Plico del fotografo/Introduzione
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INTRODUZIONE
1° Scoperta della camera oscura.
Nel sedicesimo secolo il naturalista G. B. Porta scoprì che in una camera perfettamente oscura si può vedere l’immagine degli oggetti illuminati dal sole al di fuori. Il suo modo di operare era assai semplice. Apriva sull’imposta di una finestra un piccol foro della grandezza circolare del dito mignolo, chiudeva la finestra ed ogni altro spiracolo, da cui potesse entrare la luce, ed avvicinando od allontanando dal foro della finestra un cartone bianco, vedeva formarsi sopra di questo un’immagine distinta, ma rovesciata, degli oggetti esterni rischiarati dalla luce. Porta osservò questa immagine essere tanto più distinta e nitida, quanto più piccolo è il foro per cui entra la luce, e potersi rendere della massima nitidezza col mezzo di una lente convessa posta nel foro stesso; inoltre, pervenne a raddrizzare questa immagine col mezzo di uno specchio in modo che essa si possa osservare nella camera oscura non più rovesciata, per cui gli oggetti da destra sono portati a sinistra, ma in modo che gli oggetti stessi appariscano nel loro ordine naturale, uti sunt.
Presentì il celebre napolitano l’importanza e l’avvenire della sua scoperta, per mezzo della quale, diceva egli, maxima naturae secreta nobis illucescere possunt; epperciò propose l’uso della camera oscura a quelli che sono ignari di pittura per delineare l’immagine di uomini e di cose; ammonendo che gli oggetti a delineare debbono essere bene illuminati dal sole, che l’operatore deve tanto al foro della camera avvicinare od allontanare il cartone, su cui vuole delineare l’immagine, sino a che questa immagine abbia acquistato la maggior perfezione possibile, prima di contornarla col lapis, o colorirla col pennello a seconda delle sue forme e de’ suoi colori (V. nota n° 1 al fine).
Non solo gli ignoranti dell’arte pittorica, ma anche abilissimi pittori e disegnatori, si giovarono in seguito della camera oscura. Il Canaletto se ne servì nel 1697 per fare le sue ammirabili vedute di Venezia.
Ma ora l’uomo può, quasi senza fatica, ottenere risultati molto più perfetti, può in sua vece far lavorare la luce stessa in questa delicata operazione di delineare una permanente immagine degli oggetti fugacemente dipinti nella camera oscura, e la luce obbediente opera con una fedeltà, con una maestria inconcepibile.
È interessante ed utile il conoscere in qual modo si sia arrivato a fare agire la luce nella camera oscura per farle delineare stabilmente l’immagine degli oggetti naturali.
2° Esperimenti di Wedgwood e Davy per produrre disegni col mezzo dell’azione della luce.
L’esperienza aveva da tempi immemorabili fatto conoscere che la luce colla sua azione altera, modifica, distrugge molti corpi. I colori i più brillanti che adornano le nostre stoffe di seta, di cotone e di lana sono d’ordinario assai fugaci, e basta alcune volte un colpo di sole per guastarli irrimediabilmente.
Molti sali si decompongono in contatto della luce con singolare facilità. I sali di argento son quelli che godono di questa proprietà in sommo grado. Il cloruro di argento, quando si espone ai raggi diretti del sole, oppure anche solo alla luce diffusa, non tarda a decomporsi, ad annerire, a cambiarsi insomma in argento metallico così diviso, che pare nero.
Nel 1802 Wedgwood ed il celebre Davy fecero conoscere i primi tentativi diretti ad utilizzare questa proprietà dei sali di argento per copiare stampe, incisioni, ecc.
Essi impregnavano della carta con il sale alterabile dalla luce, la coprivano col disegno, e così la esponevano al sole. La luce, attraversando i bianchi del disegno, e venendo fermata dai neri, impressionava parzialmente la carta sensibile e produceva una copia esatta del disegno, nella quale i neri corrispondevano ai bianchi (V. nota 2).
Questa copia così ottenuta si doveva ancora fissare e rendere inalterabile contro un’ulteriore azione della luce; ma questi due inglesi esperimentatori non riescirono a sciogliere un tal problema. Essi tentarono inoltre di riprodurre l’immagine della camera oscura, ma inutilmente. La loro preparazione non era abbastanza sensibile per impressionarsi sotto l’influenza della poca luce che dipinge l’immagine nella camera oscura.
3° Invenzione della fotografia fatta da I. Niepce di Chalons.
Il francese I. Niepce, ignorando i tentativi stati fatti prima di lui da Wedgwood e Davy, aveva sino dall’anno 1813 incominciato ad occuparsi a risolvere lo stesso problema; e, senza lasciarsi scoraggiare dalle difficoltà della sua impresa, giunse ad ottenere i primi risultati che si fossero mai prima di lui ottenuti; giunse a fissare l’immagine dipinta dalla luce nella camera oscura, ed a realizzare così l’importanza e l’utilità di questo istrumento.
Tutti i bitumi, le resine ed i residui degli olii essenziali vengono in modo sensibile decomposti dalla luce; laonde, come Wedgwood e Davy ebbero ricorso ai sali d’argento, così Niepce fece uso di queste sostanze per giungere ad ottenere dei disegni col mezzo della luce.
L’asfalto o bitume di Giudea, che esposto all’azione dei raggi luminosi imbianchisce assai prontamente, è quello che venne scelto da Niepce. Lo scopo, che questo inventore si proponeva, fu dapprima soltanto quello di riprodurre delle stampe od incisioni. Per questo fare egli rendeva trasparente il disegno, che voleva copiare, col mezzo di una vernice, affinchè esso potesse dare facilmente passaggio alla luce; applicava quindi questo disegno sopra di una piastra di stagno rivestita con uno strato di bitume di Giudea.
I raggi luminosi da una parte, attraversando i bianchi del disegno, imbianchivano il bitume sottostante, e, venendo dall’altra parte fermati dai neri, non modificavano il bitume nero. In tal modo, quando l’azione della luce era terminata, si aveva una riproduzione fedele del disegno, in cui i lumi e le ombre conservavano la loro naturale posizione.
Per fissare quest’immagine bisognava togliere la sostanza alterabile dalla luce, e ciò ottenne Niepce introducendo la lamina metallica nell’essenza di lavanda. Le parti del bitume non impressionate dalla luce venivano sciolte, mentre le parti alterate dall’agente luminoso rimanevano insolubili. Così si aveva dunque già un disegno prodotto dalla luce, e, quel che più importava, solido contro un’ulteriore azione della luce stessa; così si era fatto il primo passo verso l’utilità che ora ricaviamo dalle influenze decomponenti esercitate dalla luce sopra una grande varietà di composti chimici.
Per la minore intensità della luce che accompagna, e che produce l’immagine della camera oscura, Niepce incontrò difficoltà molto più grandi nel ritrarre questa immagine. Ma finalmente, verso l’anno 1825, vi riescì, quantunque per ottenere un’immagine dovesse impiegare da sei ad otto ore.
Il suo modo di operare in questo caso è affatto analogo a quello della sua riproduzione delle stampe ed incisioni.
Collo stesso bitume di Giudea egli ricopriva una lamina di rame inargentata, la metteva per un tempo sufficiente nell’immagine della camera oscura, terminava e fissava con un miscuglio di essenza di lavanda e di petrolio. Le parti corrispondenti alle ombre, che non erano state impressionate dalla luce, si scioglievano e così davano maggior sviluppo all’impronta ottenuta, mentre le parti corrispondenti ai lumi, state alterate profondamente dai raggi luminosi, non erano attaccate dal miscuglio. In tal maniera il disegno che si otteneva era ancora di un effetto naturale; i lumi e le ombre dell’immagine corrispondevano con quelli degli oggetti copiati. I lumi erano formati dal bitume, imbianchito e le ombre dalle parti brunite del metallo, ed i chiari-scuri, le semitinte dalle parti del bitume sopra di cui il dissolvente aveva imperfettamente agito.
Le immagini così prodotte si formavano troppo lentamente ed erano ancora ben lontane dallo avere la voluta perfezione. L’autore di esse tentò varie vie per accrescere la sensibilità dell’asfalto, per rendere i disegni ottenuti più vigorosi ed intensi, di un effetto più artistico, trattando la lamina impressionata con varie sostanze, tra le quali merita di essere specialmente ricordato il iodio, dal quale egli si prometteva i migliori risultati (V. nota 3).
In questo mentre un abile pittore parigino, avendo saputo che si era arrivato a fissare l’immagine della camera oscura, ebbe modo di farsi svelare da Niepce la secreta maniera del suo operare per ottenere un tale risultato. Daguerre, che così ei si chiamava, messo una volta a parte dei procedimenti di questa nuova arte, che il suo autore distingueva col nome di Eliografia1, lasciò ben tosto la pittura per occuparsi esclusivamente intorno ad essa, mettendosi sino dal 1829 a lavorare con Niepce.
Come quasi sempre succede agli inventori, non era riservato a Niepce di vedere realizzate le sue speranze, che tanti sacrifizii gli avevano costato. Alla vigilia di godere del trionfo della sua arte, di ricevere la giusta ricompensa della sua perseveranza, volle il destino che egli fosse rapito dalla morte, misero, senza gloria, ignorato dai suoi concittadini.
4° Dagherrotipia, ossia fotografia su piastra.
Rimasto solo, Daguerre continuò a lavorare indefessamente per arrivare alla perfezione della meravigliosa arte inventata da Niepce, e le sue fatiche furono coronate da un insperato successo.
Egli osservò che la lamina di rame inargentata sottoposta ai vapori dell’iodio nel modo indicato da Niepce, e quindi lasciata parzialmente in contatto della luce, veniva in tal maniera modificata, portandola in contatto dei vapori di mercurio, che le parti della lamina state illuminate venivano distintamente accusate, mentre non subivano alcuna modificazione le parti rimaste all’oscuro.
Questo fatto condusse naturalmente Daguerre a sostituire il iodio al bitume, il mercurio alla mistura di essenza di lavanda e di petrolio, e così fu possibile ottenere risultati molto più perfetti in uno spazio di tempo di gran lunga più breve.
Il mercurio non ha la doppia proprietà della mistura predetta, di poter nel tempo stesso concorrere a sviluppare e fissare l’immagine. Esso non fa che rivelarla senza sciogliere la sostanza alterabile dall’agente luminoso. Questa si deve eliminare col mezzo di un appropriato dissolvente. Ciò ottenne Daguerre facendo uso di una soluzione concentrata di cloruro di sodio che abbandonò più tardi, dietro le indicazioni di Iohn Herschel, per adottare l’iposolfito di soda, il cui effetto è molto più pronto e sicuro.
Secondo questo metodo di Daguerre una lamina di rame coperta di argento, dopo di essere stata esposta per alcuni minuti ai vapori dell’iodio alla temperatura ordinaria, dopo di avere così ricevuto sulla sua superficie uno strato di ioduro di argento, viene portata nel campo della camera oscura. La luce ineguale del campo inegualmente decompone il ioduro di argento, e la decomposizione non si manifesta in modo visibile, tranne quando si porta la lamina sui vapori di mercurio. Questi vengono a condensarsi in maggiore o minore quantità su le parti in cui la luce è stata più o meno profonda. La condensazione del mercurio sulle parti decomposte dalla luce produce i lumi, ossia i bianchi del disegno, mentre le ombre ed i neri si debbono principalmente attribuire al brunito dell’argento posto a nudo dal dissolvente fissatore (V. nota 4).
Tuttavia, non ostante il perfezionamento grandissimo apportato da Daguerre all’arte di Niepce, non era ancora dato di poter farne una vantaggiosa applicazione per prendere ritratti. Il solo ioduro di argento, quantunque molto più proclive ad impressionarsi che non il bitume dapprima impiegato, richiedeva un tempo di esposizione troppo lungo per lasciare riprodurre esseri animati.
Era riservato ad un valente e dotto artista, al sig. Claudet di Lione, abitante da più anni in Londra, il trovare un modo di esaltare in sommo grado la sensibilità luminosa dell’ioduro di argento. Questo modo consiste semplicemente nell’esporre la lamina iodata ai vapori del cloruro di iodio. Il signor Gaudin fece conoscere quasi nello stesso tempo che col bromuro di iodio si può ottenere lo stesso effetto. Altri autori hanno in seguito proposto il cloruro di solfo, il bromoformio, il bromo liquido, e finalmente il signor Bingham propose l’impareggiabile bromuro di calce, per cui si pervenne ad abbreviare talmente la durata della posa, che ora l’impressione nella camera oscura si può dire essere diventata istantanea, ed è infatti vero che è possibile di riprodurre le onde agitate del mare, una rivista, una processione, quando il fotografo ha saputo preparare la sua lamina col maximum di sensibilità di cui essa è suscettibile.
Alle immagini ottenute col metodo di Daguerre mancava ancora un modo di renderle più solide, più vigorose e di correggere il loro dispiacevole riflesso metallico. Infatti esse lasciavano molto a desiderare dal lato della solidità contro l’azione del tempo, e bastava il più lieve contatto per guastarle. Il deposito di mercurio sull’argento era pochissimo aderente, paragonabile ai colori delle ali di una farfalla; e si trovava, perchè la differenza di tinte tra il mercurio e l’argento non è abbastanza grande, che l’immagine non era della conveniente robustezza, come quella che era anche indebolita dal grande splendore di questi due metalli.
Nel 1840 Fizeau fece conoscere il suo procedimento con cui metteva i disegni Dagheriani sotto l’egida del più inalterabile dei metalli, l’oro, e così li fissava, li rinvigoriva, e in parte distruggeva quel disgustosissimo riflesso metallico per causa del quale essi non possono venire osservati che sotto un angolo determinato.
5° Fotografia su carta.
La fotografia fin qui sembrava aver dimenticato la sua primitiva origine, imperocchè abbiamo veduto come Wedgwood e Davy avessero tentato di fissare su carta l’immagine ottenuta col mezzo della luce sui sali d’argento. Ciò non pertanto vi era chi lavorava in silenzio, vi era l’inglese Talbot, il quale, fatto consapevole che Niepce con secreto modo fissava sopra dello stagno e dell’argento l’immagine della camera oscura, aveva intrapreso a ricercare il modo di ottenere sopra carta lo stesso risultato.
L’alterabilità dei sali d’argento in contatto della luce, per cui essi vengono decomposti chimicamente, deossidati, anneriti, è quella che servì di base al metodo di Talbot. Nel 1839, sei mesi prima della pubblicazione del procedimento di Daguerre, egli fece conoscere al mondo la sua scoperta di fissare l’immagine della camera oscura. Impregnava un foglio di carta con una soluzione di sale di cucina, e lo trattava quindi con una soluzione di nitrato di argento. Per una doppia reazione chimica si produceva così sulla carta uno strato uniforme di cloruro d’argento. La carta in tal maniera preparata non essendo ancora abbastanza sensibile per poter venire impiegata nella camera oscura, Talbot fece osservare che, se essa si fa seccare, e quindi, dopo qualche tempo si lava di nuovo con una sufficiente quantità di soluzione di nitrato d’argento, la sensibilità della carta verso l’azione luminosa viene accresciuta, che, se si lava alternativamente la carta con sale comune e con nitrato d’argento with salt and silver, e nel frattempo si fa seccare, si giunge ad accrescere la sua sensibilità ad un grado sufficiente per ricevere l’immagine della camera oscura.
Un così fatto risultato non era però ancora che il preliminare di un altro molto più perfetto che il signor Talbot scoperse un anno dopo nel 1840. Egli chiamò il suo nuovo disegno col nome di Calotipo, che significa bel modello o bel disegno. Questo era infatti giudicato allora così importante, ed aveva eccitata una così grande attenzione nel mondo scientifico, che il fisico Biot ne fece il soggetto di un brillante rapporto all’Accademia delle scienze in Parigi.
Il modo di operare e le sostanze che venivano impiegate per produrre il disegno erano ben poco differenti da quelli tuttora in uso presso i fotografi. Talbot trattava la sua carta con una soluzione di nitrato d’argento, quindi, dopo di averla fatta seccare, la impregnava con una soluzione di ioduro di potassio, e, prima di esporre una tale carta nella camera oscura, la bagnava di nuovo con una soluzione di nitrato d’argento, che aveva acidulato con acido acetico. Nella camera oscura si produceva assai presto l’impressione, ma questa era latente, invisibile all’occhio, e non si manifestava che a lungo andare, purchè fosse conservata al buio. L’inventore però la faceva immediatamente comparire, lavando la carta col mezzo di un miscuglio di acido gallico, nitrato di argento, ed acido acetico. Onde fissare l’immagine, ossia renderla inalterabile contro l’azione della luce, faceva uso del bromuro di potassio, il quale fissa e rende inalterabile, non già rendendo il disegno più stabile per se stesso, ma modificando o togliendo il sale d’argento non ancora alterato, che, coll’annerirsi in presenza della luce, confonderebbe e nasconderebbe il disegno in mezzo ad una uniforme superficie annerita (V. nota 5ª).
Un tale disegno ottenuto nella camera oscura non era destinato da Talbot onde potesse servire per se stesso, perchè le sue tinte non sono conformi a quelle del modello riprodotto, ma precisamente contrarie ed opposte, e perchè la posizione relativa delle parti del modello viene alterata, cambiata. Infatti, da una parte il sale d’argento venendo annerito dalla luce, la riproduzione delle parti luminose non può manifestarsi che col color nero sulla carta, mentre le ombre ed i neri del modello si accusano in gradazioni dal nero al bianco, oppure in bianco deciso, perchè poco o nulla alterano il sale di argento; epperciò nel disegno ottenuto i lumi corrispondono alle ombre del modello e reciprocamente. Per altra parte l’immagine, che nella camera oscura si produce, è rovesciata per causa dello incrocicchiamento dei raggi luminosi riflessi dagli oggetti esterni, quindi anche nell’immagine ottenuta col suo mezzo le parti sono rovesciate, cioè da destra sono portate a sinistra, ed inversamente.
Questi apparenti svantaggi formano il merito principale del Calotipo, perchè essi sono quelli che rendono quest’immagine su carta, non già un disegno comune, ma un tipo paragonabile alla forma dello scultore, al rame dell’incisore, capace di produrre una quantità innumerevole di altre più perfette immagini, le quali non lasciano più nulla a desiderare sotto il rapporto della verità e della naturalezza, poichè gli oggetti vi sono riprodotti con effetti naturali di luce e di ombra, e vi conservano la loro giusta posizione relativa.
La maniera trovata da Talbot per riprodurre e tirare col mezzo del Calotipo le immagini fotogeniche è quella che viene ancora attualmente seguita. Egli portava il suo disegno sopra di un foglio sensibilizzato con cloruro di sodio e nitrato di argento secondo le indicazioni del suo metodo primitivo, e l’esponeva al sole. L’immagine non tardava a riprodursi. Quest’immagine, in cui tutto si trova corretto, venne distinta dai fotografi col nome di prova positiva, mentre si denominò prova negativa quella che presenta tinte e posizioni rovesciate. Egli è evidente che soltanto una buona prova negativa potrà produrre buone prove positive. D’onde ne venne che i fotografi dapprima si occuparono a gara per correggere le imperfezioni della carta destinata alla produzione delle prove negative, la sua natura porosa, fibrosa ed ineguale, trattandola ora coll’amido, ora colla cera, colla gelatina, ecc. Ma conviene confessare che questi sforzi non condussero ancora a risultati abbastanza soddisfacenti, imperocchè le immagini positive tirate dalle negative su carta rimangono sempre più o meno confuse ed indistinte.
6° Fotografia su vetro.
Per andare con migliore successo incontro a questa difficoltà inerente alla struttura della carta, il signor Niepce de Saint Victor, nipote dell’inventore della fotografia, scelse altra via. Egli nel 1848 ebbe la felice idea di sostituire il vetro alla carta nella produzione delle prove negative, e creò così, come si dice, la fotografia su vetro, denominazione impropria, perchè in questo metodo il vetro non è destinato ad altra funzione che a quella di offerire la sua superficie piana, la sua solidità e trasparenza. Le reazioni chimiche si effettuano in seno di uno strato di albumina, o di altra sostanza glutinosa, con cui si copre il vetro dall’uno dei suoi lati. Questo strato è quello che fa le veci della carta fotogenica per le prove negative.
La fotografia su vetro non è dunque che una modificazione della fotografia su carta per produrre le negative, ma col suo mezzo si viene ad ottenere disegni con una nitidezza ammirabile, e di una rigidità e precisione di linee infinitamente maggiore di ciò che si possa produrre colla carta, e paragonabili coi prodotti che si ottengono su lamina.
A. Procedimento coll’albumina. — Le manipolazioni che occorrono sono semplicissime. Si fa sciogliere nell’albumina, o bianco d’uovo, una piccola quantità di ioduro di potassio, si batte in neve, e, quando questa si è liquefatta col riposo, si stende sul vetro, e si fa seccare. Ora si procede in modo analogo e colle stesse materie indicate da Talbot per sensibilizzare, sviluppare il disegno, e fissarlo (V. nota 6).
Una importante qualità dell’albumina, stesa sul vetro e sensibilizzata, è quella che essa ha di potersi conservare sensibile per mesi intieri, sia prima, sia dopo dell’esposizione nella camera oscura, mentre la carta sensibile non si può conservare lungo tempo senza che si alteri. Questa proprietà dell’albumina è di un vantaggio incalcolabile pel fotografo viaggiatore, imperocchè non gli faccia mestieri che di portare con sè la camera oscura ed i vetri preparati, sensibilizzati, potendo egli a suo bell’agio far sortire, sviluppare, di ritorno a casa, le immagini prese.
Questi vantaggi dell’albumina su vetro vengono attenuati dalla debole sensibilità sua. Imperocchè se essa è inarrivabile per prendere delle vedute, per copiare la natura immobile, è affatto insufficiente per riprodurre scene animate, per prendere ritratti. Almeno ciò si deve dire per regola generale, quantunque io abbia veduto nel 1851 il mio amico signor E. Plaut di Parigi ottenere in pochi secondi dei magnifici ritratti su albumina; quantunque Talbot abbia sopra di essa ottenuto delle impressioni affatto istantanee, ed altri autori siano egualmente arrivati a risultati analoghi; poichè prodotti di questa natura su albumina non si possono ottenere con qualche costanza. Egli pare che essi siano dovuti a circostanze così complicate, a combinazioni particolari così instabili, che non si arriverà forse mai a produrle a piacimento, secondo i bisogni dell’operatore. Un’altra proprietà ha l’albumina, che nel suo impiego non è forse meno dannosa della sua poca sensibilità, ed è la grande difficoltà che si trova nello stenderla in modo regolare ed uniforme sopra la superficie del vetro.
B. Procedimento col collodio. — Gli stessi sforzi che i fotografi avevano fatto per arrivare a porre un termine alle imperfezioni della carta, essi li intrapresero per evitare la lentezza fotogenica dell’albumina, e la difficoltà di stenderla uniformemente sul vetro. Dopo di avere esperimentato le sostanze acceleranti, ma invano pel capriccio e la variabilità del loro modo di agire, e dopo di avere tentato di modificare l’albumina coll’aggiunta di altre sostanze, o col mezzo di una spontanea fermentazione, onde renderla più idonea ad essere stesa regolarmente sul vetro, ebbero ricorso ad altre sostanze capaci di lasciarsi stendere in modo uniforme sul vetro, p. e. l’amido, l’arrowroot, il glutine, la caseina, la colla, la tapioca, ecc. Questi tentativi, benchè non abbiano altrimenti condotto ad alcun diretto ammiglioramento, furon quelli che guidarono all’avventurata applicazione del collodio, il quale fece ben tosto cadere in dimenticanza tutte le altre sostanze provate per la facilità con cui vien applicato in modo regolare sul vetro, e più ancora per la sua grande sensibilità e celerità di azione, e per la bellezza dei disegni che con esso ottenere si possono. Dapprima il collodio non pregiudicò all’uso dell’albumina, perchè si conosceva solo il modo di adoperarlo umido, ma ora può dirsi che il collodio abbia intieramente fatto cadere in dimenticanza il primitivo procedimento all’albumina, perchè si è trovato il modo di conservare la sua sensibilità anche quando è secco, e per lungo tempo dopo che venne reso sensibile all’azione della luce.
Il collodio è un singolare composto organico che si conosce da poco tempo. Esso si ottiene sciogliendo del cotone fulminante nell’etere solforico, ed è in forma di una soluzione mucilaginosa, essiccativa in sommo grado. Quando esso viene applicato sul vetro, l’etere non tarda a volatilizzarsi, e rimane sul vetro una sottile e solida pellicola.
Egli è questa sostanza che nel 1850 venne per la prima volta indicata dal fotografo e pittore Le-Gray come capace di sostituire l’albumina. Tuttavia le sue indicazioni erano rimaste infruttuose ed egli stesso non ne aveva ricavato alcun grande vantaggio. Era riservato all’inglese Archer di far conoscere nel 1851 un metodo compiuto per arrivare col collodio ad ottenere i prodotti i più perfetti, i più inaspettati, e con quella stessa prontezza che si ottiene operando su lamina.
Ciò che serve a rendere il collodio sensibile, impressionabile, in contatto della luce, è ancora il ioduro di argento ottenuto col mezzo di una doppia decomposizione dell’ioduro di potassio e del nitrato di argento, come succede presso la carta e l’albumina. Archer col suo metodo incominciava per fare una soluzione alcoolica di ioduro di potassio e di ioduro di argento, quindi l’introduceva nel collodio. Questo era, così, reso fotogenico, e per dargli la sensibilità bastava trattarlo col nitrato di argento nel modo consueto. Quando poi il collodio era stato impressionato dall’immagine della camera oscura, Archer ne rendeva visibile l’impressione luminosa trattandolo con acido pirogallico, e la rendeva permanente col mezzo dell’iposolfito di soda.
C. Procedimento col collodio secco. — In breve tempo il procedimento col collodio si divulgò nell’Europa e nell’America, e si praticò da tutti i fotografi. Ma nel collodio si desiderava ancora una qualità essenziale, quella per cui esso potesse conservare lungo tempo, dopo della sua sensibilizzazione, la facoltà di venire facilmente impressionato dalla luce, perchè senza di ciò il suo pratico impiego nel prendere le vedute non era possibile. Molti metodi vennero proposti e praticati, coi quali si viene a conservare al collodio sensibilizzato la sua sensibilità. Tra questi metodi ha un interesse storico quello di Crookes e Spiller, che consiste nel conservare al collodio sensibile un certo grado di umidità col mezzo di un sale deliquescente, e quello di Shadboldt, in cui si fa uso del miele. I metodi alla destrina, al seme di lino, alla gelatina, alla meta-gelatina, all’ossi-miele, al tannino, e via dicendo, che hanno per effetto di difendere il collodio sensibilizzato dal contatto dell’aria, quando una soluzione di queste sostanze viene versata sullo strato sensibile, sono assai efficaci e convenienti al loro scopo.
Fra tutti i metodi che si proposero per conservare la sensibilità al collodio secco, uno fra i migliori è il metodo detto del collodio albuminato che venne pubblicato sino dal 1855 dal professore di fisica Taupenot. Questo metodo ha, si può dire, tutti i vantaggi del procedimento all’albumina, senza avere alcuno dei suoi inconvenienti. Cioè il collodio albuminato è solido sul vetro come l’albumina, ed esso si può facilmente ottenere in strato regolarissimo sopra il vetro, e questo strato, mentre è capace di ricevere una immagine, in cui tutti i più piccoli dettagli siano resi con la massima purezza, è atto a conservarsi per molti mesi perfettamente sensibile, e la sensibilità sua è così grande, che supera di molto quella dell’albumina.
Questo metodo del collodio albuminato è spesso distinto col nome di metodo Taupenot, e consiste: 1° nel ricoprire col mezzo dell’albumina, cui si aggiunse dell’ioduro di potassio, il collodio steso sopra una lastra di vetro, sensibilizzato nel modo ordinario, e lavato nell’acqua; 2° nel far seccare, e poscia sensibilizzare di nuovo con aceto-nitrato d’argento, ed operare quindi come presso il procedimento coll’albumina.
7° Prove positive.
I fotografi, come si videro in possesso di procedimenti così perfetti, ed in cui più nulla si trovava a desiderare, rivolsero la loro attenzione a quella parte dell’arte fotografica che non aveva ancora raggiunto un così alto grado di perfezione, cioè al modo di tirare le prove positive, in alcune delle quali si era riconosciuta una certa mancanza di solidità contro l’azione del tempo.
Le prove positive si ottengono generalmente col metodo di Talbot, mettendo le prove negative al dissopra di un foglio di carta coperto essenzialmente di uno strato di cloruro d’argento, esponendo al sole sino a che si sia prodotta l’immagine, e quindi fissando questa immagine con una soluzione di iposolfito di soda, che scioglie, toglie dalla carta, il sale di argento che non venne alterato dalla luce.
Per arrivare a rendere le prove positive più solide contro la distruttiva azione del tempo si cercò di scoprire la vera causa, per cui essa tende ad alterarsi spontaneamente ora più ed ora meno presto, e si trovò che il solfo lasciato dall’iposolfito è la causa più frequente dell’alterazione del colore dell’immagine. I lavori intrapresi dalli signori Davanne e Barreswil, e da altri, e la osservazione dei fatti che presenta l’immagine fotografica variamente cimentata con corpi diversi, e cogli agenti imponderabili, condussero ad una teoria che può servire di guida abbastanza sicura all’operatore, affinchè esso possa dare alle prove la maggior solidità e maggior permanenza possibile.
Il costo notevole dei sali di argento rende piuttosto costoso il modo attuale di tirare le prove positive, e questo costo, quando si vuole far prendere alle immagini una tinta molto ricca, viene notevolmente accresciuto dall’impiego che devesi fare di cloruro di oro, il quale comunica all’immagine una tinta nero-violacea assai piacevole. Ciò indusse alcuni a tentare altri metodi con altre sostanze poco costose. I risultati che già si ottennero fanno sperare che non sia molto lontano il giorno in cui, nella produzione delle prove positive, i sali di argento potranno venire rimpiazzati da altre sostanze più abbondantemente sparse nella natura.
Noi possiamo citare i risultati che si ottennero col nitrato di urano proposto dal signor Niepce di S.t Victor; quelli ottenuti da vari autori col bicromato di potassa, solfato di ferro, ed acido gallico. Il metodo che levò di sè il più grande rumore nel mondo fotografico, ma che dal momento della sua scoperta a questa parte fece ben pochi progressi, è quello che venne fatto conoscere dalli signori Poitevin, Pouncy, ed altri, in cui la prova positiva viene prodotta dal bicromato di potassa, dalla gelatina e dal carbone.
Le prove positive su carta, quando sono ben riescite, che vennero colorite col cloruro d’oro come ho accennato qui sopra, sono di un effetto artistico assai bello. I ritratti quando sono vignettati o contornati in modo che la tinta del fondo vada gradatamente crescendo o decrescendo verso il suo perimetro, sono preferiti a quelli fatti con fondo uniforme. Una tale sfumatura del fondo si ottiene ora con cotone in lana, ora con una lastra di vetro convenientemente colorata, che si applica sul rovescio della negativa, ora con altri modi che è qui inutile indicare.
Per le prove positive di dimensioni poco considerevoli, come sono li ritratti detti biglietti di visita o simili, desiderandosi una grande precisione di dettagli, la carta non può dare una nitidezza sufficiente se non viene trattata con gelatina o con albumina per renderla più liscia nella sua superficie. In tal maniera si corregge per quanto è possibile l’asperità della carta, ma non si riesce a toglierla del tutto, come sarebbe a desiderarsi.
L’inconveniente dell’asperità, che è proprio della carta, fece ricercare la maniera onde ottenere sopra collodio delle positive dirette che si avvicinassero per la loro perfezione di dettagli a quelle che si ottengono su piastra metallica, senza averne il dispiacevole riflesso. Questa maniera ha a quest’ora fatto progressi importanti, per cui il metodo della produzione delle prove positive su vetro collodionato già si pratica in grande con successo.
Questo metodo venne designato col nome di processo alabastrino. Esso consiste essenzialmente nel produrre una immagine su collodio poco robusta, trattarla con una soluzione di bicloruro di mercurio, che rende perfettamente bianchi i lumi del disegno, e nel ricoprirla quindi di una vernice nera essiccativa, che dà ai neri del disegno una intensità assai grande. Quando la vernice si mette direttamente sull’immagine e non sul rovescio della lastra che la porta, l’immagine vuole essere osservata dalla parte del vetro, e ciò fa sì che si trovi raddrizzata, il che è un notevole vantaggio. Questo metodo si raccomanda principalmente per la prontezza con cui si può ottenere l’immagine, per cui l’operatore può fare un ritratto seduta stante. Per questo e pel poco costo delle produzioni il processo alabastrino merita di essere maggiormente studiato e praticato dai fotografi, tanto più che la prova su collodio può facilmente venire trasportata su tela nera incerata, su carta gelatinata, su pergamena, su fogli di gutta-perca, ed i successi ottenuti in una tale direzione da Manson, Bayard e da altri sono più che sufficienti ad incoraggiare i fotografi pratici nell’uso di questo metodo, che essi potranno perfezionare al grado desiderabile.
Le immagini fotografiche su carta o su vetro di cui abbiamo parlato di sopra sono destinate ad essere osservate per luce riflessa. Affinchè sia possibile vedere l’immagine per luce trasmessa, il che è utile nelle prove destinate ad essere osservate nello stereoscopio ed in quelle che si vogliono sostituire alle così dette litofanie, ecc., il fotografo produce l’immagine sopra vetro collodio-albuminato, facendola positiva per trasparenza. Il modo di fare le positive trasparenti è analogo a quello della produzione delle prove negative sopra vetro collodio-albuminato, ma la disposizione che il fotografo dà alla camera oscura è differente. Egli pone la prova negativa nel fronte della camera in modo che la luce diffusa del cielo la illumini fortemente. Nel mezzo della camera oscura pone l’oggettivo, ed all’altra estremità pone lo strato sensibile. Se la distanza della negativa dall’oggettivo sarà eguale alla distanza dello strato sensibile dall’oggettivo stesso, l’immagine positiva che si ottiene sarà di grandezza eguale a quella della negativa. Lo svolgimento dell’immagine si effettua col mezzo di acido gallico e di nitrato d’argento, e si fissa con iposolfito nel modo usato per le prove negative.
Queste positive trasparenti vengono spesso più prontamente ottenute sopra collodio albuminato secco, mettendo la negativa a contatto dello strato sensibile, ed esponendo quindi alla luce diffusa, che in pochi secondi produce una sufficiente impressione da permettere lo svolgimento dell’immagine nel modo ora descritto. Ma in questo modo la prova negativa non tarda a guastarsi, e l’esattezza dei dettagli nella prova ottenuta lascia sempre a desiderare, perchè il contatto non è mai perfetto sopra tutta la superficie, epperciò il metodo più frequentemente in uso per produrre le positive trasparenti è quello in cui si fa servire la camera oscura munita al suo centro di un oggettivo conveniente.
8° Istrumenti fotografici.
Nel mentre che i fotografi davano mano al perfezionamento dei varii processi, un altro ramo relativo alla scienza del fotografo veniva portato di pari passo alla massima perfezione, voglio dire la costruzione degli apparati e degli istrumenti che servono a produrre l’immagine che quelli hanno per iscopo di fissare, sviluppare, rendere permanente. Riservandoci di trattare a suo luogo di quest’arido argomento, faremo qui breve menzione degli oggettivi o delle combinazioni di lenti che producono l’immagine fotografica, della camera solare che serve ad ingrandire questa immagine, e dello stereoscopio che serve a combinare in una sola due immagini dissimilari di uno stesso oggetto.
A. Oggettivi. — Il prof. Petzval sino dai primi tempi della fotografia, scoprì la combinazione di lenti che serve per fare i ritratti. Questa combinazione è capace di produrre un’immagine sufficientemente grande colla massima quantità di luce e colla minima trasfigurazione possibile. È pure dovuta al prof. Petzval la già troppo decantata combinazione crioscopica, che è destinata a produrre delle vedute di una grandezza angolare più grande di quella che hanno le vedute prodotte dal menisco acromatico convergente di Vollaston, ossia dal così detto oggettivo semplice.
Il signor Sutton, che tanti titoli ha alla stima dei fotografi, scopri l’oggettivo triplo che produce delle vedute quasi prive di trasfigurazione, e che è assai utile per riprodurre soggetti architettonici. Altri autori scopersero altre combinazioni di lenti per prendere le vedute tra cui possiamo citare li signori Ch. Chevalier, Jamin, Grubb, Goddard, Ross, Voigtländer.
Le lenti usate dal fotografo avendo un campo compreso da una grandezza angolare troppo piccola, cioè di 35 a 40 gradi tutto al più, il signor Porro ideò un nuovo oggettivo che permette di ottenere un campo di 120°. L’immagine prodotta da questo oggettivo si deve ricevere sopra di una superficie cilindrica, su cui si posa della carta sensibile. Questo oggettivo, che era destinato dal suo autore per prendere vedute panoramiche e per essere applicato alla levata dei piani militari, rimase finora di un interesse più scientifico che pratico, per le difficoltà che presenta il suo impiego.
Il sig. Sutton ha da poco tempo scoperto un oggettivo panoramico, che differisce da quello ora menzionato. Esso consiste in un globo ripieno d’acqua, con diaframma al centro. Questo oggettivo permette di coprire un campo in superficie cilindrica con una grandezza angolare di 120° orizzontalmente, ed una grandezza di 35° verticalmente. La superficie cilindrica, sopra cui si fa l’immagine, è di vetro coperto di uno strato di collodio, ed è il sig. Cox di Londra che ha incominciato a costrurre e porre in vendita questo oggettivo con tutti gli apparati relativi per operare con esso. Se in questa via si potranno ottenere risultati perfetti, la fotografia farà un grande progresso, poichè ora le vedute fotografiche non hanno mai tanto orizzonte da appagare il gusto e le esigenze di un artista. Esse non sono vedute nel vero senso della parola, ma frazioni di vedute; mentre coll’oggettivo panoramico si producono vedute intiere, quasi come quelle che noi vediamo al naturale. Queste vedute abbracciando 120 gradi possono bastare tre di esse per presentare tutto l’orizzonte.
B. Camera solare. — Non bastava il possedere delle lenti che producessero una immagine, colla più grande perfezione possibile, degli oggetti naturali, e che questa immagine fosse compresa da una grandezza angolare molto grande, bisognava poter produrre delle immagini di grande dimensione superficiale. Nel prendere delle vedute, presso cui si opera con poca luce e con oggettivi a foco molto lungo, ciò non incontrava difficoltà notevoli, ma nel prendere i ritratti non era possibile ottenere immagini di qualche importanza in grandezza senza produrre in esse una trasfigurazione ed una confusione di dettagli troppo grande.
Non potendosi vincere direttamente la difficoltà, si ricorse ad una seconda operazione, con cui si riproduce ingrandita l’immagine ottenuta direttamente. Ogni lente può servire ad una tale operazione, ma affinchè il risultato sia soddisfacente, bisogna fare uso di un istrumento apposito, il quale permetta di produrre un naturale ingrandimento senza introdurre una trasfigurazione sensibile, e d’illuminare abbastanza fortemente l’immagine. Queste condizioni sono perfettamente raggiunte dalla camera solare di Woodward, la quale venne scoperta solo da poco tempo, ed è senza dubbio il migliore apparato che sia stato proposto al fotografo pratico per ingrandire le immagini. Esso si compone di un riflettore e di un condensatore che inviano la luce del sole sopra una negativa trasparente, poco lontano dalla quale si pose un rovesciato oggettivo da ritratti, il quale presenta così la sua lente posteriore alla negativa da copiare. L’immagine ingrandita si riceve sopra di un largo foglio di carta, sensibilizzato con cloruro di sodio e nitrato d’argento.
Questa camera solare dà il modo di ottenere ritratti in grandezza naturale col mezzo di negative dette di un quarto di piastra. Infatti, quando essa è munita di un condensatore di 9 pollici di diametro si può ingrandire cinque volte, ed anche di più, il diametro di negative aventi una lunghezza diagonale di 8 pollici, ossia si può ottenere un ingrandimento superficiale di 23 volte quello della prova da copiare. Questo istrumento, che permette di ottenere così facilmente immagini ingrandite, è certamente destinato a fare avanzare di molto l’arte fotografica, ed a fare acquistare una nuova importanza alle sue produzioni.
C. Stereoscopio. — L’immagine fotografica non ostante la sua perfezione ed esattezza è tuttavia, come se fosse una pittura comune, incapace di dare all’osservatore la sensazione del rilievo, dello spiccato, che gli oggetti hanno in natura, quantunque l’immagine stessa offra tutti i requisiti di lumi, di ombre e di dettagli che presentano gli oggetti naturali. Leonardo da Vinci nel suo trattato della pittura dà ragione di un tal fatto, e le sue osservazioni sono di una sorprendente chiarezza ed attualità (V. nota 7).
Il sig. Wheatstone, partendo dalle osservazioni di Leonardo, scoprì l’istrumento conosciuto col nome di Stereoscopio. Questo istrumento che, modificato da Brewster e da Duboscq e da Knight, è ora nelle mani di tutti i fotografi, comunica un magico rilievo a due disegni fotografici di uno stesso soggetto presi da due punti di vista differenti, cosicchè gli oggetti rappresentati dai due disegni sono veduti nell’istrumento con tutto lo spiccato che hanno in natura, in modo da produrre una illusione perfetta sull’osservatore, il quale osservando contemporaneamente i due disegni, vede un’immagine sola, e riceve la stessa sensazione, come se egli avesse in realtà avanti a sè gli stessi oggetti naturali.
9° Fotografie di oggetti infinitamente grandi e di oggetti infinitamente piccoli.
1. Il sig. Bond, astronomo americano, fu il primo che abbia applicato la fotografia per fissare (immagine dei corpi celesti; esso con un equatoriale di 38 centimetri di diametro e di metri 7,50 di lunghezza focale, ottenne su vetro collodionato perfette fotografie di gruppi di stelle di prima, di seconda, e di quarta grandezza, e delle immagini della luna di 7 centimetri di diametro. In seguito molti astronomi hanno pure ottenuti risultati consimili e più perfetti. Sono celebri le astrofotografie ottenute da De la Rue a Londra, da Faye e Porro a Parigi, e dal R. P. Secchi a Roma.
Le immagini della Luna sono quelle che hanno eccitato la più grande attenzione per la perfezione con cui vennero ottenute. Si giunse persino a riprodurre immagini stereoscopiche di questo nostro satellite che, maraviglioso a dirsi, accusano perfettamente la sua forma sferica, e danno una sensazione decisa delle sue altezze e delle sue depressioni. Per produrre queste prove stereoscopiche della luna si riuniscono due a due delle immagini della luna, prese sensibilmente nella stessa fase, ma non in uno stesso periodo di librazione.
Nel prendere l’immagine degli astri si poterono fare paragoni tra i poteri fotogenici della luce della luna, e di quella degli altri pianeti e delle stelle, e si trovò p. e., che la luce di Giove è tre volte più fotogenica che la luce della luna, e che la luce di Saturno è 12 volte meno energica chimicamente che non la luce di Giove. Si osservò che le parti della luna illuminate dal sole obliquamente sono poco fotogeniche, quantunque appariscano all’occhio altrettanto illuminate e brillanti, che quelle illuminate verticalmente.
Non meno interessanti per la scienza sono le fotografie del sole, tra cui accenneremo quelle dell’eclisse del 15 marzo 1858, che vennero prodotte in Parigi col grande rifrattore costrutto da Porro, che ha 52 centimetri di apertura e 15 metri di lunghezza focale. Le fotografie dell’eclisse ottenute da questo oggettivo colossale, sono di tale grandezza che la immagine del sole è del diametro di 15 centimetri, ed il tempo che occorse per produrla su collodio sensibile fu di una piccolissima frazione di secondo.
Per evitare la difficoltà che nasce dalla non coincidenza del foco chimico col foco visuale, che sempre si incontra nei rifrattori astronomici, nella costruzione dei quali si ha più riguardo ai raggi luminosi visibili, che ai raggi chimici invisibili, il signor De-la-Rue fece uso con vantaggio di un telescopio a riflessione, con cui vengono riuniti nel punto stesso tutti i raggi della luce.
Le immagini della luna e del sole, quando vengono ottenute con cannocchiali poco grandi, vengono ingrandite maggiormente, ed a tale effetto non è neppur necessario far uso della camera solare: basta mettere l’immagine presso ad un oggettivo comune rovesciato, e quindi dalla parte opposta riceverne la copia ingrandita sopra una superficie sensibile posta più lontano, e sul davanti dell’oggettivo stesso. L’ingrandimento in questi casi, come venne provato da Crookes, non si potrebbe portare al di là di 20 volte senza rendere troppo confusa ed indistinta l’immagine.
2. Assai curiose sono le immagini fotografiche di oggetti microscopici che si possono ottenere ingranditi in grado così forte, che l’occhio può osservare distintamente in esse tutti i dettagli i più impercettibli, dettagli che altrimenti si potrebbero osservare solo coll’aiuto di un microscopio. I corpi microscopici ricevono così un ingrandimento di molte migliaia di volte, onde si comprende quali servigi possono attendersi le scienze naturali da un modo così potente di osservazione.
Per le riproduzioni di oggetti microscopici si prende il comune microscopio composto, gli si toglie la lente oculare, che in questo caso non è necessaria, e poscia si fissa il microscopio in una camera oscura. Il vetro spulito della camera deve trovarsi perpendicolare all’asse della lente oggettiva del microscopio affinchè l’immagine non sia trasfigurata.
In queste riproduzioni una delle principali difficoltà deriva da ciò che il foco chimico non coincide col foco visuale, perchè la lente oggettiva del microscopio è generalmente troppo corretta per compensare l’aberrazione cromatica dell’oculare, per cui i raggi chimici sono proiettati al di là dei raggi gialli, ossia il foco chimico è più distante dalla lente che non il foco visuale presso cui si vede l’immagine. Allontanando l’immagine dalla lente, od allontanando la lente dall’immagine dopo della fochizzazione, si arriva a produrre buoni risultati dopo alcuni esperimenti. I microscopisti trovano più comodo allontanare la lente per correggere la differenza dei fochi. Quanto più è potente la lente oggettiva, ossia quanto più corto è il suo foco, tanto meno richiede di essere allontanata. Così mentre una lente del foco di 4 centimetri può richiedere uno spostamento di un millimetro, una lente che avesse un foco di solo un centimetro o ancor minore, la differenza è così poco sensibile, che in pratica si può dire nulla.
La luce, che illumina l’oggetto microscopico, deve essere o la luce del sole, o la luce elettrica, concentrata sull’oggetto col mezzo di un riflettore, e di un condensatore. Colla luce diffusa non si farebbe che perdere tempo, e fatica. La luce del sole produce sempre un grande riscaldamento dell’oggetto, e ciò è una non infrequente causa di insuccesso, perciò quando è possibile è meglio far uso della luce elettrica, o di altra luce artificiale. Le difficoltà crescono, quanto più potente è la lente oggettiva che si adopera, perchè con essa l’immagine è meno perfetta. Non si deve usare una apertura angolare più grande di quella, che permette di osservare i dettagli nella struttura dell’oggetto, poichè quanto più piccola è l’apertura, tanto più nitida è l’immagine.
Tra quelli che si sono maggiormente occupati della fotografia di oggetti microscopici noi dobbiamo citare Shadbolt e Bertsch. Quest’ultimo ottenne prove di oggetti translucidi con un ingrandimento di 1000 diametri, ossia con un ingrandimento superficiale di un milione di volte maggiore del vero, ed ottenne prove di oggetti opachi con un ingrandimento di 150 diametri.
10° Fotografie microscopiche.
Si producono dai fotografi delle fotografie, che si potrebbero dire microscopiche, perchè sono così piccole, che i varii oggetti rappresentati sono appena percettibili, ed i dettagli di essi affatto invisibili. Queste immagini si chiamano spesso microfotografie, nome che alcuni applicano anche alle fotografie di oggetti microscopici. Le microfotografie sono destinate ad essere osservate in un microscopio che ingrandisca da 50 a 100 volte.
Questo genere di immagini sembra più curioso che utile, e per ottenere un risultato nel prepararle, o si pone l’oggetto lontanissimo dalle lenti, nel qual caso però l’immagine ha poco rilievo, perchè non accusa le distanze; oppure si fa uso di una lente, il cui foco sia cortissimo, p. e. di due o tre centimetri soltanto. Una tal lente è munita di un piccol telaio, in cui si possa mettere una piccola laminetta di vetro ricoperta di uno strato di collodio sensibile. Con questa disposizione si può prendere delle perfette fotografie di oggetti a moderata distanza, che vedute colle lenti del microscopio accusano tutti i dettagli degli oggetti, e che ad occhio nudo non presentano forma determinata, ma solo una macchia di niun significato, e della grandezza di uno o due millimetri.
La più grande difficoltà nell’ottenere queste produzioni è la messa al foco. Questa si può effettuare sullo stesso strato sensibile, quando questo è sufficientemente denso, e translucido, non trasparente, frapponendo fra esso e la lente un vetro giallo nel momento del fochizzare, ed esaminando l’immagine con un potente microscopio per ottenerla della massima nitidezza. Per la cortezza del foco la differenza tra il foco chimico e visuale non è sensibile. Queste microfotografie si coprono poscia con una laminetta di vetro, la quale si fa aderire all’immagine col mezzo di balsamo del Canadà. Il collodio deve essere polveriforme, non fibroso, ed il vetro che copre l’immagine deve essere di una trasparenza perfetta.
Prima di finire diremo, che alcuni producono queste prove microscopiche col metodo delle riduzioni di immagini più grandi, cioè incominciano per prendere una prima prova negativa piuttosto piccola degli oggetti, gruppi di persone, iscrizioni, ecc., e poi copiano questa negativa con un piccolo oggettivo comune a foco molto corto, e così facilmente ottengono una piccolissima positiva.
11° Levata e riduzione dei piani.
1. Le distanze, e le vere dimensioni degli oggetti che compongono un paese, possono essere non solo stimate vagamente, ma determinate con esattezza quando si hanno molte vedute di questo paese prese da punti differenti. La geometria insegna, che quanto più lontani sono gli oggetti di cui si vogliono misurare le distanze, tanto più distinti devono essere i punti, da cui vogliono essere osservati, da cui si devono prendere le loro prospettive. Le vedute panoramiche del terreno, prese in condizioni di esattezza sufficiente, si possono dai topografi sostituire al terreno stesso, poichè esse si possono combinare tra loro in modo da dedurre per mezzo di costruzioni grafiche convenienti la proiezione orizzontale, ed il livellamento dei punti più notevoli alla superficie del suolo. Questo metodo, stato proposto da Laussedat, da Porro, e da altri, è destinato a dare un carattere geometrico alle vedute fotografiche, affinchè esse possano servire alla topografia, essere utili ai militari, geologi, ingegneri per costrurre il piano ed il rilievo del terreno.
Le distanze, e le dimensioni degli oggetti possono anche venire determinate da una sola veduta fotografica, quando si ha la precauzione di mettere sul terreno degli steli di altezza conosciuta, posti nei principali punti della levata, e di cui la grandezza delle immagini risultanti è inversamente proporzionale alle distanze, epperciò una tale prospettiva fotografica potrà servire per costruire il piano del terreno, come nel primo caso.
Questi metodi vennero praticati con qualche successo dopo della scoperta del collodio che permette, sino ad un certo punto, la riproduzione della vegetazione.
2. Si ha spesso bisogno di ridurre ad una scala più piccola o più grande un piano, una carta topografica, o un disegno qualunque. Ciò dai disegnatori si eseguisce ordinariamente col pantografo, ed il tempo che occorre è lungo, e la spesa è grande. Col mezzo della fotografia si effettua vantaggiosamente le stesse riduzioni, come venne dimostrato dall’esperienza che si fece in grande nel ridurre col mezzo dei procedimenti fotografici i piani del catasto.
Le prime applicazioni della fotografia alla levata dei piani del catasto venne fatta in Inghilterra, ed il successo che si ottenne fu così grande, che ora non vi si impiega più altro modo di riduzione dei piani topografici, che quello che somministra la fotografia, colla quale la spesa totale non arriva alla quarta parte di ciò che costa cogli altri metodi, in cui si fa uso del pantografo, dell’eidografo, e del metodo dei quadrati, dei compassi proporzionali, ecc., e le riduzioni si fanno così rapidamente, che non vi è alcun ritardo nella pubblicazione di un piano di uno stesso distretto sulle differenti scale domandate. I piani della scala di 1/2500 vengono così ridotti alla scala di 1/10000, di 1/50000 ecc., con eguale faciltà e speditezza.
Il colonnello James, sotto la cui direzione venne fatta la prima citata applicazione in grande della riduzione dei piani, trovò che i diversi colori dei piani, quando vengono disposti nell’ordine seguente, producono una gradazione perfetta dal bianco al nero nelle prove fotografiche: Blù2, porpora, rosso, arancio, giallo, perciò egli fa colorare in giallo le case nei piani manoscritti da ridurre fotograficamente. I piani ridotti sono poi dati ad un incisore per farne delle incisioni su rame. La scala di riduzione si ottiene come si vuole, segnando sul vetro spulito della camera oscura un parallelogramma rettangolo proporzionale a quello che rappresenta il piano. La riduzione dei piani colla fotografia riesce perfetta anche quando il rapporto delle dimensioni lineari delle due superficie è di 20 a 1, mentre che i limiti di esattezza del pantografo non oltrepassano il rapporto di 12 a 1.
12° Conclusione.
Da quello che precede il lettore ha potuto conoscere in modo generale l’origine, ed i successivi progressi ed applicazioni della fotografia, ed avrà potuto convincersi che non basta una triviale conoscenza dei procedimenti pratici per possedere a fondo quest’arte incantevole. Tante sono le circostanze, in cui l’operatore può trovarsi nel corso dei suoi lavori, tante sono le difficoltà che possono presentarsi per causa dei corpi che si mettono in azione, per causa degli agenti, delle forze naturali, che concorrono alla produzione delle immagini fotografiche, i quali corpi, e le quali forze si manifestano spesso con risultati diversi in circostanze diverse, che è cosa indispensabile il fare uno studio speciale di queste forze e di questi corpi. Perciò noi prima di trattare dei vari procedimenti pratici daremo una breve nozione delle parti dell’ottica e della chimica, che sono applicabili allo studio della fotografia, derogando così all’ordine tenuto da noi nella prima edizione di questo trattato, nella quale la parte teorica venne data dopo della parte pratica.
L’inconveniente che da tal metodo può derivare è però meno grande ora che la fotografia pratica è più generalmente conosciuta.
Se non abbiamo intieramente raggiunta la meta, che ci siamo prefissa, ripeteremo ciò che altri disse, benchè con maggiore ragione di noi: Opere in longo fas est obrepere somnum. Le cose che si avevano a trattare sono infatti così varie e vaste, che l’approfondirle tutte è cosa molto ardua, e non concessa a chi è dedicato specialmente ad occupazioni di altra natura.
La buona accoglienza, che ebbe la prima edizione di questo trattato (essendo essa stata in poco tempo esaurita, ed essendo stata tradotta in francese per l’enciclopedia Roret dal signor E. de Valicourt, autore di ottimi trattati scientifici, ed essendo essa stata in parte tradotta in lingua tedesca) prova il bisogno, che si sente generalmente di opere, che trattino di fotografia, per causa dell’interessamento che il pubblico prende per quest’arte bella. Se anche questa seconda edizione potrà tornare di qualche utilità, lo scopo, che ci prefissiamo, sarà ottenuto.
NOTE
(1) sulla camera oscura.
Porta, nel suo trattato della magia naturale3, descrive nel modo seguente la camera oscura e le sue applicazioni.
......quendam enarrabimus usum, non parum iucundum et admirabilem ex quo maxima Naturae secreta nobis illucescere possunt. Veluti
Ut omnia in tenebris conspicias,
Quae foris a sole illustrantur
Cum suis coloribus.
Cubiculi fenestras omnes claudas oportet, proderitque si spiramenta quoque obturentur, ne lumen aliquod intro irrumpens, omne destruat: unam tantum terebrato, et foramen palmare aperito palmaris longitudinis et latitudinis supra tabellam plumbeam, vel aeneam accomodabis et glutinabis, papyri soliditatis, in cuius medio foramen aperies circulare digiti minimi magnitudine, e regione parietes albos vel papyrum, vel alba lintea appones. Sic a sole foris illustrata omnia, et deambulantes per plateas, uti antipodes spectabis: quaeque dextra sinistra, commutataque omnia videbuntur, et quo longius a foramine distabunt tanto maiorem sibi adsciscunt formam. Si papyrum vel albam tabulam appropinquabis, ea visuntur minora clarioraque: aliquantisper tamen immorando, non enim illico simulacra apparebunt: quia simile validum maximam cum sensu nonnunquam efficit sensationem, tatemque invehit affectionem, ut non solum quum sensus agunt sensoriis insint, eaque lacessant, sed etiam quum ex operibus discessere diutius immorentur, quod liquide potest perspici: nam per solem deambulantes, si ad tenebras convertimur, comitatur nos affectio ea, ut nil, vel aegerrime cernamus quum adhuc in oculis servetur affectio ipsa a lumine facta inde paulatim evanescente clare in tenebris aspicimus. Nunc autem enunciabo quod adhuc semper tacui tacendumque putavi. Si cristallinam lentem foramini appones iam iam omnia clariora cernes, vultus hominum deambulantium, colores, vestes, actus, et omnia, ac si proprius spectares, videbis tatù maxima iucunditate ut qui viderint nunquam satis mirari possint. At si vis
Maiora omnia et clariora videre.
E regione speculum apponito, non quod disgregando dissipet, sed colligendo uniat, tam accedendo recedendoque quousque ad suam verae imaginis quantitatem cognoveris, debita centri appropinquatione; et attentius cognoscet inspectator volantes volucres, coelum nubibus dispersum cyanei coloris, longe distantes montes, et in parvo papyri circulo (qui supra foramen accomodetur) quasi compendiosum orbem videbis, quod ubi vides non parum laetaberis: obversa omnia, quia speculi centro vicina sunt, si extra centrum elungabis, maiora et erecta, uti sunt, conspicies, sed non perspicua. Hinc evenit,
Ut quisque picturae ignarus rei alicuius
Vel hominis effigiem delineare possit.
Dummodo solum colores assimilare discat. Hoc non parvi faciendum artificium, feriat sol fenestram, et ibi circa foramen imagines vel homines adsint quorum imagines delineare volumus. Sol imagines illustret, non vero foramen. Oppones foramini papyrum albam ac tandiu homines ad lumen accomodabis, appropinquabis, elongabis dum perfectam imaginem sol in obiectam tabulam referat, picturae gnarus colores superponendo ubi sunt in tabula et ora vultus circumscribet, sic amata imagine remanebit impressio in tabula et in superficie ut imago in speculo spectabitur. Si vis
Ut recta omnia videantur.
Hoc erit magnum artificium, a multis tentatum sed non assecutum. Aliqui enim planis speculis foramini obliq: obiectis, et in oppositam tabulam reverberatis, videbant parum recta sed obscura, et indiscreta. saepius albam tabulam foramini oblique opponendo, atque e regione foraminis inspicientes, videbamus fere recta, sed pyramis per obliquum dissecta, sine proportione homines et imperspicuos ostendebat. Sed tali modo ita fies voti compos. Opponito foramini specillum e convexis fabricatum, inde in speculum concavum imago resiliat. Distet speculum concavum a centro, nam imagines quas obversas recipit, rectas reddit, ob centri distantiam. Sic supra foramen et papyrum albam iaculabit imagines rerum obiectarum, tam clare et perspicue ut non satis laetari, non satis mirari possis. Id tamen duximus admonendum, ne opera frustreris quod proportionati sint oportet circuli specilli, et concavi portio, quomodo id assequaris pluries hic declarabitur. Docebimus etiam:
1° Quomodo fieri possit ut in cubiculo venatus, hostium praelium, et alia praestigia appareant;
2° Quomodo solis eclipsis videri possit;
3° Quomodo in tenebris ea conspicias, quae foris a facibus illuminantur;
4° Quomodo sine speculi, ed alterius visibilis rei visione pendula imago in aere videatur;
5° Quomodo neque visibile neque speculum spectetur, sed imago sola in cubiculi medio pendula videatur etc.
Per amore di brevità rimandiamo all’opera precitata il lettore che fosse curioso di conoscere queste applicazioni della camera oscura.
(2) primi esperimenti fotografici di wedgwood e davy.
Noi dobbiamo a Wedgwood la prima idea di usare i raggi del sole per delineare col loro mezzo gli oggetti attraverso di cui si fanno passare. Sin dal 1802 egli pubblicò nel Journal of the royal Institution una memoria sopra di un metodo di copiare pitture su vetro e di fare profili col mezzo dell’azione della luce sul nitrato di argento; una tale memoria era accompagnata da alcune osservazioni fatte da H. Davy. Le più importanti indicazioni che essa contiene sono compendiate nel seguente estratto.
La carta bianca, o la pergamena bianca, inumidita con una soluzione di nitrato di argento, non subisce alcun cambiamento quando viene conservata in un sito oscuro, ma venendo esposta alla luce del giorno essa prontamente cambia di colore, e dopo di aver passato per differenti gradazioni di grigio e di bruno diventa al fine quasi nera. Le alterazioni di colore succedono più prontamente in proporzione che la luce è più intensa. Ai raggi diretti del sole due o tre minuti sono sufficienti per produrre tutto l’effetto; all’ombra si richiedono molte ore; e la luce trasmessa per differenti vetri colorati agisce sopra della carta con gradi differenti di intensità. Così si trova che i raggi rossi, ovvero i comuni raggi solari, passati per un vetro rosso, hanno una molto debole azione sopra di essa; i raggi gialli e verdi sono più efficaci; ma la luce blu e violetta produce i più decisi e potenti effetti.
Quando una figura qualunque viene portata sopra la superficie preparata, la parte compresa dalle ombre della figura rimane bianca, e l’altra parte prontamente annerisce. Per copiare pitture su vetro la soluzione deve venire applicata su pergamena, perchè è più prontamente impressionata che non la carta. Quando il colore si è prodotto sulla pergamena o sulla carta, esso non si può levare col mezzo dell’acqua, o dell’acqua e sapone, ed è permanente in alto grado. La copia di una pittura, od il profilo, immediatamente dopo di essere stata presa deve essere portata in un sito oscuro; essa può benissimo venire esaminata all’ombra, ma in questo caso l’esposizione dovrebbe essere solamente di pochi minuti; dalla luce delle candele e delle lampade comuni essa non viene sensibilmente alterata. Niun tentativo fatto per prevenire un’ulteriore azione della luce sopra i bianchi della copia o del profilo ebbe sin’ora buon successo. Si ricoprirono con un sottile strato di fina vernice, ma questo non distrusse la loro suscettibilità di colorarsi, e persino dopo rinnovati levamenti rimane aderente alle parti bianche della pergamena o della carta una sufficiente quantità della parte attiva della materia salina da cagionarne l’annerimento quando si espongono ai raggi del sole. Oltre le applicazioni di questo metodo di copiare che abbiamo menzionate ve ne sono ancora molte altre; ed esso sarà utile per fare i delineamenti di tutti quei tali oggetti che posseggono una tessitura parte opaca e parte trasparente. Le fibre legnose delle foglie e le ali degli insetti si possono affatto esattamente rappresentare col mezzo di esso; ed in questo caso egli è solamente necessario di fare che la luce solare passi direttamente attraverso di esse e di riceverne l’ombra sopra la pergamena.
Le immagini formate dalla camera oscura si trovarono essere troppo deboli per produrre in qualche discreto spazio di tempo un effetto sopra il nitrato di argento. Il copiare queste immagini, dice Davy, fu il primo scopo di Wedgwood nelle sue ricerche in questo soggetto; e per questo proposito egli dapprima adoperò il nitrato di argento che gli venne indicato da un amico come una sostanza molto sensibile all’influenza della luce; ma tutti i suoi numerosi esperimenti per arrivare al fine primitivo rimasero senza successo. Seguitando questi procedimenti, io trovai che le immagini di piccoli oggetti prodotte col mezzo del microscopio solare si possono copiare senza difficoltà sulla carta preparata. Questa sarà probabilmente una vantaggiosa applicazione del suo metodo. Ma egli è necessario per riescire che la carta sia posta solo a piccola distanza dalla lente.
Paragonando gli effetti prodotti dalla luce sul cloruro d’argento con quelli prodotti sul nitrato, egli parve evidente che il cloruro era il più suscettibile, ed entrambi erano più presto impressionati quando umidi, che non quando secchi, il qual fatto è da lungo tempo conosciuto. Anche al crepuscolo il colore del cloruro di argento sparso sulla carta lentamente cambia dal bianco al violetto debole; mentre presso eguali circostanze non si produce alcuna immediata alterazione sopra del nitrato.
Nulla, fuorchè un metodo di prevenire i bianchi dal colorirsi coll’esposizione alla luce del giorno, manca per rendere questo procedimento altrettanto utile quanto esso è elegante.
(3) invenzione di niepce.
Ella è cosa assai curiosa il vedere in qual modo lo sfortunato Niepce otteneva e fissava dei veri disegni fotografici in un tempo in cui nessuno credeva si potesse giungere a tanto.
Ecco in qual modo Niepce dà notizia della sua scoperta4.
La scoperta che io bo fatto, e che io designo sotto il nome di Eliografia, consiste nel riprodurre spontaneamente coll’azione della luce e con gradazioni di tinte dal nero al bianco, le immagini ricevute nella camera oscura.
Materia prima: Preparazione. La luce nel suo stato di composizione e di decomposizione agisce chimicamente sui corpi. Essa viene assorbita, essa si combina con essi e loro comunica nuove proprietà. Così essa aumenta la consistenza naturale di alcuni di questi corpi; essa li solidifica persino e li rende più o meno insolubili secondo la durata o l’intensità della sua azione. Tale è in poche parole il principio della scoperta.
Principio fondamentale di questa scoperta. La sostanza o materia prima che io impiego, quella che mi ha meglio riuscito e che concorre più immediatamente alla produzione dell’effetto, è l’asfalto o bitume di Giudea preparato nel modo seguente.
lo riempio a metà un bicchiere con questo bitume polverizzato; vi verso sopra goccia a goccia dell’olio essenziale di lavanda sino a che il bitume più non ne assorba e che ne sia solamente ben impregnato. Aggiungo quindi tanto di quest’olio essenziale sino a che esso si innalzi di tre linee circa al dissopra del miscuglio che si deve coprire ed abbandonare ad un dolce calore sino a che l’essenza aggiunta sia saturata colla materia colorante del bitume.
Se questa vernice non ha il grado di consistenza voluto, la si lascia evaporare all’aria libera in una capsula, riparandola dalla umidità che l’altera e finisce per decomporla. Questo inconveniente è soprattutto a temere in questa stagione fredda ed umida, per le esperienze fatte nella camera oscura.
Una piccola quantità di questa vernice applicata a freddo con un’ovatta di pelle ben dolce sopra una lamina di argento ben polita, la rende di un bel colore vermiglio, e vi si stende in istrato sottile e molto eguale. Si pone in seguito la lamina sopra di un ferro caldo ricoperto di alcuni fogli di carta, da cui si toglie così preventivamente tutta l’umidità; e quando la vernice più non impiastriccia, si toglie la lamina per lasciarla freddare e finire di seccare ad una dolce temperatura al riparo del contatto di un’aria umida. Io non devo tralasciare di osservare a questo soggetto che egli è principalmente nell’applicare la vernice che questa precauzione è indispensabile. In questo caso, un legger disco, al centro del quale è fissato un corto gambo che si tiene in bocca, basta per arrestare e condensare l’umidità della respirazione.
La tavola metallica così preparata può venire immediatamente sottomessa alle impressioni del fluido luminoso: ma anche dopo di esservi stata esposta abbastanza lungo tempo affinchè l’effetto abbia luogo, nulla indica che esso realmente esiste, imperocchè l’impressione resta nascosta, invisibile. Si tratta dunque di farla sortire ed a ciò non si riesce che col mezzo di un dissolvente.
Del dissolvente. Modo di prepararlo. Siccome questo dissolvente deve essere appropriato al risultato che si vuole ottenere, egli è difficile di fissare con esattezza le proporzioni della sua composizione; ma però, a circostanze eguali, più giova che esso sia troppo debole che troppo forte. Quello che io impiego di preferenza è composto di una parte, non in peso, ma in volume, di olio essenziale di lavanda sopra dieci parti, stessa misura, di olio di petrolio bianco. Il miscuglio, che diventa dapprima lattiginoso, si schiarifica perfettamente nel termine di due o tre giorni. Questo composto può servire molte volte di seguito. Esso non perde la sua proprietà dissolvente, che quando si avvicina al termine di saturazione, ciò che si riconosce dal suo diventare opaco e di coloro molto intenso; ma si può distillarlo e renderlo egualmente buono di prima.
La lamina o tavola inverniciata essendo tolta dalla camera oscura, si versa in un vaso di ferro bianco di un pollice di profondità, più lungo e più largo che la lamina, una quantità di dissolvente abbastanza considerevole, perchè la lamina ne sia intieramente ricoperta. La si tuffa nel liquido, ed osservandola sotto un certo angolo, in una luce falsa, si vede l’impronta comparire e scoprirsi a poco a poco, quantunque ancora velata dall’olio sopranuotante più o meno saturato di vernice. Si estrae allora la lamina e la si pone verticalmente per lasciar bene sgocciolare il dissolvente. Quando più non ne parte, si procede all’ultima operazione che non è mica la meno importante.
Del lavamento. Modo di procedervi. Egli basta di avere per ciò un apparato assai semplice, composto di una tavola di quattro piedi di lunghezza e più larga che la lamina. Questa tavola, alla sua superficie e nel senso della sua lunghezza, riceve due guide rette rilevate di due pollici. Essa viene fissata ad un supporto dalla sua estremità superiore col mezzo di cardini che permettono di inclinarla a piacimento per dare all’acqua che si versa il grado di celerità necessario. L’estremità inferiore della tavola mette capo in un vaso destinato a ricevere il liquido che scola.
Si pone la lamina in questa tavola inclinata, la si impedisce di scivolare fermandola contro due piccoli ramponi che non debbono oltrepassare lo spessore della lamina. Bisogna aver cura in questa stagione qui, di servirsi di acqua tiepida. Non la si versa mica sulla lamina, ma al dissopra, affinchè arrivandovi essa faccia velo e levi le ultime porzioni di olio aderenti alla vernice.
Egli è allora che l’impronta si trova compiutamente districata e dappertutto di una grande nitidezza, se l’operazione fu bene eseguita e soprattutto se si ha potuto disporre di una camera oscura perfezionata.
Applicazione dei procedimenti eliografici. La vernice impiegata potendo indifferentemente applicarsi su pietra, su metallo e su vetro, senza nulla cambiare alla manipolazione, io non mi arresterò che al modo di applicazione su argento e su vetro, facendo tuttavia osservare, in quanto all’incisione su rame, che si può senza inconveniente aggiungere alla composizione della vernice una piccola quantità di cera disciolta nell’olio essenziale di lavanda.
Finora l’argento laminato sul rame mi pare essere ciò che vi ha di meglio per la riproduzione delle immagini per causa della sua bianchezza e del suo splendore. Una cosa certa è questa, che dopo del lavamento, purchè l’impronta sia ben secca, il risultato ottenuto è di già soddisfacente. Egli sarebbe però da desiderare che si potesse, annerendo la lamina, ottenere tutte le gradazioni di tinte dal nero al bianco.
Io mi sono dunque occupato di quest’oggetto, servendomi dapprima del solfuro di potassio liquido, ma esso attacca la vernice quando è concentrato, e se si dilunga con acqua, esso non fa che arrossare il metallo. Questo doppio inconveniente mi costrinse di rinunciarvi. La sostanza che io impiego ora con maggiore speranza di successo è il iodio, che ha la proprietà di vaporizzarsi alla temperatura dell’aria. Per annerire la lastra con questo procedimento non si tratta che di rizzarla contro una delle pareti interne di una scatola aperta e di porre alcuni grani di iodio in una piccola incanalatura praticata lungo il lato opposto nel fondo della scatola. Dopo la si ricopre con un vetro per giudicare dell’effetto che si opera meno celeremente, ma ben più sicuramente. Si può allora lavare la vernice con alcool e non vi rimane più alcuna traccia dell’impronta primitiva. Siccome questo procedimento è ancora affatto nuovo per me, io mi limiterò a questa semplice modificazione, attendendo che l’esperienza mi abbia posto a portata di raccogliere sopra di esso dei dettagli più circostanziati.
Due saggi di vedute su vetro prese nella camera oscura mi hanno offerto dei risultati che, quantunque difettosi, mi sembrano dovere essere riferiti, perchè questo genere di applicazione può perfezionarsi più agevolmente e diventare col seguito di un interesse particolare.
Nell’uno di questi saggi, la luce, avendo agito con minore intensità, ha scoperto la vernice, in modo da rendere i degradamenti delle tinte molto meglio sentiti, di modo che l’impronta veduta per trasmissione riproduce sino ad un certo punto gli effetti conosciuti del diorama.
All’opposto, in un altro saggio, in cui l’azione del fluido luminoso fu più intensa, le parti le più illuminate, non essendo state attaccate dal dissolvente, sono restate trasparenti, e la differenza di tinte risulta unicamente dallo spessore relativo degli strati più o meno opachi della vernice. Se l’impronta è osservata per riflessione, in uno specchio, dalla parte della vernice e sotto un angolo determinato, essa produce un grande effetto, mentre che, veduta per trasmissione, essa non presenta che un’immagine confusa e scolorata, e ciò che vi ha di più sorprendente si è che essa sembra affettare i colori locali di certi oggetti. Meditando sopra di questo fatto rimarchevole, io ho creduto poterne tirare delle induzioni che permetterebbero di acconciarlo alla teoria di Newton sul fenomeno degli anelli colorati.
Egli basterebbe per ciò di supporre che tal raggio prismatico, il raggio verde per es., operando sulla sostanza della vernice e combinandosi con essa, le comunichi il grado di solubilità necessario, affinchè lo strato che ne risulta dopo della doppia operazione del dissolvente e del lavamento rifletta il color verde. Del resto egli è dato alla sola osservazione il constatare ciò che vi è di vero in questa ipotesi, e la cosa mi sembra abbastanza interessante per se stessa, per provocare nuove ricerche e dare luogo ad un esame più approfondito.
Osservazioni. Benchè non vi sia certamente nulla di difficile nell’impiego dei modi di esecuzione che ho or ora indicato, potrebbe tuttavia succedere che non si riescisse compiutamente in sulle prime, io penso dunque che egli sarebbe a proposito di operare in piccolo, copiando delle incisioni alla luce diffusa colla seguente assai semplice preparazione.
Si copre di vernice l’incisione solamente dal lato di dietro in modo da renderla ben trasparente. Quando essa è perfettamente secca, la si applica dalla parte del davanti sulla lamina inverniciata coll’aiuto di un vetro, di cui si diminuisce la pressione inclinando la lamina sotto un angolo di 45 gradi. In tal maniera si può, con due incisioni così preparate, e quattro piccole lastre d’argento laminato su rame, fare molte esperienze in una giornata, anche con tempo fosco, purchè il locale sia riparato dal freddo, e soprattutto dall’umido, che, io lo ripeto, deteriora la vernice ad un tal punto che essa si stacca a strati dalla lamina, quando la si introduce nel dissolvente. Egli è ciò che m’impedisce di servirmi della camera oscura durante la cattiva stagione. Moltiplicando le esperienze di cui io ho fatto menzione, si arriverà ben presto al fatto di tutti i procedimenti della manipolazione.
Relativamente al modo di impiegare la vernice, io debbo ricordare che non bisogna impiegarla che in consistenza abbastanza forte per formare uno strato compatto e così sottile che sia possibile, perchè esso resiste meglio all’azione del dissolvente e diviene tanto più sensibile alle impressioni della luce.
Riguardo all’iodio per annerire le prove su argento laminato, come riguardo all’acido per incidere sul rame, egli è essenziale che la vernice, dopo del levamento, sia tale come viene designato nel secondo saggio su vetro, rapportato qui sopra; imperocchè allora esso è ben meno permeabile sia all’acido, sia alle emanazioni dell’iodio, principalmente nelle parti dove esso ha conservato tutta la sua trasparenza; egli non è che a questa condizione che si può, anche coll’aiuto del migliore apparato di ottica, sperare di giungere ad una compiuta riuscita.
Addizioni. Quando si toglie la lamina inverniciata per farla seccare non bisogna mica solamente garantirla dall’umidità, ma aver cura di metterla al riparo dal contatto della luce.
Parlando delle esperienze fatte alla luce diffusa, io non ho nulla detto di questo genere d’esperienze su vetro. Io vado a supplirvi per non ommettere un perfezionamento che gli è particolare. Esso consiste semplicemente nel porre sotto la lastra di vetro una carta nera, e nell’interporre un quadro di cartone tra la lastra dal lato inverniciato, e l’incisione che deve esser stata preventivamente incollata al quadro di maniera che sia ben tesa. Egli ne risulta da questa disposizione che l’immagine sembra molto più viva che non sopra un fondo bianco, ciò che non può che contribuire alla prontezza dell’effetto; ed in secondo luogo che la vernice non è esposta ad essere guastata, in seguito, dal contatto immediato dell’incisione, come nell’altro procedimento, inconveniente che non è facile di evitare in un tempo caldo, quand’anche la vernice fosse molto secca.
Ma questo inconveniente si trova ben compensato dal vantaggio che hanno le prove su argento laminato di resistere all’azione del lavamento, mentre che egli è raro che questa operazione non deteriori più o meno le prove su vetro, sostanza che offre minore aderenza alla vernice in ragione della sua natura, e del suo polito più perfetto. Egli si trattava dunque, per rimediare a questo difetto, di dare più di mordente alla vernice, ed io credo di esservi pervenuto, almeno da ciò che posso giudicarne dietro di esperienze troppo recenti e troppo poco numerose.
Questa vernice consiste in una soluzione di bitume di Giudea nell’olio animale di Dippel, che si lascia evaporare alla temperatura atmosferica sino al grado di consistenza richiesta. Essa è più ontuosa, più tenace, e più colorata che l’altra, e si può, dopo che venne applicata, sottometterla subito alle impressioni del fluido luminoso, che sembra solidificarla più prontamente, perchè la grande volatilità dell’olio animale fa che essa secchi molto più presto.
(4) dagherrotipia.
Il primitivo procedimento di Daguerre consisteva in cinque operazioni.
Prima operazione. Dare il pulimento alla lamina di rame ed argento: 1° Strofinandola con cotone, olio d’olivo e pietra pomice, quindi, dopo di averla disgrassata, con cotone, pietra pomice, ed acido nitrico dilungato; 2° riscaldando fortemente la lamina per cinque minuti, e poi trattandola nuovamente con acido dilungato, pietra pomice, e cotone sino ad ottenere una brunitura perfetta.
Seconda operazione. Esporre la lamina ai vapori di iodio in una cassetta sino a che essa abbia preso un colore giallo di oro, nè più nè meno, perchè il colore violetto è molto meno sensibile, ed il color giallo pallido dà un’immagine troppo smunta, debole, senza vigorìa. È importante, dice Daguerre, che la temperatura nell’interno della cassetta sia la stessa di quella che è al di fuori, perchè altrimenti si può formare sulla lamina un deposito umido.
Terza operazione. Impressionare la lamina esponendola alla luce nella camera oscura.
Quarta operazione. Far comparire l’immagine prodotta dalla luce, mettendo la lastra impressionata in una cassetta contenente del mercurio, che si riscalda con una lampada ad alcool sino alla temperatura di + 60° centigradi.
Quinta operazione. Fissare l’immagine portandola in una soluzione concentrata di cloruro di sodio.
(5) Talbotipia.
Primitivo procedimento di Talbot.
Il sig. Fox Talbot, nel mese di febbraio dell’anno 1839, comunicò alla Società reale di Londra il suo primitivo procedimento di preparare una carta sensibile per le impressioni fotografiche. Ecco in qual modo l’inventore descrisse questo procedimento nel Philosophical Magazine.
Affine di preparare, egli dice, ciò che può chiamarsi carta fotogenica ordinaria, io scelgo prima di tutto carta tenace e con superficie unita. Quella che trovo migliore è la carta da lettere sopraffina. Io la immergo in una debole soluzione di sal comune, e l’asciugo sino a siccità; così il sale rimane uniformemente distribuito nel corpo di essa. Dopo io spargo sulla carta una soluzione di nitrato d’argento, sopra di una superficie solamente, e la faccio seccare vicino al fuoco. La soluzione non deve essere satura, ma sei od otto volte dilungata con acqua. Quando la carta è secca può venir adoperata.
Io ho trovato coll’esperienza che vi ha una certa proporzione tra la quantità del sale e quella della soluzione di argento che meglio corrisponde e che dà il massimo effetto. Se la forza del sale è accresciuta al di là di questo punto l’effetto diminuisce, ed in certi casi diventa eccessivamente piccolo.
Questa carta, se è fatta propriamente, è molto vantaggiosa per tutti i propositi fotogenici. Per esempio, nulla può esser più perfetto che le immagini che essa dà di foglie e fiori, specialmente con un sole estivo. La luce passando attraverso le foglie ne delinea ogni ramificazione.
Ora, prendiamo un foglio di carta così preparata, e laviamolo con una satura soluzione di sale, e quindi facciamolo seccare. Noi troveremo (specialmente se la carta viene conservata per alcune settimane prima di esperimentarla) che la sua sensibilità è grandemente diminuita, ed in alcuni casi sembra affatto estinta. Ma essa, se viene di nuovo lavata con una abbondante quantità della soluzione d’argento, diventa nuovamente sensibile alla luce, e persino più di quello che lo fosse prima. In questo modo alternativamente lavando la carta con sale ed argento, e facendola seccare nel frattempo, io sono arrivato ad accrescere la sua sensibilità al grado che è richiesto per ricevere le immagini della camera oscura.
Nell’eseguire questa operazione si troverà che i risultati sono alcune volte più, ed alcune volte meno soddisfacenti in conseguenza di piccole ed accidentali variazioni nelle proporzioni impiegate.
Egli succede alcune volte che il cloruro d’argento è disposto ad annerire da se stesso senza alcuna esposizione alla luce.
Questo indica che la sua sensibilità venne portata troppo avanti. Lo scopo è di accostarsi a questa condizione tanto vicino che sia possibile senza raggiungerla. Cosicchè la sostanza possa essere in uno stato pronto a cedere alla più debole forza estranea come alla debole azione dei raggi violetti, quando molto attenuati. Avendo perciò preparato un numero di fogli di carta con proporzioni chimiche debolmente differenti le une dalle altre, ne tagliai un piccolo lembo da ciascuno, ed avendoli a dovere segnati e numerati, posi questi lembi, parte per parte, in una luce diffusa molto debole per lo spazio di un quarto d’ora. Allora se alcuno di essi, come frequentemente succede, esibisce un notevole vantaggio sopra i suoi competitori, io scelgo la carta che porta il numero corrispondente per portarla nella camera oscura.
Calotipo.
Il procedimento sopra descritto essendo poco sensibile alla luce, non avrebbe gran valore per produrre delle prove negative nella camera oscura.
Talbot avendo saputo che Daguerre si serviva dell’iodio per sensibilizzare le sue lamine, sostituì al cloruro di sodio il ioduro di potassio per venire a produrre sulla carta la stessa combinazione di iodio, e di argento che veniva prodotta da Daguerre sulla lamina. Ma il difficile era di trovare una sostanza capace di rilevare l’immagine su carta, imperocchè il mercurio non produce alcun effetto sopra di essa. Questa sostanza venne trovata da Talbot, ed egli venne così a produrre il calotipo come egli lo chiama nella seguente descrizione.
Prendi un foglio della miglior carta da lettere avente una superficie liscia, ed una tessitura fitta ed unita. La marca del fabbricante, the watermark, se vi è, si taglia via affinchè non sfiguri il disegno. Sciogli 100 grani di nitrato di argento cristallizzato in 6 oncie di acqua distillata. Con questa soluzione e col mezzo di una morbida spazzola lava la carta da una parte, e fa sopra di questa un segno, per riconoscerla di nuovo per l’avvenire. Fa cautamente seccare la carta a conveniente distanza dal fuoco, oppure lasciala seccare spontaneamente all’oscuro.
Quando secca, o quasi tale, introducila in una soluzione di ioduro di potassio contenente 500 grani di questo sale sciolto in 1 pinta d’acqua, e lasciala stare per due o tre minuti nella soluzione. Dopo immergi la carta in un vaso di acqua, seccala leggermente con carta bibula e termina di seccarla al fuoco, che non la danneggerà anche tenendovela assai vicino: altrimenti essa si può anche lasciar seccare spontaneamente. Tutto questo è meglio farlo alla sera al lume della candela. La carta così preparata si chiama carta iodurata, perchè essa ha un giallo pallido, ed uniforme rivestimento di ioduro d’argento. Essa è poco sensibile alla luce, tuttavia si deve conservare in un portafoglio sino a che si abbia da adoperare. Essa si può conservare per un tempo qualunque senza che si degradi, o subisca alcun cambiamento, se vien protetta dai raggi del sole. Quando la carta si ha da usare, prendine un foglio e lavalo con un liquido preparato nel modo seguente:
Sciogli 100 grani di nitrato d’argento cristallizzato in 2 oncie d’acqua distillata; aggiungi a questa soluzione un sesto del suo volume di acido acetico concentrato. Distingui questo miscuglio colla lettera A.
Fa una soluzione satura di acido gallico cristallizzato nell’acqua distillata. La quantità sciolta è molto piccola. Questa soluzione chiamala B.
Mescola insieme i liquidi A e B in volumi eguali, ma solamente una piccola quantità di essi alla volta, perchè il miscuglio non si può conservare lungo tempo senza guastarsi, e chiama la mistura gallo-nitrato d’argento. Porta questa soluzione sopra la carta iodurata dalla parte controssegnata, e dopo di averla lasciata sopra di essa per un mezzo minuto immergi la carta nell’acqua, e quindi asciuga dolcemente con carta bibula. Questa operazione richiede particolarmente la totale esclusione della luce del giorno; e quantunque la carta così preparata sia stata trovata capace di conservarsi per due o tre mesi, egli è a proposito di adoperarla entro poche ore, poichè essa all’oscuro viene spesso resa inutile da spontanei cambiamenti.
La carta in tal maniera preparata è squisitamente sensitiva alla luce, un’esposizione di meno di un secondo alla luce diffusa essendo affatto sufficiente a dar principio al processo di cambiamento. Se un pezzo di questa carta viene in parte coperto, ed in parte esposto alla luce del giorno per il più breve periodo di tempo possibile, si produrrà un’impressione affatto decisa. Quest’impressione è latente ed invisibile. Ma, se la carta si pone in un sito all’oscuro, essa gradatamente si svilupperà; oppure essa si può far sortire immediatamente lavando la carta con gallo-nitrato di argento, e tenendola a poca distanza dal fuoco. Le parti esposte diventano brune, le parti coperte conservando il loro colore originale. Le immagini così ottenute si fissano portandole nell’acqua pura, asciugando con carta emporetica, quindi lavandole con una soluzione di bromuro di potassio, contenente 100 grani di questo sale sciolto in 8— 10 oncie di acqua. Dopo un minuto o due, si introducono di nuovo nell’acqua, e finalmente si fanno seccare.
(6) niepsotipia.
Il sig. Niepce de Saint-Victor descrive nel modo seguente la sua scoperta della fotografia su vetro.
Quantunque questo lavoro non sia che abbozzato, io lo pubblico tale quale esso è, non dubitando dei rapidi progressi che esso farà tra mani più esercitate che non le mie, e con persone che opereranno in condizioni migliori di quelle che a me sia stato possibile di avere.
Io vado ad indicare i mezzi che ho impiegato, e che m’hanno dato dei risultati soddisfacenti senza esser perfetti. Siccome tutto dipende dalla preparazione della lastra, io credo dover dare la miglior maniera di comporre la salda.
Io prendo 5 grammi di amido che io stempro con 5 grammi di acqua, poi dilungo con altri 95 grammi. Dopo di ciò vi mescolo 35 centigrammi di ioduro di potassio sciolti in 5 grammi d’acqua. Porto sul fuoco: quando l’amido è cotto, io lo lascio freddare, poi lo passo per tela, ed è allora che io lo verso sulle lastre di vetro, avendo l’attenzione di coprirne tutta la superficie nel modo il più uniforme che sia possibile. Dopo di averle asciugate inferiormente, io le colloco sopra di un piano perfettamente orizzontale, affine di farle seccare abbastanza presto al sole od alla stufa, per ottenere un’intonacatura che non sia screpolata, ossia per fare che il vetro non si copra di cerchi in cui la salda è meno spessa che altrove (effetto prodotto, secondo me, dall’ioduro di potassio). Io prevengo che l’amido deve sempre venir preparato in un vaso di porcellana, e che la quantità di grammi 5 che ho or ora indicato è sufficiente per intonacare una decina di lastre dette di un quarto. Si vede da ciò che egli è facile preparare un gran numero di lastre alla volta. Egli è inoltre importante di non lasciarvi delle bolle d’aria che farebbero altrettanti piccoli buchi nelle prove.
La lastra essendo preparata in questa maniera, basterà, quando si vorrà operare, di applicarvi deill’aceto-nitrato col mezzo di una carta impregnata a più riprese con questa composizione; si prenderà in seguito un secondo pezzo di carta impregnato di acqua distillata, e si passerà sulla lastra. Un secondo mezzo consiste nello impregnare preventivamente lo strato dell’amido con acqua distillata prima di mettere l’aceto-nitrato; in quest’ultimo caso l’immagine riesce ben più nera, ma l’esposizione alla luce deve essere un po’ più lunga che col primo mezzo che ho indicato.
Si espone in seguito la lastra nella camera oscura, e vi si tiene per un tempo forse un po’ più lungo che se si trattasse di una carta preparata col procedimento di Blanquart. Però io ho ottenuto delle prove molto nere in 20 oppure 25 secondi al sole ed in 1 minuto all’ombra.
L’operazione viene quindi condotta come se si trattasse della carta, vale a dire, che si adopera l’acido gallico per far comparire il disegno, ed il bromuro di potassio per fissarlo.
Tale si è il procedimento di cui io mi sono servito; ma avendo avuto l’idea d’impiegare l’albumina (bianco d’uovo), io ottenni dei prodotti molto superiori sotto tutti i rapporti, ed io credo che egli è a quest’ultima sostanza che bisognerà dare la preferenza.
Ecco qui la maniera con cui io ho preparato le mie lastre.
Io presi nel bianco d’uovo la parte più chiara in cui io posi dell’ioduro di potassio, poscia, dopo di averla stesa sulle mie lastre, la lasciai seccare alla temperatura ordinaria (se la temperatura fosse troppo elevata lo strato di albumina si screpolerebbe). Quando si vuole operare si applica l’aceto-nitrato versandolo sulla lastra in modo da coprirne tutta la superficie ad un tratto; ma egli sarebbe preferibile di immergerla in questa composizione per ottenere un’intonacatura ben unita.
L’acetonitrato rende l’albumina insolubile nell’acqua, e le comunica una grande aderenza al vetro. Coll’albumina bisogna esporre un poco più lungo tempo all’azione della luce che quando si opera coll’amido; l’azione dell’acido gallico è egualmente più lunga; ma in compenso si ottiene una purezza ed una finezza di tratti rimarchevoli, che, io lo credo, potranno un dì arrivare alla perfezione d’una immagine su lamina d’argento.
Io ho esperimentato le gelatine; esse danno pure dei disegni di una grande purezza (sovrattutto se si ha la precauzione di filtrarle, ciò che è essenziale di fare per tutte le sostanze); ma esse si sciolgono troppo facilmente nell’acqua.
Se si vuole impiegare l’amido bisognerà scegliere il più fino; per me, che non ho impiegato che quello del commercio, il miglior che io abbia trovato è quello della casa Groult.
Egli è impiegando i mezzi che vengo dall’indicare che io ho ottenuto delle prove negative. In quanto alle prove positive, non avendone fatto, non ne parlerò; ma io presumo che si può operare come per la carta, oppure mettendo le sostanze nell’amido, ma non nell’albumina, che non bisognerà neppure passare nella soluzione di sal marino.
Se si preferisce a continuare l’uso della carta, io raccomanderò di ricoprirla di uno o due strati di amido o di albumina, e si avrà allora la stessa purezza di disegno che per le prove che io feci all’iodio; ma io credo che ciò non varrà mai un corpo duro e polito ricoperto di uno strato sensibile.
Io aggiungerò che si potrà ottener delle prove positive assai belle sopra vetro appannato.
Non sarebbe da sperare che con questo mezzo si giunga a tirare delle prove dalla pietra litografica, non fosse che segnando colla matita il disegno riprodotto, se non si può annerirlo altrimenti? Io ho ottenuto delle bellissime prove sopra di un scisto (pietra a rasoio) rivestito di uno strato di albumina. Coll’aiuto di questo mezzo gli incisori su rame e su legno potranno ottenere delle immagini che loro sarà facilissimo di riprodurre.
(7) sullo stereoscopio.
Per capire in qual modo lo stereoscopio produca l’illusione del rilievo quando con esso si osservano due immagini di uno stesso modello sopra di un piano, dobbiamo ricordarci che con un occhio solo noi non abbiamo che la prospettiva degli oggetti che osserviamo, senza del rilievo, il quale dipende dallo abbracciare contemporaneamente coi due occhi i contorni a destra ed a sinistra degli oggetti che ci stanno davanti.
Leonardo da Vinci nel suo trattato della pittura ha le seguenti osservazioni sulla visione, per venire a dar ragione del fatto che le cose ritratte dal naturale non paiono del medesimo rilievo di quello che esse hanno naturalmente.
Tali osservazioni servono in singolar maniera a spiegare i fenomeni dello stereoscopio e sono di un interesse storico molto grande.
«Capo 53. Li pittori spesse volte cadono in disperazione del loro imitare il naturale, vedendo le loro pitture non avere quel rilievo e quella vivacità che hanno le cose vedute nello specchio, allegando loro aver colori che di gran lunga per chiarezza e per oscurità avanzano la qualità dei lumi e ombre della cosa veduta nello specchio, accusando in questo caso la loro ignoranza, e non la ragione, perchè non la conoscono. Impossibile è che la cosa dipinta apparisca di tal rilievo, che si assomigli alle cose dello specchio, benchè l’una e l’altra sia in sua superficie, salvo se fia veduta solo con un occhio; e la ragione è questa: i due occhi che vedano una cosa dopo l’altra come A B che vedono M N. La M non può occupare intieramente N, perchè la base delle linee visuali è si larga che vede il corpo secondo dopo il primo, ma se chiudi un occhio come S, il corpo F occuperà R perchè la linea visuale nasce da un sol punto, e fa base nel primo corpo, onde il secondo di pari grandezza non fia mai veduto».
«Capo 341. Impossibile è che la pittura imitata con somma perfezione di lineamenti, ombre, lume e colore possa parere del medesimo rilievo quale pare esso naturale, se già tal naturale in lunga distanza non è veduto da un sol occhio.
Provasi. Siano gli occhi A B li quali vegghino l’obbietto C col concorso delle linee centrali degli occhi A C e B C, dico che le linee laterali di essa centrale vedono dietro a tal obbietto lo spazio G D e l’occhio A vede tutto lo spazio F D e l’occhio B vede tutto lo spazio G E. Adunque li due occhi vedono di dietro all’obbietto C tutto lo spazio F E, per la qual cosa tutto l’obbietto C resta trasparente, secondo la definizione della trasparenza, dietro la quale niente si nasconde: il che intervenir non può a quello che vede con un sol occhio un obbietto maggior di esso occhio. E per quello che si è detto potiamo concludere il nostro quesito, perchè una cosa dipinta occupa tutto lo spazio che ha dietro a sè, e per nissuna via è possibile veder parte alcuna del campo che la linea sua circonferenziale ha dietro a sè».
È evidente, dietro di queste spiegazioni di Leonardo, che se noi osserviamo contemporaneamente coi due occhi due immagini fotografiche di M N prese dal punto A, e dal punto B, noi potremo vedere lo stesso spazio dietro M, come se osservassimo l’oggetto stesso al naturale. Ciò è infatti quel che succede a chi è capace di guardare osservando le due immagini nel tempo stesso, e che succede a tutti osservando le due immagini col mezzo dello stereoscopio.
Coi nostri due occhi noi, secondo il modo di dire del signor Brewer5, siamo come un geometra che col suo compasso, di cui l’una delle punte è a vicenda portata alla estremità di una base, descrive dei circoli che colla loro intersezione determinano le posizioni dei differenti punti del piano. La base è la linea che unisce i centri dei nostri due occhi, i lati del compasso sono i nostri due assi ottici, o le linee che vanno dai centri degli occhi ad uno stesso punto dell’oggetto. Questi due assi o queste due linee fanno tra loro un certo angolo alla cima del triangolo, di cui la base è la distanza dei due occhi. Quest’angolo della cima è più grande se il punto dell’oggetto è più vicino; più piccolo, se il punto dell’oggetto è più lontano, ed è la percezione di questo angolo più o meno grande, più o meno piccolo, che ci fa giudicare che il punto corrispondente è più vicino o più lontano, che ci dà, in una parola, il senso del rilievo e della distanza.
- ↑ Questa parola eliografia è forse più esatta che non la parola fotografia, perchè, come si dirà, i raggi luminosi per se stessi non sono quelli che producono i così detti disegni Luce-disegnati, ossia fotografici.
- ↑ Questa voce blù invece di turchino od azzurro l’adottiamo in questo libro per l’analogia che essa ha colle denominazioni di altre lingue, per cui si dice blau in tedesco, blue in inglese, e bleu in francese, ma soprattutto perchè essa viene comunemente usata nei varii dialetti italiani. Per evitare la difficoltà di farsi comprendere nella denominazione di questo colore, molti fra i nostri più autorevoli scrittori usano addirittura la voce francese bleu che è così poco italianizzabile nella sua pronuncia, per cui ci pare doversi modificare. Nella prima edizione abbiamo scritto Blò, ma ci pare meglio seguire l’esempio datoci dal dottor Travella nel suo libro I corpi e gli agenti naturali, Asti 1862, nel quale esso scrisse blù, voce che offre anche maggiore analogia con le desinenze delle altre lingue Europee nella nomenclatura scritta di questo colore.
- ↑ Io. Baptistae Portae Neapolitani magiae naturalis libri viginti, Hannoviae, MDCXIX. Typis Wechelianis.
- ↑ Exposition et histoire des principales découvertes scientifiques modernes, par Louis Figuier. Paris, 1852.
- ↑ La clef de la science, par E. C. Brewer. Paris. 3me édition revue et corrigée per l’abbé Moigno.