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Ma a misura che l’ora s’avvicinava una tristezza profonda la vinceva. Dalla piazzetta della zia Itria giungevano le grida e le risate dei giovinastri; poi i rumori si spensero, e soltanto le ore battute dall’orologio della cattedrale risuonarono nel silenzio notturno con rintocchi striduli che avevano qualche cosa di vivo, come gridi lontani di un essere misterioso che di tanto in tanto si lamentasse per l’inutile passare del tempo.

Stesa sul letto Gavina di tanto in tanto ripeteva anche lei le frasi preparate per Priamo. Alle undici scivolò dal letto, sporse la testa dalla finestra, e per un attimo ebbe una specie di allucinazione. Nel cerchio di chiarore rossastro progettato dal fanale a petrolio del cancello di Elia, credette di vedere due figure, una buttata per terra e l’altra in piedi accanto alla prima, e le parve che Priamo avesse già compiuto la sua triste minaccia. Ma tosto la figura viva sollevò la testa, si mosse: l’ombra sparì. Ella scese e aprì la porta. Priamo era vestito da borghese, e Gavina, che non aveva preveduto questo, si turbò.

Nella saletta ardeva un lume ad olio e tutto era silenzioso e calmo: i libri piegati gli uni sugli altri pareva dormissero, dietro i cristalli, e persino la piccola Venere reclinava la testa come vinta dal sonno. Non era un luogo di dramma, quello, e Priamo, vinto dall’austerità dell’ambiente, camminò in punta di piedi, mise