose rappresentazioni di battaglie, cocchi e cavalli. Cominciò l’opera nel marzo, fini nell’ottobre del 1737, e il dì 4 di novembre, giorno del nome di Carlo, fu data la prima scenica rappresentanza. L’interno del teatro era coperto di cristalli a specchio, e gl’infiniti lumi ripercossi rendevano tanta luce quanta la favola ne finge dell’Olimpo. Un palco vasto ed ornatissimo era per la casa regia; il re entrando nella sala, maravigliando L’opera grande e bellissima, battè le mani all’architetto, mentre plausi del popolo onoravano il re, cagione prima di quella magnificenza.
In mezzo all’universale allegrezza il re fece chiamare il Carasale, e pubblicamente lodandolo dell’opera, gli appoggiò la mano su la spalla come segno di protezione e di benevolenza; e quegli, non per natura modesto ma riverente, con gli atti e con le parole rendeva grazie alle grazie del re. Dopo le quali cose il re disse che le mura del teatro toccando alle mura della reggia sarebbe stato maggior comodo della regal famiglia passare dall’uno all’altro edifizio per cammino interno. L’architetto abbassò gli occhi, e Carlo soggiungendo «ci penseremo» lo accommiatò, Finita la rappresentanza, il re su l’escire dal palco trovò il Carasale che lo pregava di rendersi alla reggia per l’interno passaggio da lui bramato. In tre ore, abbattendo mura grossissime, formando ponti e scale di travi e legni, coprendo di tappeti ed arazzi le ruvidezze del lavoro, con panneggi, cristalli e lumi, l’architetto fece bello e scenico quel cammino; spettacolo quasi dirci più del primo lieto è magico per il re.
Il teatro ch’ebbe nome di San Carlo, il passeggio interiore, il merito, la fortuna del Carasale furono subietto per molti giorni a’ racconti della reggia e della città. Laudi funeste; però che l’invidiato architetto, richiesto de’ conti, non soddisfacendo ai ragionieri, fu minacciato di carcere. Andò a corte, parlò al re, rammentò le grazie sovrane, il plauso del popolo, la bellezza dell’opera; rappresentò nella sua povertà le prove di onesta vita; e partì lieto scorgendo nel viso del re alcun segno di benevolenza. Ma così non era, perciocchè doppiarono le inchieste del magistrato; e poco appresso il Carasale, menato nella fortezza di Santelmo, fu chiuso in prigione dove campò ne’ primi mesi per gli stentati ajuti della famiglia, e poi dell’amaro pane del fisco. Restò nel carcere alcuni anni e vi morì: i suoi figli si perderono nella povertà; e nulla rimarrebbe del nome Carosale ai dì nostri, se la eccellenza e le meraviglie dell’opera non ravvivassero nella memoria l’artefice infelice.
L. Carlo fece costruire parecchie strade ed un bel ponte sul Volturno presso a Venafro: le quali opere, sebben fatte per lo stesso amore della caccia sì ch’ebbero nome strade di caccia, pure apportavano alcun benefizio a’ paesi e alle terre circostanti. Frattanto mancavano le strade più utili al regno; era difficile e pericoloso andare (e a cavallo) in Calabria, poco manco in Abruzzo; la strada di Puglia fatta sino a Bovino, luogo di regia caccia, fu trascurata nel resto delle tre province; non vi erano vie provinciali o comunali, tanto per difetto di strade regie, quanto per fraudi ed errori delle interne amministrazioni. Tutto il bello, il grande, il magnifico delle opere «di Carlo stava intorno alla città.
Migliorò l’edilizio de’ regii studii. Alzò da fondamenti con disegno dell’architetto cavaliere Fuga il reale albergo de poveri, aperto a tutti i poveri del regno. Carlo non vide l’opera finita, ma già vi si adunavano poveri a migliaja di ambo i sessi, giovanetti sperduti o miseri, o vagabondi; e molte arti utili e nuove. Dirò ne succedenti libri quanto fossero migliorate le discipline del luogo, e come l’edifizio fu compiuto; ma la prima e maggior gloria è di Carlo.
Il quale, poco appresso, volendo emulare il fasto degli avi ne’ castelli di Versailles e Santo Ildefonso, ed alzare palagio magnifico più sicuro che la reggia dal Vesuvio e dalle offese di nemico potente in mare, elesse il piano di Caserta, quattordici miglia lontano dalla città. Un’antica terra dello stesso nome, Casa-Erta, fondata da’ Longobardi, serba sul vicino monte, tra vaste rovine, pochi edifizii abitati da piccolo numero d’uomini, i quali antepongono a’ comodi ed alle grandezze della nuova città i rottami dell’antica patria. Morti od invecchiati i maggiori architetti, Carasale in carcere, e nel reame nessun altro pari al concetto, Carlo fece venire di Roma Luigi Vanvitelli napoletano, chiaro e primo in Italia per altre opere. Fu il palagio fondato sopra base di 415,939 piedi parigini quadrati, si alzò di 106 piedi; colonne magnifiche, archi massicci, statue colossali, marmi intagliati adornano le facce dell’edifizio; in cima del quale, sopra il timpano del frontispizio, mirasi la statua di Carlo, equestre, in bronzo.
L’interno di quella reggia racchiude marmi preziosi, statue e dipinture de’ più famosi scultori e pittori di quella età, legni intagliati, lavori di stucco, cristalli, vernici, pavimenti di marmo, di mosaico, e di altre rare o pietre o terre. E dirò in breve che quel solo edifizio rappresenta l’ingegno di tutte le arti del suo tempo. Piazze e parchi lo circondano per tre lati, innanzi al quarto si stende giardino vastissimo, magnifico per obelischi, statue, scale di marmo, fontane copiosissime e figurate. Un fiume cadente a precipizio, quindi a scaglioni, e infine dilatato in lago, e disperso in ruscelli, si vede scendere dal contrapposto monte; il monte istesso è un giardino a modo inglese, che accoppia alle grandezze veramente regie dell’arte i favori di tiepido clima, terra ubertosa, primavera continua.
L’acqua raccolta in fiume viene dal monte Taburno per acquidotto di 27 miglia, traversando le montagne Tifatine e tre larghe valli; così che scorre per canali cavati nel seno delle rupi, o sospesa sopra ponti altissimi e saldi; il ponte nella valle di Maddaloni, lungo 1618 piedi, sopra pilastri grossi 32 piedi, per ire ordini arcati s’innalza piedi 178. E perciò, se non parlassero le scolpite pietre e le memorie, quell’opera sarebbe creduta della grandezza e dell’ ardimento di Roma. Le acque di Caserta, dopo che hanno irrigato quelle terre, abbelliti gli orti e la reggia. corrono coperte e si congiungono alle acque di Carmignano per venire in Napoli copiose a’ bisogni di tanta città.
LI. Annovero fra le opere più fortunate di Carlo gli scavi di Ercolano e di Pompei; e poichè dovrò dire di città distrutte dal vicino vulcano, accennerò prima le due più grandi eruzioni avvenute sotto quel re, e le magnanime sue provvidenze a soccorrere le travagliate genti. La prima eruzione fu nell’anno 1738, disastrosa per abbondanti ceneri vomitate dal monte, alzate in forma di pino sino alle nuvole, trasportate dal vento in paesi lontani, là discese, e per piogge e propria natura assodate e impietrite. La fertilità di ampie regioni fu mutata in deserti; e più devastate le città delle due Torri, Sarno, Palma, Ottajano, Nola, Avellino, Ariano. L’altra eruzione dell’anno 1750, più fiera per tremuoti e distruggimenti, coprì di lava borghi, villaggi, terreni feracissimi e colli. Il re, l’una e l’altra volta, rimise i tributi delle terre danneggiate o gli scemò; diede soccorsi, fece doni. Nel tempo della eruzione del 38 agitandosi le quistioni giurisdizionali tra ’l re e ’l papa, i frati e i preti della città susurravano agli orecchi del popolo, quel flagello esser messaggio di Dio ai ministri di Carlo, acciò desistessero da tribolare la Chiesa e i sacerdoti. Ma il volcano quietò, serenò il cielo, i timori svanirono, le contese col papa seguitarono.
LII. Di Ercolano sono favolose le origini, di Pompei oscure, due città della Campania floridissime a’ tempi di Tito Vespasiano, quando per tremenda eruzione (descritta dal giovine Plinio) Ercolano fu coperta da lava, Pompei oppressa da vomitate ceneri e lapilli, poi sotterrata dalle materie che le acque a torrente vi trasportarono; furono però varie le cagioni ma una rovina in un giorno disfece le due città. Spenta con gli uomini viventi la memoria de’ luoghi, si cercava indarno dov’erano poste quelle moli superbe; così che dall’anno 79 dell’era di Cristo restò ignota la città di Ercolano sino al 1738, quella di Pompei sino al 1750.
Fu casuale lo scoprimento, avvegnachè scavando pozzi o fossi, traendone marmi finissimi e lavorati, e giugnendo in sotterranei chiamati allora caverne, poi conosciuti per fori, tempii e teatri, si dubitò che fossero in que’ luoghi città sepolte. Il re disse di pubblica ragione quelle rovine; e facendo in esse scavare, ne trasse tanta ricchezza di anticaglie che oggi il museo borbonico è dei primi di Europa. Fra le rarità ercolanesi sono i papiri avvolti a rotolo, ne’ quali erano scritte dottrine greche. incarbonati dal volcano: ma l’arte ha trovato modo di svolgere in piano quelle carte, e leggere in alcuna parte lo scritto. Poco di quella prima città fu diseppellito, trovandosi coperta di basalto massiccio e della bella città di Resina; così che bisognerebbe abbattere questa vivente per mettere in luce l’altra già morta. Pompei coperta di terre vegetabili e di lapillo si andava largamente scoprendo, e ne uscivano cose preziose di antico. Carlo che spesso vi assisteva, vide una volta un globo di forma ovale (lapilli e ceneri addensati) duro come pietra e di peso maggiore delle apparenti materie che lo componevano. Lavorò egli stesso parecchi giorni ad aprirlo, traendone monete di vario metallo; ed infine, quasi al centro del globo, un anello d’oro figurato di maschere, che in mercede della durata fatica si pose al dito. Dirò altrove, ad onore di lui, qual uso facesse dell’anello. Non è della presente istoria descrivere le cose mirabili delle due città: altri scritti dimostrano quanto abbiano accresciuto alla finezza delle arti ed alla cognizione dell’antichità.
In molte camere del nuovo palazzo di Portici furono disposte quelle anticaglie; e nel tempo stesso fu instituita un’accademia ercolanense, che per filosofia e per istoria le illustrasse. Altre accademie sursero a’ tempi di quel re. La università degli studii migliorò per lezioni utili aggiunte alle troppe di materia forense e teologica le quali ingomberavano l’insegnamento. Avvantaggiarono i collegi; rimasero i seminarii con le discipline medesime, sconoscendo i vescovi ogni autorità civile, amanti di non mutare dal vecchio. Ma per quanto Carlo facesse a pro delle scienze o lettere, la istruzione non era comune; sorgevano uomini egregi di mezzo all’ignoranza pubblica.
LIII. Altri provvedimenti di Carlo degni di lode o di biasimo non sono da tacere. Minacciò ed offese di gravi pene i contraventori alle ordinanze per le reggie cacce. Introdusse ne’ suoi regni il giuoco del lotto, invenzione di talento avaro e prepotente. Confinò, poi spense la peste di Messina. Restrinse in un quartiere della città le meretrici, ordinando che fossero vegliate, visitate nella persona, punite delle colpe inseparabili da quella turpe condizione. Prima permise per il lucro di quarantamila ducati all’anno i giuochi pubblici di carte o dadi; poi gli abolì. Riprovò e proscrisse la setta de’ liberi muratori per impulsi delle corti di Francia e di Roma; ma nessuno de’ soggetti fu castigato, però che governo saggio e giusto vieta le società secrete, le impedisce, le scioglie e le dispregia. Scacciò gli Ebrei, quei medesimi sette anni prima venuti in Napoli per sua chiamata e con sue promesse; il popolo mal tollerava quelle genti; il gesuita padre Pepe sosteneva la popolare ignoranza e pregava il re, al quale aveva facile accesso, di cacciar dal suo regno cristiano i discendenti de’ crocifissori di Cristo; un altro frate di san Francesco, venerato per opinione di santità dalla regina, le disse un giorno con voce sicura da profeta, ch’ella non avrebbe prole maschile finchè gli Ebrei stessero in regno. Furono espulsi. La bassezza di quella nazione si nobilita della sua combattuta costanza alle sue fedi, virtà d’ogni civiltà; ma la intolleranza ne’ cristiani non ha scusa, non ha sembianza di alcun pregio; è avanzo ed argomento di barbarie antica, più vituperevole per noi che osiamo chiamarci più civili della terra. La plebe di Napoli fu allegra del bando dei Giudei.
LIV. La qual plebe, mesi avanti, tumultuò per sospetto che segretamente s’introducesse l’abborrito tribunale della inquisizione, e dirò come. La potenza del papa rinvigoriva per le guerre d’Italia, varie di fortuna, incerte di successo, e per la desiderata amicizia de’ re combattenti. Egli in quell’anno canonizzò cinque santi, fondò nuov’ordine monastico, i cherici-scalzi, ed invitò il cardinale Spinelli arcivescovo di Napoli ad introdurre inosservatamente il tribunale del santo-uffizio; il pontefice era Benedetto XIV, uno de’ più lodati. L’arcivescovo nominò i consultori, i notai; formò sigillo proprio per i processi; preparò carceri; vi chiuse parecchi per materia di fede, e a due di loro fece eseguire la cerimonia dell’abjura. Imbaldanzito da que’ primi passi, dal silenzio del popolo, dagli elogi del pontefice e dalla religione di Carlo, fece scrivere in pietra ed esporre all’ingresso della casa, «santo uffizio.»
È noto per le nostre istorie quanto i Napoletani abominassero quel nome; e le guerre intestine perciò mosse o sostenute; e le spedite ambascerie ai re lontani; e l’ottenuta o pattovita franchigia; comunque a prezzo di ubbidienza e di tributi. Miracolo a dire! il popolo credente, superstizioso, ignorante, al semplice sospetto d’inquisizione levasi a tumulto, sconosce e minaccia l’autorità del principe, assedia e vince nelle proprie stanze numerose milizie; nè già l’infima plebe per cieca insania come suole o per amor di tumulti; nè il solo miglior ceto per sapienza e libertà; ma tutti i ceti, tutte le condizioni, gli uomini molli della città, gli uomini semplici delle campagne, unanimi e solleciti come instinto comune li movesse. Ed oggi quello istesso popolo che voleva il bando degli Ebrei, che accoglieva ed arricchiva î nuovi cherici-scalzi, che a gran prezzo comprava gli ossi e le reliquie de’ cinque nuovi santi, veduto il cartello nel palazzo arcivescovile, mormora, si commuove, minaccia di morte due cardinali; e prorompeva in disordini maggiori, se il re (veramente per le querele dell’eletto del popolo, e ’l ricordo delle violate antiche leggi e de’ recenti patti e giuramenti) non avesse con editto riprovato il procedere dell’arcivescovo, abbassato e spezzato il cartello, rivocata la segreta eccelesiastica giurisdizione, e tornata, com’cera innanzi, manifesta e legale. Il cardinale Landi, spedito dal pontefice a pregare il re che moderasse i rigori dell’editto, nulla ottenne; e minacciato dalla plebe affrettò il ritorno. L’arcivescovo Spinelli fu costretto dall’odio pubblico a rinunziare il seggio arcivescovile e lasciar la città. L’editto di Carlo, tutto scritto in marmo. fu solennemente murato in san Lorenzo, casa del comune. Il popolo assistente, soddisfatto e lieto, con gridi e schiamazzi da plebe, donò al re trentamila ducati.
LV. Durava frattanto la guerra di Lombardia, e buona schiera di Napoli, fin dopo i fatti di Velletri, accompagnava l’esercito spagnuolo. Per tutto l’anno 1745 la fortuna fu varia; ma nel seguente si fece avversa ai Borboniani, che investiti e scacciati si ritiravano verso Genova, ricca ed amica. La Magra, ingrossata per distemperate piogge, ritartava la formazione di un ponte, e formatolo ruppe e trasportò. Il nemico avanzava, i Borboniani tra lui e il fiume raddoppiando fatica, siccome il caso voleva, congegnarono altro ponte e lo passavano in fretta, quando sopraggiunti gli Alemanni, impedirono ed uccidevano le ultime file. Finalmente i nostri, pugnando, giunsero all’altra sponda; ed allora degli eserciti mutate le speranze e le cure, gli Spagnuoli volendo rompere il ponte, gli Alemanni serbarlo per passar all’altra riva, si combatteva dalle due parti con incerta fortuna. Nel qual mezzo un sergente napoletano, gigante di persona e di forza, con quattro de’ suoi avanza baldanzosamente sul ponte, e rompono con le scuri, sotto gli occhi e le offese del nemico il mezzo della macchina; ma perciò che operavano a precipizio, e quella si aprì alquanto prima delle speranze, restarono i cinque guastatori verso il nemico, sì che certo appariva la prigionia loro o la morte. Ma il sergente lanciando sull’amica sponda la scure e l’armi, si gettò nel fiume; gli altri quattro imitarono l’esempio, e tutti nuotando tornarono salvi ed onorati al proprio campo. Ebbero i soldati larga mercede; il sergente fu alzato da Carlo a capitano. Simil valore ad Orazio, soldato di repubblica , diede eterna rinomanza; i moderni storici di monarchia trascurarono il nome del generoso campione.
Continuando la ritirata de’ Borboniani e la prosperità de’ contrarii, Genova da’ primi abbandonata, fu presa dagli altri, e peggiori sorti si preparavano, quando il disperato ardire della città mutò le condizioni della guerra d’Italia. A me non spetta, e me ne duole, discorrere i maravigliosi fatti del popolo genovese contro le agguerrite schiere alemanne; chè raro avviene a chi scrive istorie d’Italia narrare il trionfo degli oppressi sopra i tiranni; come di ordinario sono le parti de’ suoi mesti racconti, la miseria de vinti, la felicità degli oppressori. Non così nella città di Genova l’anno 1746, allorchè tollerate tutte le ingiurie, tutti i danni, e non però satollata la feroce avarizia e l’arroganza de’ Tedeschi, per leggero caso, e per un sasso vibrato da mano di fanciullo, prima la plebe, poscia il popolo ed infine il senato si alzarono a vendetta ed a guerra con tanto ardore è felicità che scacciarono vinti ed avviliti il generale Botta (per cordoglio d’Italia, Italiano) e molte migliaja di Tedeschi. Genova si chiuse ed armò; mancarono agli Alemanni gli ajuti di ricca e forte città; crebbe a loro il numero de’ nemici; mutarono i disegni della guerra. La Francia, la Spagna, il re di Napoli mandarono ambasciatori, soldati e danaro alla eroica città; la quale ordinò molte schiere per sua difesa ed ajuto a’ collegati. La guerra del seguente anno si sperava felice a’ Borboni.
LVI. Se non che la improvvisa morte di Filippo V, e la mente ancora non palese del successore Ferdinando VI, tenevano sospesi gli animi e gli apparati. Ma il nuovo re delle Spagne, comunque desiderasse la pace, disse, che seguirebbe le imprese del padre: spedi nell’Italia nuove milizie, confermò la guerra. Scrisse a Carlo lettere affettuose. La regina madrigna, nulla perdendo di ricchezza o rispetto, scese di potenza, ed andò a vivere privatamente in un castello distante dalla reggia.
Con varia sorte durò la guerra ancora due anni, così che per sette anni si tollerarono morti e danni infiniti, senza veruna di quelle estremità che menano alla pace volontaria o forzata; si scontravano i nemici e combattevano. Era ignota nel tempo del quale scrivo la scienza che oggi chiamano Strategia, ossia muovere l’esercito lontano dalle offese e dal guardo del nemico per giugnere a certo punto determinato dalle ragioni della guerra, e debellare senza contrasto schiere, fortezze, o città, conservare le proprie basi e linee, occupare le linee o le basi dell’oste contraria. Chè se i maggiori capitani de’ secoli scorsi, e ‘l contemporaneo principe Eugenio di Savoja ne usarono alcune parti, venne da genio naturale e sublime, non da sapere. Avvegnachè Federico II di Prussia fu primo ad ampliare quelle pratiche, le quali compiute ed ordinate da Bonaparte, esposte dal generale Jomini e dal principe d’Austria, divennero dottrina e talento delle scuole; ma l’usarle ne’ campi è raro ingegno di capitano. Per la strategia sono più rare le battaglie, meno importanti le fortezze, corte le guerre,
Ma nel 1748 altre necessità costringevano a finire la guerra; la stanchezza de’ governi, la diminuita forza degli eserciti, la spacciata finanza, e pur direi la misera condizione de’ popoli se di questa si tenesse conto ne’ consigli de’ re e nei computamenti della politica: mezzo milione di nomini avea consumati la guerra, sette mila navi mercantili predate, mezza Germania, mezza Italia, e molto delle Fiandre, campeggiate e spogliate; innumerabili fortezze conquassate, città distrutte. I re contrarii bramarono la pace, e adunato congresso di ministri in Aquisgrana, se ne fermarono i preliminari che a’ 18 di ottobre di quell’anno; per le ratificazioni de’ re guerreggianti, divennero patti di pace durevole. Io riferirò le sole cose che riguardavano a permanenti dominii dell’Italia. Tutti gli stati tornassero come innanzi la guerra: il re di Sardegna possedesse Vigevano e parte del Pavese e del contado di Anghiera, secondo i trattati di Vormazia: il duca di Modena riavesse gli stati suoi d’Italia. ’l prezzo de’ feudi per la guerra perduti in Ungheria: don Filippo, infante di Spagna, secondo nato di Filippo V da Elisabetta Farnese, avesse i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla; ma da rendere a’ presenti possessori quando mai don Filippo morisse senza figli e ’l re di Napoli ascendesse al trono delle Spagne: la repubblica di Genova rimanesse qual era. Delle Sicilie non facendo parola, restavano confermate al re Carlo. Di guerra così lunga e sanguinosa due sole geste rimangono perpetuate nella storia; e non sono battaglie vinte, o valore o felicità de capitani, ma virtù civili de’ popoli, cioè la fedeltà e gli sforzi dei Napoletani a sostegno del proprio re, e l’impeto mirabile de’ Genovesi ad abbattere la tirannide di gente inumana e straniera.
Rimanendo in Italia non leggero sospetto di future contese per il dominio della Toscana tra ’l imperatore Francesco e ’l re di Napoli, prevenne le guerre il pensiero di doppio matrimonio che facesse col tempo regina delle due Sicilie una figliuola della casa d’Austria, e gran duchessa di Toscana una principessa di Napoli; allora semplici proposte, più tardi effettuate. Altra controversia per l’isola di Malta surse e cadde, come brevemente dirò. Dopo la perdita di Rodi Carlo V diede a’ cavalieri rodinni l’isola di Malta in feudo del regno delle due Sicilie, al cui re dovesse l’ordine in ogni anno, per segno di tributo, mandare un falco, ed alle vacanze della sede vescovile proporre, per la scelta di uno, tre candidati. mostre di vassallaggio, per duecento e più anni trasandate, Carlo rinvigorire; ma opponendosi il gran maestro dell’ordine, fu rotto il commercio con Malta, le commende sequestrate nelle due Sicilie. Il gran maestro invocò l’autorità e l’opera del papa, che scrisse lettere preghevoli al re, il quale per esse concedette il rinovamento del commercio, la liberazione delle commende, tutti gli atti di pace; ma ritenne ed autenticò a sè ed a’ successori le antiche ragioni su l’isola.
LVII. Si confortarono per tante pacificazioni le genti di Europa, ed il re più intese alle nazionali riforme. Stando nell’animo di lui e nella mente del suo ministro Tanucci l’abbassamento della feudalità, con prammatica del 1738 aveva tolte a’ baroni molte potestà, che poi riconcedè nel 1744 a ricompensa de’ servigi nella guerra di quell’anno. Col passare del tempo intiepidiva la improvvida gratitudine, ma sino alla pace di Aquisgrana non si arrischiava di scontentare la parte più potente dello stato. Ed oltracciò i redditi baronali benchè di non giusta o di strana origine erano sì tenacemente intrinsecati nelle consuetudini, che annientarli sarebbe apparsa ingiustizia per fino a coloro che ne avrebbero goduto, Perciò il re e il Tanucci, non toccando agl’interessi de’ baroni, terre, entrate, diritti e proventi, ne depressero l’autorità; e rivocando molte giurisdizioni, soggettando ad appello le sentenze de’ giudici baronali, diminuendo il numero degli armigeri, prescrivendo regole a punirli, snervarono il mero e misto imperio principale istromento della baronale tirannide. Poco appresso furono abolite parecchie servitù personali, quindi per legge stabilito di non mai concedere nelle nuove o rinovate investiture de’ feudi la criminale giurisdizione. Si dichiararono con altra legge incancellabili dal tempo le ragioni delle comunità sopra le terre feudali, si concitarono i litigi; e i giudici stando nella città sotto gli occhi del re, lontani della potenza de baroni, in mezzo a secolo di franchige, sentenziavano raro o non mai a danno de’ comuni. Alle quali giustizie Carlo unì le arti di governo, invitando i maggiori baroni alla corte, e trattenendoli per lusso e vanità. E poichè i maggiori dimoravano nella città, i minori seguivano per ambizione l’esempio. I feudi restarono sgombrati de’ suoi baroni; le squadre di armigeri, di custodia e potenza de’ signori, divenute peso e fastidio, sminuirono; respiravano le province; la città capo del regno, assai popolosa, più cresceva; le case de grandi per soperchio lusso e l’abbandono delle proprie terre, impoverivano; danni non però eguali al beneficio della depressa feudalità. Mutando in parte i sentimenti del popolo, furono i baroni meno riveriti, la feudalità meno legittima, e a poco a poco si aprirono le strade a maggiori successi. Era immensa quella mole che sebbene cadde (come dirò a suo luogo) nell’anno 1810 per opera de’ succedenti re, il merito della prima scossa è di Carlo.
Era tempo felice a’ sudditi ed al re; le oppressioni vicereali dimenticate, le baronali alleggerite, certa la pace, avventurosa di molta prole la reggia, il vivere abbondante, le opinioni de’ reggitori e del popolo concordi. Piccolo numero di sapienti amanti di patria e di novità era unito al governo, però che le riforme di Carlo giovavano alle libertà universali, ed il passaggio della monarchia da feudale ad assoluta vedevasi come età necessaria della vita delle nazioni. Lo studio perciò de’ re, l’interesse de’ popoli, le speranze dei novatori miravano e correvano al punto istesso. Solo il clero e i baroni avevano scopo diverso; ma quello mordeya segretamente il freno aspettando l’opportunità di spezzarlo, e questi per ignavia e vuota superbia si rallegravano de’ titoli e fregi di nobiltà che il re largamente dispensava.
LVIII. Ma le sollecitudini di lui come degli altri re del passato secolo creavano nella società un nuovo ceto, quello che raccogliendo le spoglie de’ ceti depressi ne acquistava le ragioni o le ricchezze, e lo chiamerò Terzo-Stato come si chiamava in Francia dove più presto ebbe nome, e dove interposto tra gli ottimati e la plebe divenne popolo; parte potentissima delle nazioni, operatrice in Europa de’ rivolgimenti della età nostra, fondatrice delle costituzioni de’ regni. Prima delle riforme, baroni e preti avevano ricchezze, comando, giurisdizione, amministrazione de’ beni comuni e della giustizia, tutte le membra del potere; l’infima condizione non aveva altro che pesi ed obbedienza. Dopo le riforme, i grandi radunati nella città e nella reggia, pervenuti al grado che vedevano nella fortuna, desiderosi di mantenersi in quella eminenza, sperando titoli, onori, aura di corte, tenevano a gloria l’ozio superbo, ed a vile l’ambizione dell’operare. Ed il popolo che prima spensierato e solamente bramoso di vita facile, nulla pretendeva al governo dello stato, vide possibilità d’innalzarsi. Coloro tra i grandi che per male venture scendevano, o per amor di guadagno e per indole operosa abbandonavano gli ozii del primo stato, e coloro del popolo che per industria e virtù salivano, gli uni è gli altri ingrossavano il terzo-stato. Il quale perciò, sempre attivo e crescente, possedeva gli elementi veri della forza politica: numero e movimento. Così il terzo-stato viene, per la natura della società, compagno e strumento della monarchia nel passaggio di lei da feudale ad assoluta.
Essendo il terzo-stato possente quanto ho descritto, importa investigare qual genere di persone raccogliesse in Napoli le spoglie baronali ed ecclesiastiche; perciocchè la natura e gl’interessi degli uomini che lo composero si vedranno divenire a poco a poco natura interessi del governo. Qui rammento che le ricchezze di que’ due ceti furono tocche leggermente dalla finanza, e che le riforme di Carlo risguardavano le giurisdizioni: il foro ecclesiastico scemò di autorità e di credito; furono gli asili presso che tolti; molti giudizii criminali o civili de’ cherici passarono alla curia secolare; le liti ne’ feudi, le liti feudali erano giudicate da magistrati regii; il foro di corte, il foro della nobilità ebbero minore potenza. Tutte le perdite di due ceti divennero altrettanti acquisti della curia comune; e però che in essa, come ho detto innanzi, entrava facilmente la plebe, la composizione del terzo-stato fu di curiali. Gli offizii, l’autorità, i guadagni vennero in loro mani; il re pigliava dalla curia i consiglieri, i ministri; l’ingegno forense diventò arte politica; le opere del governo nelle vicissitudini di regno presero indole e sembianze curiali.
Sono i curiali timidi ne’ pericoli, vili nelle sventure, plaudenti ad ogni potere, fiduciosi delle astuzie del proprio ingegno, usati a difendere le opinioni più assurde, fortunati nelle discordie, emuli tra loro per mestiere, spesso contrarii, sempre amici. Il genere della costoro eloquenza è tra noi cagione d’altri disordini: le difese sono parlate, lo scritto raramente accompagna la parola; persuadere i giudici, convincerli o commuoverli, trarre alla sua parte gli ascoltatori, creare a suo pro la opinione del maggior numero, momentanea quanto basti a vincere, sono i pregi del discorso; finito il quale si obbliano le cose dette, e sol rimane il guadagno ed il vanto della vittoria, tanto maggiori quanto più ingiusti. Da ciò veniva che della esagerazione o della menzogna, fuggenti con la voce, non vergognavano gli avvocati; e che i razionamenti semplici e puri della giurisprudenza si mutavano in aringhe popolari e seduttrici, ed il foro in tribuna. Mali al certo per la giustizia e per i costumi, ma rovina e peste nelle politiche trattazioni e ne rivolgimenti civili, quando bisognerebbe ragione, verità, freno alla plebe, temperanza di parti; ed invece prevalgono la briga, il mendacio, la licenza, indi l’origine de’ mali pubblici.
Se le riforme di Carlo, più vaste, avessero inteso non solamente alla Chiesa ed a’ feudi, ma ben anche alle milizie, al commercio, alla divisione de’ possessi, così che fossero entrati nel terzo stato militari, commercianti e possidenti, le condizioni del regno sarebbero state diverse. Ma quelle riforme partivano dal Tanucci, spinto da due sole comunque generose passioni, contro la feudalità, contro il papismo. Gretto d’animo e curiale egli stesso, trascurava le milizie credendole nella pace inutile peso allo stato, e confidando la corona del suo signore alle parentele di Spagna e di Francia, ed alle nuove che andava rannodando con la casa d’Austria e co’ principi della Italia; ignorante di economia politica, di finanza, di amministrazione, avido di potere, e, come straniero, più amante del re che dello stato. La buona fama ch’egli ebbe gli derivò dalle resistenze a’ pontefici, dallo scuotere la feudalità, dall’onesto vivere, da’ piacevoli costumi, e sopra tutto dalla lunga pace del regno, benigna velatrice degli errori de’ governanti.
I vizii del terzo-stato passarono nel governo, e divennero artifiziata natura del popolo; quindi leggi dispotiche, finte paci, promesse menzognere, e certo gergo di argomenti o parole sostituito alle sentenze immutabili del dovere e della giustizia. Sono dottrine curiali que’ trattati nulli perchè di necessità; que’ giuramenti mancati perchè non assentiti dalla coscienza; que’ patti concordati coi soggetti e non tenuti perchè il re non patteggia co’ vassalli; quel chiamare occupazione la conquista, ribellione quella che fu legittima obbedienza de’ popoli: e le Lante altre sovversioni del vero e del giusto udite e patite a’ dì nostri. E qui, anticipando i tempi. accennerò com’anche per fatti susseguenti si manifesti la verità del mio discorso. Dall’anno 1806 al 1815, per le buone leggi de’ due re francesi e le divise proprietà della chiesa e de’ feudi, crescendo il terzo-stato dei nuovi possidenti, l’autorità de’ curiali minorò. E dopo quel tempo i moti della nazione napoletana hanno secondato i meglio appresi interessi del popolo, che sono: sicurtà de’ possessi e delle persone, leggi, consulte pubbliche, adunanze nazionali, stabilità del presente, guarentigia dell’avvenire. Questi medesimi, ora che scrivo, desiderii segreti e sfortunati, saranno col maturare del tempo manifesti e felici; se non so quale rivoltamento politico non cangia in altro il terzo-stato del regno. ritorno alla storia di Carlo.
LIX. A’ tempi del quale i curiali non appieno esperti delle nuove foro forze, arrecavano piccolo e non avvertito danno, godeva il re, godevano i soggetti regno di pace, allorchè venne a rompere le speranze di maggiore felicità la morte di Ferdinando VI re di Spagna, che, senza prole, lasciò il trono vacuo a Carlo di Napoli. Appena saputo l’avvenimento, i ministri spagnuoli gridarono Carlo re di quel reame, ed in suo nome reggevano. Delle quali cose per celeri messi avvisato il re, nominò reggente per la Spagna la regina Elisabetta sua madre che stavasi, come ho detto, ritirata in un suo castello, ma non deposto il regio ingegno e le vaste speranze di gloria e di comando. Per la successione a suoi reami, essendo per lui necessità il provveder subito a quella di Napoli e trasmetterla, sentivasi agitato da doppio affetto, avvegnachè numerosa prole, sei maschi e due femmine, moglie ancora giovine rallegravano la reggia; ma il primo nato, già in età di dodici anni, era infermo di corpo, scemo di mente, inetto a’ negozii, e per fino a’ diletti della vita, disperato di guarigione. Contendevano perciò nell’animo del padre rompere la successione di natura, pubblicare al mondo la imbecillità del figliuolo, ovvero affidare la maggior corona e la discendenza ad uomo stolido e cadente. Vinse la ragione di stato. Chiamò i baroni, i magistrati, i ministri, gli ambasciatori delle corti, i medici più dotti, questi esaminatori del principe Filippo, gli altri assistenti o testimonii. La imbecillità del povero infante fu descritta ed autenticata in solenne foglio, che il re quasi piangente comandò si leggesse al congresso.
Escluso Filippo, succedeva nella Spagna il secondo nato Carlo Antonio, e nelle Sicilie il terzo, Ferdinando; il quale robusto di persona, facile d’ingegno, aveva scorsi otto anni di vita, così che il re fissò in mente una reggenza per il governo del regno, e nel dì 6 di ottobre di quell’anno 1759, tenendo intorno a sè la moglie e i figli, presenti gli ambasciatori, i ministri, i destinati alla reggenza, gli eletti della città, i primi tra’ baroni, fece leggere un atto che diceva: Lui appellato dalla Provvidenza al trono della Spagna e delle Indie, rinunziare la corona di Napoli ad uno de’ figli, dovendo le due monarchie per gli accordi europei restar divise ed indipendenti. Aver destinato (poichè Filippo suo primo figlio era inabile al regno) Carlo, il secondo, a succedergli nella Spagna, e il terzo nato, Ferdinando, a’ reami delle Sicilie. Emancipar questo, cedergli le sue ragioni al trono, comandare a’ popoli di obbedirlo come re. Dare un consiglio di reggenza al re fanciullo sino all’età maggiore, ch’ei prefiniva sedici anni compiuti. La successione al trono delle Sicilie dovere andare per maschi primogeniti; tutti i casi previsti, tutte le regole stabilite. Spenta la linea maschile, sì diretta e sì collaterale, dover succedere le femmine con l’ordine dell’età; spenta la linea femminile, tornar la corona al re di Spagna, perchè la cedesse libera e indipendente al secondo nato de’ suoi figli. Pregare da Dio prosperità a questi popoli, sperare durabili le provvidenze di quell’atto, e premiare le sue fatiche di re da pace lunghissima. Ciò detto, si volse al figliuolo Ferdinando, lo benedisse, gl’insinuò l’amore de’ soggetti, la fede alla religione, la giustizia, la mansuetudine, e snudando la spada (quella stessa che Luigi XIV diede a Filippo V, e questi a Carlo) ponendola in mano del nuovo re, e dandogli per la prima volta nome di maestà, tienla, disse, per difesa della tua religione e de’ tuoi soggetti. Segnarono l’atto riferito di sopra Carlo, poi Ferdinando. Gli stranieri presenti riconobbero il novello re, e que’ del regno gli giurarono fede. Carlo, nominata la reggenza, prescrisse ch’ella governerebbe, partito lui per le Spagne. Ripetè i voti di comune felicità, e uscì lodato e benedetto.
LX. Si apprestò nel giorno medesimo a partire. Aveva registrato i conti del suo regno, e lasciati al figlio precetti e ricordi, non invero ingegnosi ma prudenti e benigni. Nulla portò seco della corona di Napoli, volendo descritte e consegnate al ministro del nuovo re le gemme, le ricchezze, i fregi della sovranità, e per fino l’anello che portava in dito da lui trovato negli scavi di Pompei, di nessun pregio per materia o lavoro, ma proprietà, egli diceva, dello stato; così che oggi lo mostrano nel museo non per maraviglia di antichità, ma in documento della modestia di Carlo. Nominò il precettore del giovine re; e gli raccomandò la vita dell’infante Filippo che lasciava nella reggia di Napoli. Dispensò gradi, onori, doni, per mercede di fedeltà o di servizi. Nel giorno medesimo, prima che il sole dechinasse, entrò in nave con la moglie, due figliuole, e quattro infanti, sopra un navilio spagnuolo di 16 vascelli da guerra e molte fregate, salpato da’ porti del Ferol e di Cadice, arrivato in Napoli sul finire del settembre per servizio del re. La corte di Spagna in quel tempo era delle regnanti di Europa la più pomposa.
Assisterono al partire di Carlo tutti gli abitanti della città, però che le nostre case sotto cielo benigno essendo coperte non da tetti acuti o da piombi ma da piani terrazzi donde si scuopre l’amenissimo lido che stringe il golfo, quei che non capevano nel molo e ne’ due bracci del porto, miravano dall’alto delle case addolorati ed augurati al non più loro invidiato monarca. Le memorie del buon re, la sua grandezza e gli edifizii da lui fondati, visibili dalla città, la folla e ‘l silenzio dei riguardanti, erano cagioni e documenti della giusta universale mestizia: la quale (benchè durassero leggi, magistrati, natura e nome del governo) per lungo tempo non cessava nel popolo, quasi presago della tristezza de’ futuri regni.