Sino al confine/Parte II/Capitolo II
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II.
Gli anni passavano, e come in tutti i piccoli paesi del mondo anche nella piccola città il tempo non lasciava che lievi traccie, occupato sempre a distruggere e rifare solo le cose delle grandi città.
A vent’anni Gavina conservava il suo aspetto fiero e triste di adolescente, il suo fazzoletto scuro, i suoi vestiti mal tagliati e peggio cuciti. Anche la sua anima non mutava: il suo sentimento religioso era diventato più profondo, pacato, ragionato, e quando ella riusciva ad analizzarlo lo trovava grande e sublime; ma l’unica ragione di vivere, per lei, consisteva sempre nel «non peccare» come per l’avaro consiste nel «non spendere».
E i suoi giorni cadevano eguali e pallidi, come i petali che si staccano uno dopo l’altro dalla rosa appassita. Solo qualche volta i colpi che il postino batteva alla porta riuscivano a scuoterla dal sopore in cui viveva; erano colpi forti, quasi furiosi, che echeggiavano per tutta la casa e parevano battuti da un gigante di passaggio per la strada solitaria. Egli veniva di lontano e portava nella sua borsa le notizie del mondo dei vivi e batteva alle porte dei dormenti: Gavina correva ad aprire e riceveva piccoli giornali letterari con poesie di Francesco Fais, e cartoline illustrate, con paesaggi romani, segnate da un «p» minuscolo, quasi sempre nascosto fra i ruderi e i cespugli. Nel guardarle ella si spaventava come se quella semplice consonante fosse un nemico in agguato.
Meno delle cartoline la turbavano le poesie di Francesco Fais: una volta egli le mandò anche un giornaletto che parlava di lui entusiasticamente. «Quasi mai questo giovane poeta canta di sè, diceva il critico, eppure si sente nei suoi versi tutta la sua personalità forte e generosa. Egli veda tutto bello: egli è un poeta innamorato della vita; tutto per lui è fonte di gioia e di ammirazione. Nato nel dolore, non conosce il dolore. Pare che egli senta che nulla mai ostacolerà il suo cammino verso la felicità; egli sarà un trionfatore, ecc., ecc.».
Anche Michela e il canonico Sulis lessero l’articolo ed una sera in casa di Gavina se ne discusse animatamente. Il canonico Sulis sbuffava e domandava, agitando il giornale:
— Ma questo ragazzo, che cosa pretende di fare? Il medico? E allora come può scrivere canzonette? Quella del medico è un’arte seria, non un’arte allegra.
— Farà il medico condotto: e del tempo gliene avanzerà!... — disse Gavina.
— Medico condotto? Sarà medico del Re! — profetizzò Michela.
Gavina rise; il canonico Sulis, pure ammettendo che tutti lodavano Francesco, come poeta e come futuro scienziato, finì col dire che un uomo assai lodato dai suoi simili, spesso è un uomo rovinato moralmente. E raccontò di Nabucodonosor e di altro celebrità bibliche.
In quel tempo Gavina aveva un altro pretendente, un capitano di fanteria, uomo sui quarant’anni, bassotto e grassotto, paffuto e roseo come un bambino, che cercava una moglie con dote e aveva saputo che Gavina era la più ricca fanciulla del paese.
Ella rifiutò la sua domanda, per quanto lusinghiera; ma i vicini, vedendo il capitano passare e ripassare nella strada dissero che il matrimonio era bello e concluso; e una sera il postino battè il suo colpo fatale alla porta, e consegnò a Gavina una lettera dove il piccolo «p» come il nemico improvvisamente sbucato dal suo nascondiglio, s’ergeva alto e minaccioso.
«Gavina, ricorda la tua promessa. Se tu dimentichi, io no, non dimentico. Io vivo sempre di questo ricordo: io sono sempre lo stesso, come quel giorno nella vigna.... Se tu non vuoi esser mia, non devi esserlo di nessun altro. Questo il giuramento che tu manterrai; il giuramento che io adesso ti richiamo alla memoria, perchè tu l’hai dimenticato».
Gavina comprese; egli esigeva da lei lo stesso sacrifizio sterile che gli altri pretendevano da lui: divisi per sempre, ma uniti dalla stessa condanna. E poiché Priamo non pretendeva altro, ella non si turbò: ma ogni giorno, verso il crepuscolo, aspettava alla finestra il passaggio del postino. Erano lunghe ore di attesa inutile, di vaga melanconia. La strada, deserta sotto il cielo d’un lilla cinereo dorato all’occidente, pareva la strada d’una piccola città morta; e il postino non passava, o passava senza fermarsi, col suo passo galoppante e la sua borsa stridente. Un attimo, un palpito di vita, poi di nuovo il sonno dei morti. Gavina andava alla finestra dell’orto, e recitava un’infinità di quelle «requiem aeternam» che ormai le sue labbra pronunziavano come per un moto naturale. Anche di là il paesaggio si tingeva di tinte violacee e cineree, ed i monti sembravano addormentati, e lo stridìo dei grilli pareva il lamento della vegetazione malata, corrosa dai bruchi e dalla polvere.
Gavina guardava la muraglia violacea dei monti, e qualche volta, pur recitando le preghiere dei morti, pensava al mondo dei vivi che era al di là, al di là di quel vasto cimitero chiuso dalle montagne. Che faceva Priamo in quel mondo? Ella se lo figurava stretto in mezzo ad una folla strana, variopinta, rumorosa, in una larga strada illuminata da una luce ardente; e non sapeva definire il sentimento ch’ella provava per lui. Amore no, non era certo.
Ella non lo amava, ella non amava nessuno; ma il ricordo di Priamo le restava in cuore, triste e freddo come un cadavere nella sua tomba.
Una sera, in agosto, mentre ella stava fantasticando alla finestra, Paska la chiamò, dicendole che c’era una visita. Era Francesco Fais. Appena la vide, egli la guardò negli occhi, con uno sguardo che la penetrò tutta ma non la turbò, tanto era limpido e sincero; e cominciò a scherzare, tastandole il polso e chiamandola «ingrata fanciulla» perchè non gli aveva mai mandato neppure una cartolina, mentre egli aveva sempre pensato a lei.
Gavina lo guardava, dapprima seria e fiera, poi sempre più ironica, e lo trovava quasi brutto, trasandato nel vestire, coi capelli rasi, neri e lucidi come una calotta di velluto. Solo una lieve peluria nera gli ornava il labbro superiore alquanto sporgente; sì, non era bello, ma quando rideva si vedevano tutti i suoi denti candidissimi, e i suoi occhi alquanto obliqui fiammeggiavano nel viso scuro, come illuminati, più che da una luce interiore, da un riflesso esterno. Pareva che intorno a lui tutte le cose splendessero, che tutto emanasse luce e calore, e che egli respirasse quest’aria ardente con le narici sempre palpitanti e con le labbra socchiuse pronte al sorriso.
Domandò di Luca, volle sapere notizie di tutti, e parlò dei suoi progetti.
— Appena avrò la laurea verrò a stabilirmi qui; vedrà quanti ne ammazzerò. Se lei ha da ordinarmi qualche vendetta....
— Ma se Michela diceva che Lei voleva andarsene a Roma?
— Sì, mi presenterò ai concorsi per assistente negli ospedali, ma è difficile riuscire.
— Per lei? Per lei tutto è facile! — ella replicò, sempre alquanto ironica. — Sarà un vittorioso; lo dicono anche i giornali. Vada, vada in una grande città.
— Non si burli di me, faccia il piacere! — egli disse, arrossendo. — Io, se mai, non sarò che un razzo. Si ricorda?
— Che cosa? Un razzo?
Ella finse di non ricordare. Francesco non insistè, ma sebbene l’accoglienza di lei fosse stata fredda e quasi sdegnosa se ne andò sorridente e felice. Verso sera ritornò con Luca, che lo condusse a bere in cantina, e dall’orto Gavina sentì i loro discorsi.
Luca si lamentava, diceva che era malato, che certe notti gli pareva di soffocare.
— E tutto questo perchè in famiglia mi trattano male. Ma io voglio la mia parte di beni. La voglio! Desidero andarmene lontano, mettermi a lavorare tranquillamente. Se non avessi tanti dispiaceri lavorerei, diventerei ricco; ma non ho mai pace, e la mia testa sembra un forno, sempre in fiamme. Tu devi indicarmi qualche rimedio: appena starò bene partirò; tu devi dirlo a mia madre, e devi dirle che mi dia la mia parte di beni....
— E l’altra parte a me! — disse Francesco ridendo.
Gavina fremeva di stizza, non tanto per le scempiaggini di Luca quanto per il tono scherzoso dello studente.
Nei giorni seguenti entrambi furono veduti sempre assieme, e pareva che Francesco ascoltasse con vivo interesse le lagnanze di Luca. Una sera Gavina disse a Michela, mentre scendevano alla fontana:
— Tu dirai al signor Fais che può fare a meno di burlarsi di mio fratello.
— E tu, non puoi dirglielo? Egli viene spesso da voi! — rispose l’altra con dispetto.
— Egli viene per burlarsi di noi.
— T’inganni, egli viene per te. È venuto in paese unicamente per questo.
— Ma Gavina non lo vuole neanche per metterlo nell’angolo della scopa. Gavina sposerà un nobile, un ricco, un senatore: e andrà a Roma, andrà alla Corte reale! — gridò Paska.
Michela si mise a piangere di rabbia: Gavina rise, ma d’un riso più triste del pianto di Michela.
Quella stessa notte fu svegliata da un grido strano, che pareva il grido d’un ferito. Uscì nel pianerottolo, e stette ad ascoltare tremando; il grido si ripetè ed ella credette che qualcuno si fosse introdotto nella camera di Luca e lo ammazzasse.
Spinse l’uscio, chiuso a chiave, picchiò, gridò; Luca raddoppiò i suoi urli, ma non aprì finché non corsero su, seminude e spaventate, Paska e la signora Zoseppa. Egli tremava tutto; col viso grigio simile a quello di un cadavere, con gli occhi spalancati pieni di un folle terrore, appena vide Gavina si ritrasse, rifugiandosi dietro le spalle di sua madre, e balbettò!
— E lei.... è lei.... Voleva uccidermi....
— Luca! sei pazzo! — gridò Gavina, mentre le due donne la guardavano con spavento.
— Lei.... lei.... sì! — egli affermò di nuovo, senza guardarla. — Aveva il coltello: l’ha buttato sotto il letto. Là, là.... più sotto.... cercatelo....
Paska si curvò a guardare: Gavina diede un grido di rabbia e d’angoscia.
— Stupida, che guardi? Non vedi che è pazzo?
— Vattene, Gavina, — disse la madre.
Gavina uscì, ma rimase dietro l’uscio. Le due donne costrinsero Luca a rimettersi a letto, ed egli cominciò a raccontare, con accento di sincerità straziante, che Gavina era penetrata nella camera, mentre egli dormiva, e aveva tentato di ferirlo con un coltello.
— Vi dico, è là sotto! Cercatelo, ma cercatelo! — ripetè, adirandosi. — Altrimenti ella tenterà ancora di uccidermi.... Non lasciatemi solo, no, no, non lasciatemi, non abbandonatemi...
Dietro l’uscio Gavina piangeva. Tentò ancora di entrare e di rassicurarlo; ma appena la vide, egli fu riassalito da una convulsione di terrore, e afferrò la mano di sua madre come un bimbo pauroso.
— Vuoi che chiamiamo il medico? — domandò la signora Zoseppa.
— Io non sono malato, mamma! Adesso ci manca solo questo: di dire che sono malato! No.... no.... voi volete avvelenarmi per salvare lei....
Allora Paska ebbe un’idea felice: andò a chiamare Francesco Fais.
Gavina si torceva le mani convulsa; andò alla finestra verso l’orto e si mise a singhiozzare, pensando a ciò che avrebbe detto Francesco, nel sentire l’accusa di Luca, per quanto formulata da un pazzo. Fuori la notte era dolce, lunare, così chiara che si scorgevano le ombre delle roccie sulle falde più vicine delle montagne; e i monti lontani segnavano appena una linea azzurra sul cielo d’un azzurro più chiaro. Per la prima volta in vita sua Gavina sognò di varcare quella muraglia fantastica, desiderò di fuggire in cerca di pace. Aveva pietà di Luca, ma questo sentimento era così nuovo in lei che le riusciva tormentoso come un rimorso. Sentì Francesco salire le scale ed entrare nella camera del malato, ma non ebbe il coraggio di rimettersi ad ascoltare dietro l’uscio; e il cuore le batteva forte d’umiliazione e d’affanno poiché le pareva che lo studente dovesse prestar fede alle parole insensate di Luca.
Francesco domandò di vederla, ed ella lo ricevette nella sua camera illuminata soltanto dalla luna, e stette in piedi, immobile davanti alla finestra aperta.
— S’è spaventata? — egli domandò, senza avvicinarsele.
— E come non dovevo spaventarmi? L’ho sentito gridare; pareva lo ammazzassero: io corsi, spinsi l’uscio; ma egli non aprì finché non salì la mamma. E dice che volevo.... ucciderlo, io! Io.... capisce? Ma perchè.... io?
— È una forma di «delirium tremens». Passerà. Si calmi, vada a letto, Gavina; non si lasci vedere da lui.
— Ma io che gli ho fatto? Perchè deve dire queste cose? Io non sono mai stata cattiva con lui.... Sono stata cattiva, io? Lui, lui solo è la causa dei suoi mali.... la nostra rovina....
— Non pensi a questo, ora! La causa.... la causa.... — egli mormorò, abbassando per un momento la testa e guardandosi le mani — non siamo noi la causa dei nostri mali.... Vada a letto, Gavina; si calmi....
Le si avvicinò, quasi per costringerla ad ubbidirlo; ma ella si era già calmata, e il suo viso aveva ripreso la solita espressione orgogliosa.
— Ma son calma! ma sì, ora mi riposerò. Avevo paura che Luca fosse pazzo. Se mi permette, ora la riaccompagno giù.
Egli lasciò fare, ma lungo le scale ripeteva!
— Vada a letto, vada a letto....
Quando furono nell’andito illuminato da una lucernai che Paska aveva deposto per terra, egli parve volesse dire qualche cosa; si fermò, battè le ciglia, mosse le labbra, ma non potò parlare. Gavina vide che il mento gli tremava e disse intenerita:
— Buona notte, e grazie, sa! Dica, non occorre chiamare il medico?
— Per adesso no. Vedremo: tornerò all’alba.
Egli tornò all’alba. Luca dormiva, con la mano della madre stretta fra le sue. Alle otto dormiva ancora; ma Francesco nella sua terza visita ordinò che lo si svegliasse, per impedirgli poi di passare una notte insonne, e durante la giornata gli fece compagnia.
Il malato sussultava ogni volta che si apriva l’uscio, ma non insisteva più nella sua folle accusa contro la sorella, e verso sera stava molto meglio: solo nel riaddormentarsi fu ripreso da un breve accesso di terrore.
Francesco ordinò che lo conducessero in campagna, almeno per pochi giorni.
— Andremo alla vigna, — disse la madre, e pianse ricordando la sua ultima villeggiatura.
Gavina e Paska rimasero sole in casa, e Francesco, nei pochi giorni che stette ancora in paese, andò parecchie volte alla vigna e portò le notizie di Luca. Gavina lo riceveva, perchè non poteva farne a meno, ma la sua accoglienza era quasi ostile, e tutta la bontà, la gentilezza, la gaiezza dello studente si frangevano contro il malumore di lei come l’onda azzurra contro lo scoglio.
— Luca ora sta bene, e di nuovo fa buoni propositi, — egli le disse, pochi momenti prima di partire. — Ma.... fino a quando? Bisognerebbe metterlo in una casa di salute: curarlo....
— Egli non acconsentirà mai, — disse Gavina, — e neppure mia madre.
— E lei, che farà?
— Io? Quello che ho fatto sinora.
— Bisogna pensare a cambiar vita!
— Perchè? Io sono contenta della mia vita, e non penso a cambiarla.
Ci pensava, invece: ma l’idea di sposarsi, e specialmente con un uomo, con un ragazzo corno Francesco, non bello, non religioso, non di buona famiglia, le dava un senso di ripugnanza. Eppure bisognava muoversi; ella lo sapeva, come uno che fa un sogno spaventoso e confusamente sa di sognare e cerca di scuotersi per liberarsi dall’incubo. Le parole di Francesco le rimasero nella mente.
— Fino a quando? — si domandava e ogni notte sognava Luca ripreso dal delirio, e le pareva di rivedere lo sguardo sospettoso di sua madre.
Un giorno, prima che Luca e la signora Zoseppa ritornassero dalla vigna, si presentò zio Sorighe, offrendosi per guardiano.
Era sempre lo stesso, benché sette anni fossero passati dopo la sua partenza, e aveva la stessa bisaccia con la quale Gavina una sera lo aveva veduto partire come un pellegrino.
— Che avete fatto, durante questi anni? — domandò Paska.
— Ho vissuto come un cavaliere! Sei anni or sono stetti al servizio di una vedova ricca, la quale volle sposarmi contro il volere d’una sua figlia già maritata. Ma due mesi fa Lussulja, mia moglie, è morta. La mia figliastra non faceva altro che insultarmi; allora io ripresi la mia bisaccia, pulii sul limitare della porta le suole delle mie acarpe, o ripresi la mia via.... Chissà.... chissà....
— Chissà che non troviate qualche altra vedova! Sceglietela però che non abbia figli — disse Gavina.
Egli le porse la mano ripetendo l’antica canzonetta:
Dami sa manu, bellita, bellita,
ma con accento melanconico. Nei giorni seguenti battè a tutte le porte della piccola città, domandando lavoro; nessuno lo voleva perchè era troppo vecchio, e tutte le sere egli ritornava da Paska, sedeva in un angolo del cortile, canticchiava e sbadigliava. Una sera ella gli diede un pane d’orzo: egli lo prese e si mise a piangere.
— Un uomo come me, un uomo di talento.... uno che avrebbe potuto vivere come un cavaliere.... ridotto così! — E le sue lagrime cadevano sul largo pane grigio come goccie di pioggia sulle foglie secche. Naturalmente la vecchia serva si mise a piangere anche lei; ma l’indomani egli ritornò con una lieta notizia.
— Il canonico Felix, Dio lo benedica, mi ha fatto dare il posto di custode nella chiesetta di San Teodoro. Tu sai dov’è? Poco distante dal paesetto nostro, sui monti; la festa è in giugno. Verrete a trovarmi? Vi farò cuocere le fave con la mentuccia selvatica... Bene, io vivrò come un eremita, e pregherò sempre per i miei benefattori. Io penso sia stato Pilimeddu a farmi ottenere il posto.
— Come, Priamo è tornato?
— Ieri, sì. Io quasi non lo riconoscevo; sembra un vescovo, tanto s’è fatto bello e serio. Ora prenderà gli ordini: è tornato per questo. Verrà certo a trovarvi...
Infatti, poco dopo mezzogiorno, mentre chiudeva le finestre dell’ultimo piano, Gavina vide Priamo davanti al portone del canonico Sulis. Egli sembrava davvero un elegante monsignore, e la sua sottana e la ricca mantelletta lucevano come il raso; ma il suo viso, più pallido del solito, d’un pallore malaticcio, ricordava il viso di certi condannati, usciti appena dal carcere dopo scontata la pena. Siccome egli guardava le finestre al pianterreno, Gavina potè vederlo senza essere veduta; ma il cuore le balzava in gola e per calmarsi dovette sedersi sulla scala.
— Egli verrà qui, adesso! egli verrà qui! Come devo fare? Gli farò dire da Paska che non c’è nessuno, — pensava; ma un tratto sollevò fieramente il viso e disse a voce alta:
— Perchè dovrei aver paura?
Balzò in piedi, andò nella sua camera, si pettinò, si cambiò. Ma non si faceva bella per lui, no; anzi voleva mutare aspetto per un istinto di finzione; voleva apparirgli diversa dal solito, come voleva nascondergli i suoi intimi pensieri. Un colpo violento battuto alla porta la fece trasalire. Paska, forse occupata nell’orto, non aprì, il colpo rimbombò di nuovo; e Gavina credendo fosse il postino nel suo giro per la posta di città scese di corsa.
Trovò Priamo davanti alla porta. Calmo, quasi indifferente, con la mantellina avvolta intorno al braccio, egli la salutò come se si fossero lasciati appena il giorno prima.
Entrarono nel salotto.
— Come sta Luca?
— Non tanto bene. È con mia madre nella vigna.
La parola, «vigna» li fece arrossire tutti o due. Egli allora la guardò, col suo sguardo fosco ed avido ad un tempo, ed ella ebbe quasi paura.
— Adesso dirò a Paska che porti il caffè, — disse ritraendosi; e uscì, agile e silenziosa, e rientrando lasciò aperto l’uscio.
Priamo stava davanti alla «console» e i suoi occhi, quando fissarono di nuovo quelli di lei, erano pieni di lagrime. E Gavina ebbe l’impressione di trovarsi con un Priamo ch’ella non conosceva ancora, un Priamo timido ed infelice.
— Tu hai paura di me? — egli le domandò, con voce tremante d’ironia e di dolore. — Perchè sei andata a chiamare Paska? Hai paura che io ti voglia baciare? Oh, è inutile baciare chi non ama! E tu non ami, non puoi amare; tu non hai cuore!
Rinfrancatasi, ella lo fissava con uno sguardo pieno di fierezza.
— Priamo, tu non sai quello che dici!
— Io dico quello che tu mi fai dire. Se volevi che parlassi in diverso modo, anche tu dovevi operare in diverso modo.
— Io opero come credo sia mio dovere....
— Il tuo dovere! — egli allora proruppe, curvandosi alquanto ed avanzandosi come per slanciarsele addosso. — Che ne sai tu di dovere? Tu, tu parli di dovere? Tu parli e operi come ti hanno insegnato a parlare e ad operare.
Si drizzò, si fermò, davanti a lei, alto e fremente, e proseguì:
— Se il tuo confessore ti dicesse che il tuo dovere è di uccidere, di giurare il falso, di suicidarti.... tu lo faresti. Il tuo dovere tu lo intendi così!
— Dio mio, come sei! Come sei diventato!... — ella balbettò, stupita più che offesa.
Priamo le afferrò le mani, con le sue mani bianche, scarne e tenaci come quelle d’un malato preso da convulsioni.
— Son diventato ciò che tu mi hai fatto diventare.... Ho da dirti molte cose, sai.... Bisogna che te le dica.... sono tornato per questo, sai.... Io non ho dimenticato nulla.... e voglio lottare ancora....
— Lasciami, — ella disse, tremando di rabbia e di passione. — Io non ho nulla di comune con te. Ero una bambina... allora... non sapevo, non capivo.
— Ma ora, sì, capisci? Capisci che io non posso vivere senza di te?... capisci?
— Lasciami! — ella impose, dibattendosi; poi si fece supplichevole: — lasciami, Priamo! Viene Paska...
Priamo allora, come eccitato dal pericolo di venir sorpreso, si curvò e la baciò; e fece appena in tempo a lasciarla e sedersi quando entrò Paska col vassojo in mano.
— In verità, se ti vedevo per la strada ti credevo un prete continentale, — disse la serva avvicinandosi e poi allontanandosi da lui per guardarlo meglio.
Egli rise nervosamente.
— Perchè, i preti continentali son più belli dei preti sardi?
— Ma.... io credo....
— Sono molto più brutti, invece! Spesso ne incontro uno, così lacero e sudicio, che mi fa pietà....
— Ma sono così miseri? — domandò Paska, meravigliata. — Avranno dato tutto ai poveri... E tu, come stai? Sei un po’ magro....
Ella fissava le mani di lui che tremavano nel prendere la tazza dal vassojo, ed egli pensò:
— Si dev’essere accorta di qualche cosa.... e adesso vigilerà....
— Devo parlarti, — disse a Gavina, appena la vecchia se ne andò. — Devo, devo.... è necessario. Stanotte alle undici sarò davanti alla tua porta. Tu puoi ricevermi.
— Vattene! E non ritornare: io non ti riceverò più, — rispose Gavina nascondendosi il viso fra le mani. — Vattene!
Priamo si alzò, ravvolse la mantellina intorno al braccio, riprese il cappello e si curvò davanti a lei.
— Se tu non mi ricevi, stanotte, mi uccido davanti alla tua porta.
Rimasta sola ella si buttò sul divano piangendo convulsa; le pareva di morire di vergogna, di paura, di rimorso; si pentiva di non aver scacciato violentemente Priamo ed era risoluta a non rivederlo più; e nello stesso tempo provava un senso di ebbrezza nel pensare che egli l’amava ancora con tanta passione. Capiva che nulla era mutato, dopo «quel giorno»: erano entrambi gli stessi, nonostante gli anni trascorsi, la lunga lontananza, la vita diversa; e si amavano ancora.
Ella capiva anche questo: che amava Priamo per ciò che egli era, per l’orrore e la pietà che le destava, per l’ostacolo che li divideva, ma sopratutto perchè egli rappresentava per lei il mostro affascinante al quale ella cercava continuamente di sfuggire: il peccato. Ma a poco a poco la paura che Priamo si uccidesse davvero davanti alla sua porta la vinse. Che fare? A chi domandar consiglio? Le parole di lui le tornavano in mente.
«Il tuo dovere? Se ti dicessero che il tuo dovere è di uccidere, tu uccideresti...»
Si alzò fieramente, e ancora una volta disse a sè stessa che era buona, cosciente, sicura della sua fede. Non aveva bisogno di consigli
— Il mio dovere? Lo so! — disse a voce alta, corrugando le sopracciglia; e andò alla sua finestra, e parve ergersi severa davanti alle montagne azzurre coperte di vapori e come immerse in un sogno ardente. Sì, anche la natura sogna, e le montagne più aspre si lasciano accarezzare dal vento del meriggio: l’anima che ha imparato a odiar la vita è più arida delle montagne desolate. Ed ella respinse il senso di dolcezza che le parole e il bacio di Priamo le avevano lasciato, e sentì una cosa mostruosa accadere in lei: si sentì felice di amare, per la soddisfazione di soffocare il suo amore!
Decise di ricevere Priamo. Durante il resto della giornata preparò le frasi da dirgli, affilandole come armi; e le pareva di essere calma e fredda, mentre provava una cupa ossessione di sacrificio.
— Soffrirò: tanto meglio! — pensava — Forse egli m’insulterà, forse mi ucciderà! Ah, se egli facesse questo!
E come un avanzo del barbaro delirio dei martiri cristiani si ridestava nelle profondità del suo spirito.
Ma a misura che l’ora s’avvicinava una tristezza profonda la vinceva. Dalla piazzetta della zia Itria giungevano le grida e le risate dei giovinastri; poi i rumori si spensero, e soltanto le ore battute dall’orologio della cattedrale risuonarono nel silenzio notturno con rintocchi striduli che avevano qualche cosa di vivo, come gridi lontani di un essere misterioso che di tanto in tanto si lamentasse per l’inutile passare del tempo.
Stesa sul letto Gavina di tanto in tanto ripeteva anche lei le frasi preparate per Priamo. Alle undici scivolò dal letto, sporse la testa dalla finestra, e per un attimo ebbe una specie di allucinazione. Nel cerchio di chiarore rossastro progettato dal fanale a petrolio del cancello di Elia, credette di vedere due figure, una buttata per terra e l’altra in piedi accanto alla prima, e le parve che Priamo avesse già compiuto la sua triste minaccia. Ma tosto la figura viva sollevò la testa, si mosse: l’ombra sparì. Ella scese e aprì la porta. Priamo era vestito da borghese, e Gavina, che non aveva preveduto questo, si turbò.
Nella saletta ardeva un lume ad olio e tutto era silenzioso e calmo: i libri piegati gli uni sugli altri pareva dormissero, dietro i cristalli, e persino la piccola Venere reclinava la testa come vinta dal sonno. Non era un luogo di dramma, quello, e Priamo, vinto dall’austerità dell’ambiente, camminò in punta di piedi, mise il cappello sulla «console» e domandò sottovoce:
— Paska dorme?
Gavina lo guardò, vide che era pallidissimo, con le labbra bianche e la fronte umida di sudore, e si sentì immediatamente più forte di lui.
— Paska sa che ti ricevo! — rispose a voce alta
— Questo non è vero! Tu non hai paura, certo! — egli disse ironico. Ma subito parve pentirsi delle sue parole, e cominciò a parlare rapidamente, quasi avesse fretta d’andarsene. Di tanto in tanto faceva un gesto con ambe le mani, come ricercando i lembi della mantellina che non portava
— Ho bisogno di dirti molte cose, ma lo farò brevemente. Non ti ho scritto, perchè scrivere a te è inutile.... Prima di tutto devo domandarti questo.... «Devo» prendere gli ordini, Gavina? Devo? Siamo ancora in tempo... Rispondimi. Pensa che dalla tua parola dipende... dipende... tutto... tutto...
— Sì! — ella disse con forza, prima che egli avesse terminato la frase. — Devi prender gli ordini!
Egli si asciugò la fronte con la palma della mano.
— Pensaci bene, Gavina! Pensaci! Io non ho alcuna vocazione, lo sai. Mi hanno condotto fino al punto in cui sono, come un puledro che si doma.... Forse da bambino mi hanno chiesto: «Vuoi diventar prete?» Io forse ho risposto: «Si». E mi hanno preso.... Solo un altro «sì» poteva e può ancora disfare la brutta malìa. Il tuo. Dimmi sì, Gavina! Ma non quello che hai detto poco fa....
— Ma quale altro?
— Lo sai, lo sai.... Sì: che mi vuoi bene....
Ella pronunziò allora le parole che da tante ore risuonavano monotone entro la sua mente.
— Non ti amo. Non amo nessuno....
— Non è vero! Non è vero! Ti hanno insegnato a dir così, ma non è vero. Tu mi ami, altrimenti non mi avresti aperto la porta, stanotte. Io so tutto: non credermi uno stupido! Ti conosco, io! Tu hai paura.... tu vuoi salvare l’anima mia! Non hai altro pensiero.... È ridicolo! La mia anima è già perduta...
— E allora?
— Allora? M’hai perduto.... Tu, m’hai perduto! Lo sai anche questo? Però.... dimmi ancora tre volte che non pensi più a me, e poi ti dirò una cosa anch’io....
Le si avvicinò, ma subito si ritrasse; pareva avesse paura di toccarla.
— Ripeti, dunque.
— Ma c’è bisogno di ripeterlo? No, non penso più a te; non penso a nessuno, non sarò mai di nessuno! Ti basta?
— Ora ti dico una cosa, Gavina! Tu mentisci anche con te stessa. Sei un’illusa! Il tempo te lo dimostrerà.... vedrai: ricordati le mie parole, il tempo ti dimostrerà che l’anima tua è tutta una menzogna, come è menzogna tutto quello in cui tu credi.... Dio.... il Cielo.... l’Inferno!
Atterrita, ella si coprì con le mani il viso rosso di collera.
— Sei tu che sei tutto una menzogna! Tu davvero! Perchè ti fai prete?
— Appunto perchè non credo e non spero! È un mestiere come tutti gli altri; e i miei parenti me l’hanno imposto perchè lo ritenevano il più lucroso.
— Va’: mi fai pietà! Se tuo zio ti sentisse....
— Ma davvero! — egli riprese, col viso così pallido e gli occhi così foschi e ardenti che guardandolo Gavina ripensava a Lucifero, l’angelo malvagio, — se mi sentisse il tuo confessore, di’, di’, se mi sentisse! Direbbe: ma dunque il sacrificio di Gavina è stato inutile.... dannoso....
— Io non ho fatto alcun sacrificio, ti ripeto; del resto ci son tante altre donne nel mondo! Io voglio vivere sola, indipendente. Che t’importa del resto?
— Se fossi stato capace di amare altre donne, non sarei qui....
— Poi, ragioniamo, — ella prosegui, senza dar retta all’ultima frase di lui, — tu dici che i tuoi parenti vogliono costringerti a farti prete perchè è un mestiere lucroso.... ma io non sono ricca? Non sarebbe stato meglio....
— Ma che parenti, ma che parenti! Non sono loro che ci hanno diviso: essi non sapevano nulla. Son gli altri.... quelli che tu conosci bene.... Son loro che ti hanno suggestionato, che ci hanno divisi, perchè essi odiano tutto ciò che è vita, amore....
— E inutile continuare! Tu non ragioni, io non ti capisco.... — ella disse, scoraggiata. — Finiamola, finiamola! Un giorno riderai di te, di me, di quest’avventura. Ritorna in te; vedrai, la tua rabbia, i tuoi sospetti, la tua pazzia, tutto passerà. Ti ritornerà la fede, sarai un buon sacerdote.... sarai felice.... Ebbene, che hai, adesso? Dio, Dio.... ma Priamo!
Col gomito appoggiato alla «console» e il viso al dorso della mano egli singhiozzava forte; e la piccola Venere, con la fronte reclinata, pareva fissasse con dolore e curiosità l’uomo che piangeva d’amore ai suoi piedi.
— Felice.... felice!... Sarò felice!... Tutto è finito, ora lo vedo: tu ragioni, tu!... Tu non ami.... tu.... — mormorò Priamo.
E Gavina finalmente provò un impeto di dolore: sentì che mentiva e che Priamo non se ne accorgeva... Sentì che in quel momento si rompeva il loro legame, e anche lei, per un momento, ebbe il desiderio istintivo di riannodarlo: bastava tendere la mano, pronunziare una sola parola. Ma non tese la mano e non pronunziò la parola; e tutta la sua anima, piegata, tremò e resistè, come la canna al vento, mentre Priamo piangeva e parlava con parole sconnesse.
— Io ho sperato sempre in te, Gavina! Quando ti scrivevo e tu non rispondevi, pensavo: «Ella ha giurato che non si sposerà mai: io potrò pensare a lei, ed ella penserà a me». A Roma la tua figura mi seguiva sempre come la mia ombra. Verso sera io guardavo il Tevere, illuminato da migliaia di lumi, e pensavo: «quest’acqua va al mare, e forse s’incontrerà con l’acqua del nostro torrente. Perchè io e Gavina non dovremmo un giorno incontrarci così?» Appena vedevo una cosa bella pensavo subito a te. Quando uscivo, e vedevo la folla, le donne, i fiori, la luce delle lampade elettriche, le carrozze con i signori che andavano ai pranzi od al passeggio, sentivo una pazza invidia, non per me, ma per te! Pensavo: «Gavina sta sepolta laggiù, e non è qui con me, ed io sono tanto povero che non posso toglierla dalla sua tomba...» E mi veniva in mente di lasciare il convento, di cercare un posto.... ho anche cercato.... ma non ho trovato! E ti mandavo le cartoline con la speranza che la visione di Roma ti esaltasse.... Un giorno mi dissero che volevi sposarti, allora diventai quasi pazzo. Ah, tu non dormivi come io credevo; tu volevi dunque vivere! Son venuto per questo; ma ora mi accorgo che mi sono ingannato. Tu non ami.... non amerai: non sei capace di amare e di vivere.... Questo solo torna a confortarmi: tu vivrai sola.... io vivrò solo.
— Oh, per questo puoi stare tranquillo! — disse lei, alzandosi. — E basta! Ora vattene; ora vattene!
E fu sorpresa nel vedere che egli ubbidiva: egli se ne andava Pareva ubbriaco. Prese il cappello, si guardò attorno con uno sguardo vago e nell’attraversare l’andito barcollò due volte.
★
Tutto dunque sembrava finito.
Dopo il colloquio notturno, Gavina andò a confessarsi, e questa volta lo fece quasi con orgoglio; ma il canonico Bellìa, al quale gli anni accrescevano tristezza e rigidezza, l’accolse male, dicendole che bisogna evitare le occasioni, perchè tante volte noi affrontiamo il peccato con l’apparente proposito di vincerlo, mentre invece siamo spinti ad un occulto desiderio di peccare!
Ed ella diventò cupa e triste quasi quanto il suo confessore. Ricordò che aspettando Priamo aveva confessato a sè stessa di amarlo ancora, e che s’era commossa nel vederlo piangere. Sì, il canonico Bellìa aveva ragione! Ella decise di sorvegliarsi per vincere anche «l’occulto desiderio di peccare».
Affacciata alla finestra verso l’orto si abbandonava a considerazioni nuove in lei, e sentiva un’improvvisa affinità con la natura. Le pareva che qualche cosa morisse entro di lei come le foglie nell’orto. Tutto e tutti invecchiavano: sua madre, Paska, Luca, i vicini; ma era una vecchiaia dolce, tranquilla un lento declino verso la morte.
Il giorno di Tutti i Santi zio Sorighe, venuto in città per affari suoi, le portò un fascio di fronde e di fiori di vitalba: ella ricevette il dono con diffidenza e portò i fiori nel cortile dicendo che voleva farne una corona per la tomba di suo padre.
Quando fu sola sciolse il mazzo e trovò dentro un biglietto di Priamo. Egli le annunziava semplicemente che fra cinque giorni doveva ricevere i primi ordini. Ed ella intrecciò la corona, preparò le lanternine colorate da deporsi sulla tomba, e pianse: le pareva di piangere ricordando il caro defunto, e non si accorgeva e non voleva accorgersi che piangeva anche per tutto ciò che era morto in lei.
Calava la sera. Le campane suonavano a morto, con richiami gravi e cupi a cui rispondevano altri rintocchi lontani, che avevano una strana risonanza, come l’eco di un galoppo di cavalli su un ponte metallico. Forse i morti galoppavano, nella sera violacea, fra le nuvole color dello schisto; i vivi dimenticavano e pensavano a divertirsi. Gruppi di ragazze e di monelli percorrevano le strade, picchiavano alle porte della gente benestante, domandavano il «morto-morto» e stendevano il grembiale entro il quale una serva di buona volontà, o una gentile padrona, versava frutta secche, panini di farina e di sapa, o, per ridere, pomi di terra e segatura.
Per ordine della padrona anche Paska preparava dietro la porta un cestino di mandorle e una scodella per distribuirle, mentre nella strada s’udivano risate infantili, e di tanto in tanto la mano di ferro batteva i suoi pugni sonori.
— Ce lo date il «morto-morto», zia Paska?
— Ora vi dò il vivo-vivo con la scopa, se continuate a picchiare così.
Ella apriva: i ragazzetti scappavano, poi non vedendo la scopa si riavvicinavano col berrettino in mano.
— Alò, alò! presto, zia Pà! Mettete qui, dentro la berretta. E che una scodella sola? E a me no? Alò, un’altra scodella, ne avete tante di mandorle, nel podere!
— Ah, tu lo sai bene, ladruncolo! Ne hai masticata più d’una!
— E che voi, zia Pà, non avete denti per masticarle? Neanche uno?
Più tardi passarono gruppi di paesane, poi i sagrestani della cattedrale che si tiravano addietro un cavallo carico di bisacce, e di tanto in tanto suonavano un campanello. I sagrestani bisognava trattarli bene, e dopo mandorle ricevettero un pane bianco, dolci, fichi secchi.
Poco dopo Paska dovette aprire di nuovo, e si stizzì vedendo i ragazzetti con le berrette in mano. Questa volta essi non domandavano le mandorle, e ridevano; ma stringendosi gli uni agli altri alquanto spaventati annunziavano il passaggio d’un morto.
— Ma un morto davvero, zia Pà! Aspettate, aspettate! È tutto bianco.... Scappiamo!
Scapparono, mentre in fondo alla strada appariva un fantasma, con una borsa bianca infilata al braccio. Paska fece un segno di scongiuro, ma il fantasma le si avvicinò egualmente e disse con voce flebile:
— Qualche cosa per un povero morto! Almeno un boccale di vino!
— Benedetto tu sii, sei Francesco Fais! Mi hai spaventata. Entri?
Egli non si fece pregare. Luca, Gavina e la signora Zoseppa finivano di cenare, ed erano melanconici e pareva pensassero ai loro morti; ma appena videro il fantasma si animarono, e il viso istupidito di Luca s’illuminò di gioia. Francesco si levò dal capo il lembo del lenzuolo che lo avvolgeva e guardò Gavina.
— Avevo un affaruccio da sbrigare qui in città, e perciò son passato di qui: parto domani, — disse sorridendo.
Gavina pensò all’«affare» che anche zio Sorighe diceva di dover sbrigare in città, e rise sdegnosamente. Francesco sedette accanto a Luca, prese il bicchiere che la signora Zoseppa gli porgeva e volgendosi a Gavina declamò!
Salute, o genti umane affaticate,
Nulla trapassa e nulla può morir....
— Tutto trapassa, — corresse Gavina.
— Tutti morremo, — aggiunse la vedova, che non capiva bene i versi recitati dal fantasma, ma intanto si rivolgeva a lui premurosa.
Andato via Francesco, Gavina uscì nel cortile, prese in mano gli avanzi delle fronde di vitalba portate da zio Sorighe e vi nascose il viso. Che voleva da lei Francesco Fais? Per lei egli era davvero un fantasma.
★
Nella piazzetta della zia Itria il vecchio reduce raccontava le storie, i giovani ridevano, e solo il figlio della vedova maldicente, ritornato dal domicilio coatto (dall’esilio, diceva poeticamente sua madre) si permetteva di contraddirlo.
E una sera, a proposito di una storia raccontata dal vecchio, l’ex-coatto e uno dei calzolai si azzuffarono e si ferirono. Il calzolaio morì; il figlio della vedova ritornò in carcere.
Dall’alto della sua finestra Gavina sentiva la vedova maledire la sorte, e vedeva la vecchia madre cieca del povero calzolaio passare rasente ai muri con le mani tese in avanti; ma ella era troppo svogliata perchè potesse interessarsi alle miserie altrui.
Di giorno in giorno perdeva sempre più il gusto della vita, e la sua anima si atrofizzava come un membro non adoperato. Solo durante le crisi del terribile male di Luca ella pareva svegliarsi; allora la sua anima ritornava fiera e vigile, quasi che solo il dolore le spiegasse il perchè della vita. Null’altro di utile e di vero esisteva per lei; il suo mondo diventava sempre più misero e scialbo, e in questo mondo freddo e morto come quello della luna, ella sola, col suo dolore, viveva.
Neppure i giornali e le cartoline che Francesco Fais le mandava da Roma, dov’egli aveva ottenuto un posto di assistente d’ospedale, cartoline con le stesse fontane, gli stessi giardini, le stesse rovine che ella aveva «già veduto» altra volta, riuscivano a scuoterla dal suo sopore.
Qualche sera ella e Michela scendevano ancora alla fontana, e parlavano di Francesco, e parlavano di Priamo, ma con la stessa indifferenza con cui parlavano del canonico Bellìa e del canonico Felix. Una sera, però, Gavina notò una cosa strana nella sua compagna di passeggio: Michela parlava di Priamo con voce turbata.
— Sono stata a messa nella Cattedrale, ed egli ha cantato l’Evangelo di San Luca. Ma sai che ha una voce meravigliosa? C’erano molte donne che piangevano.
Gavina non rispose, ma la domenica seguente andò ad ascoltare la messa cantata da Priamo.
Mentre egli salmodiava tutte le donne lo fissavano come affascinate dalla sua voce dolce e potente di tenore. L’organo suonava:
Va pensiero....
e il vecchio vescovo, per il quale la voce di Priamo era stata una rivelazione, ascoltava senza batter ciglio, immobile nella sua veste d’oro come un idolo a cui il canto melodioso e la musica nostalgica ricordassero le regioni ove un giorno era stato adorato.
Gavina ascoltava, col viso fra le mani, e sentiva un prepotente desiderio di piangere: ricordava la vigna, il daino, i crepuscoli di autunno, il canto del piccolo pastore errante tra le brughiere; ma si domandava il perchè della sua commozione, e trovandolo s’irritava. Sollevò la testa, col suo fiero gesto d’orgoglio, e vide Michela che si asciugava gli occhi col lembo del fazzoletto.
E accadde una cosa. Molte donne devote, che non avevano mai prima di allora guardato Priamo, s’innamorarono di lui dopo averlo sentito cantare. Michela arrossiva parlando di lui, e un giorno, agli ultimi di febbraio, mentre scendevano la viuzza davanti alla casa del contadino, Gavina e Paska incontrarono Priamo e videro Michela che si ritraeva rapidamente dalla finestra. Gavina provò un senso di gelo: passò oltre, senza invitare Michela ad accompagnarla, e le parve di scendere in un luogo buio e freddo, mentre invece la grandiosa vallata non era mai stata più bella, d’una bellezza pura e mite.
L’inverno aveva rinfrescato anche il colore delle roccie; le distese degli oliveti apparivano in lontananza come nuvole perlacee ondulanti sullo sfondo oscuro delle chine arate, e dai monti scendevano, vene d'argento, mille rivoletti silenziosi, scintillanti tra il verde vivido dell’erba già alta. Il torrente sussultava in fondo alla valle tra i peschi e i mandorli fioriti; e tutto era puro, giovane, fresco sotto la luce argentea di quel gran cielo mite, sul cui orizzonte i profili morbidi dei monti ancora coperti di neve si stendevano come file di colombi addormentati.
Gavina camminava rasente al paracarri, e nel suo turbamento ricordava le notti d’estate, i fuochi dei dissodatori, i racconti di Michela; e invece del paesaggio fresco e puro vedeva una valle cupa, fantastica, coperta d’ombre deformi e di chiarori sanguigni.
Anche Michela peccava, e Priamo invece di salvarsi cadeva sempre più nell’abisso!
★
La vedova maldicente fu la prima a sparger la voce che fra Michela e Priamo esistevano relazioni intime, e aggiungeva che la figlia del contadino stava quasi sempre sola in casa e poteva ricever chiunque a suo piacere. Il canonico Sulis sbuffava, sgridava la vedova, ma poi dava un’occhiata alla sua sottana unta e diceva:
— Troppo lusso, troppo lusso, quel ragazzo! È vestito di seta e con nastri come una donna. Dio l’aiuti, Dio l’assista!
Gavina trattava Michela con disprezzo, pure ostinandosi, per orgoglio, a crederla pura.
— No, ella non è della razza miserabile dei suoi vicini di casa; non può essere bugiarda e corrotta; altrimenti io non l’avrei scelta per amica.
Ma un giorno Francesco Fais le mandò una rivista con un suo studio su certi fenomeni isterici da lui osservati nelle donne di un piccolo paese sardo ove infieriva una specie di epidemia religiosa. Queste donne avevano strane visioni erotico-mistiche; alcuno si credevano indemoniate, altre «vedevano» santi ed angeli.
Per la prima volta in vita sua Gavina intravide la verità: comprese che Michela aveva lo spirito malato. Ma la verità è triste, per chi non è abituato a conoscerla. Ella diventò melanconica e irritabile e prese a deridere Michela, tanto che un giorno questa si mise a piangere gridando:
— Gavina, tu, tu credi alle calunnie! Ebbene per convincerti che la gente s’inganna io ti dirò che mi son decisa a prender marito. Ho un pretendente, un contadino come mio padre. Accetterò la sua domanda.... ma perchè tu sii più sicura di me io ti dirò perchè Priamo viene in casa mia....
— Io? Io non so nulla di te, nè d’altri!
— Non parlare con tanto disprezzo! Tu lo sai, invece, perchè egli viene da me! Viene per parlarmi di te: posso cacciarlo via? Egli piange come un bambino e dice che stando vicino a me gli sembra d’esserti vicino.... posso cacciarlo via?
Gavina sorrise sdegnosa; ma il cuore le batteva per l’angoscia e la paura.
— Egli pensa a me, sempre, sempre! — diceva a sè stessa, e quando in chiesa ascoltava la voce chiara e melodiosa di Priamo un lieve brivido l’assaliva: tra il coro grave e sonnolento dei canonici la voce squillava come una campana d’argento, e pareva venir di lontano, dalla valle fiorita su cui guardavano le invetriate della vecchia cattedrale: e mentre le voci dei canonici narravano di luoghi tenebrosi, ove tutto era dolore e morte, la voce squillante ripeteva un canto di amore e di vita. E Gavina diceva a sè stessa:
— Egli pensa a me.
Quando Priamo passava davanti alle sue finestre ella si ritraeva, ma stava ad ascoltare il fruscio delle sottane e lo scricchiolio delle scarpette del giovane prete. Un giorno, verso la fine di maggio, egli fece visita alla signora Zoseppa e quando se ne andò lasciò nella saletta un profumo di fieno che turbò Gavina. Ella si avvicinò alla finestra e sentì che Priamo ripassava nella via, ma non si ritirò, ed egli, passando rasente alla finestra, le gettò una rosa che teneva in mano.
Ella prese la rosa e se l’avvicinò alle labbra, ma tutto ad un tratto inorridì, ebbe paura e vergogna di sè stessa. Ah, dunque il dramma non era finito, forse neppure incominciato!
— Domani.... domani mattina bisogna confessarsi! — pensò, e come usava spesso andò a pregare Michela di accompagnarla l’indomani mattina per tempo in chiesa.
Cadeva la sera: la viuzza era deserta e dalla valle saliva un odore di erba e di ginestra in fiore. Nella casa di Michela le finestre erano chiuse, ma attraverso il portone aperto si vedeva luce nella cucina. Forse Michela era andata da qualche donna del vicinato, e per aspettarla Gavina entrò nella cucina e sedette acconto alla porta. Dopo un momento, giù per la scaletta esterna, che dal cortile conduceva al piano superiore della casa, si udì un fruscio di sottana, uno scricchiolìo di scarpette.... la voce di Priamo.... quella di Michela.... il suono di un bacio....
Gavina balzò in piedi spaventata e si aggrappò alla porta por non cadere svenuta; le pareva di soffocare, di morire. Fortunatamente Michela risalì nelle camerette di sopra ed ella potè andarsene non veduta.
Non ritornò più, e fece sapere all’amica che oramai fra loro non poteva esserci più nulla di comune.
Invano Michela partecipò a tutti il suo fidanzamento col giovane contadino; la gente continuò a mormorare e Gavina fu inesorabile: respinse una lettera che l’amica le scrisse, e una sera annunziò al canonico Sulis che voleva andarsene dal paese, che voleva farsi monaca.
— E perchè? perchè, perchè, perchè? — egli cominciò a gridare, stizzito e rosso di collera. — Vi manca da mangiare? Vi manca da bere, in casa vostra? E se volete far la monaca non potete farla in casa vostra?
— Non posso più sopportare Luca.... nè egli può sopportarmi....
— Tutte le famiglie soffrono di simili piaghe, dovete saperlo! E perchè il Signore ci ha dato la forza d’animo se non per sopportare le avversità? E se vuoi andartene, — egli concluse abbassando la voce, — prendi marito! Non stare oltre a seccare.... prendi marito: questa è la tua missione, se vuoi capirla: se no....
— Finitela! — disse Gavina offesa. — Non vi ho mai sentito parlare così!
Il canonico continuò a sbuffare e a borbottare; ella lo lasciò e pregò Paska di accompagnarla alla fontana. Aveva bisogno di aria: soffocava, le pareva che tutto intorno a lei avesse odore di tomba.
— Anch’io ho tremato quando egli mi ha gettato la rosa, — pensava, giudicandosi spietatamente. — Che accadrà di me se resterò in quest’ambiente?
E mentre Paska riempiva la brocca alla fontana, ella guardava le montagne azzurre sull’orizzonte lunare, e ascoltando il grido dell’assiuolo che pareva un richiamo insistente, provava un desiderio selvaggio: arrampicarsi fra le roccie, nascondersi nel nido dell’uccello notturno, non ritornare più fra la gente.
Passando davanti alla casa di Michela non si fermavano più, ma il ricordo della disgraziata non le abbandonava e Paska non parlava d’altro.
— Tu hai fatto bene a non lasciarla più entrare in casa nostra, quella faccia di scimmia! — diceva a Gavina. — Io, del resto, non ho mai avuto una grande fiducia in lei. Ricòrdatelo. Ricordati come parlava di Francesco Fais.... con che sfacciataggine....
Al nome di Francesco Gavina si scosse e un po’ per far dispetto a Paska, un po’ pei rafforzare un’idea che le germogliava in mente, disse:
— Eppure io finirò col diventare sua moglie. Egli non guadagna molto, per adesso, ma che importa? Sono abbastanza ricca io.... vivremo tranquilli, ma lontano, lontano di qui.
— Che ti abbiamo fatto, figlia di Dio? — domandò Paska, asciugandosi gli occhi. — Ah, no, tu non sposerai il figlio d’una filatrice.
— È quel che si vedrà!
Ed ella cominciò a lodare colui che fino a quel momento aveva disprezzato e che adesso le appariva sotto una diversa luce, come un liberatore, o almeno come uno che l’avrebbe aiutata a vendicarsi; e di nuovo, nei lunghi crepuscoli di giugno, aspettò con desiderio il portalettere.
Col sopraggiungere del caldo Luca veniva ripreso dal suo tristo male: il medico ordinò di condurlo ancora in campagna, possibilmente in montagna, ma quando si trattò di partire, il malato fu assalito da una convulsione di angoscia e di terrore.
— Io non ritornerò più qui, — diceva piangendo, — morrò fuori di casa. E «lei» che mi caccia via, per farmi morire più presto. Mi volete portare in un luogo pieno d’insetti, di lumache, di vermi: volete farmi rosicchiare dai topi.... Mi pare di sentirli, qui.... sulle mie mani.... Ah!
Mentre egli batteva una mano sull’altra spaventato, Paska cercava di calmarlo.
— Tu vaneggi, Luca! Gavina ti vuol bene, è tua sorella, è carne della tua carne. Vuoi che la chiami? Ella ti dirà....
Ma egli rispondeva sottovoce, supplichevole:
— No, no, ma no.... ti dico! Non chiamarla.... se ella potesse mi ucciderebbe con lo sguardo.
Gavina sapeva tutto questo, e quel che più le dispiaceva era che lo sapevano anche gli altri.
Una sera ella sentì i giovani sfaccendati riuniti nella piazzetta, accusarla chiaramente di aver sempre maltrattato Luca: invano la zia Itria la difendeva; la vedova maldicente rideva con perfidia e diceva:
— Malanno che li colga, e lasciate che si cavino gli occhi fra di loro! E che solo i poveretti devono soffrire? Anche i ricchi devono scontare i loro peccati.
— Che peccati può aver fatto quella povera bambina? Taci, lingua infernale, — gridò la zia Itria.
— Quella povera bambina? Ah, ah, ella ha trent’anni e non ha ancora capito che bisogna avere un po’ di carità cristiana....
— Gavina trent’anni? Tu diventi matta, maledetto sia il peccato mortale!
— Ella ha l’età di Michela, — disse uno dei giovani.
E tutti risero nell’udire quel nome.
Allora la zia Itria s’irritò davvero e alzò la voce, ma Gavina non volle sentire oltre. Chiuse la finestra e aprì quella verso l’orto: e la notte era dolce e azzurra, e pareva bastasse salire sulla montagna per toccare le stelle; l’orto esalava un profumo di gigli, e l’elce fiorito illuminato dalla luna sembrava un mazzo enorme di fiori offerto dalla terra alle stelle sue amiche. Ma dalla finestra attigua usciva la voce lamentosa di Luca e ancora s’udivano le risate dei giovinastri.
Gavina pianse di disperazione e le parve d’essere chiusa in un luogo tenebroso, assediata anche lei, come il fratello malato, da mostri fantastici.
Bisognava fuggire, varcare la muraglia delle montagne.