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nati, più che da una luce interiore, da un riflesso esterno. Pareva che intorno a lui tutte le cose splendessero, che tutto emanasse luce e calore, e che egli respirasse quest’aria ardente con le narici sempre palpitanti e con le labbra socchiuse pronte al sorriso.

Domandò di Luca, volle sapere notizie di tutti, e parlò dei suoi progetti.

— Appena avrò la laurea verrò a stabilirmi qui; vedrà quanti ne ammazzerò. Se lei ha da ordinarmi qualche vendetta....

— Ma se Michela diceva che Lei voleva andarsene a Roma?

— Sì, mi presenterò ai concorsi per assistente negli ospedali, ma è difficile riuscire.

— Per lei? Per lei tutto è facile! — ella replicò, sempre alquanto ironica. — Sarà un vittorioso; lo dicono anche i giornali. Vada, vada in una grande città.

— Non si burli di me, faccia il piacere! — egli disse, arrossendo. — Io, se mai, non sarò che un razzo. Si ricorda?

— Che cosa? Un razzo?

Ella finse di non ricordare. Francesco non insistè, ma sebbene l’accoglienza di lei fosse stata fredda e quasi sdegnosa se ne andò sorridente e felice. Verso sera ritornò con Luca, che lo condusse a bere in cantina, e dall’orto Gavina sentì i loro discorsi.

Luca si lamentava, diceva che era malato, che certe notti gli pareva di soffocare.