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introduzione. | 5 |
Per la minore intensità della luce che accompagna, e che produce l’immagine della camera oscura, Niepce incontrò difficoltà molto più grandi nel ritrarre questa immagine. Ma finalmente, verso l’anno 1825, vi riescì, quantunque per ottenere un’immagine dovesse impiegare da sei ad otto ore.
Il suo modo di operare in questo caso è affatto analogo a quello della sua riproduzione delle stampe ed incisioni.
Collo stesso bitume di Giudea egli ricopriva una lamina di rame inargentata, la metteva per un tempo sufficiente nell’immagine della camera oscura, terminava e fissava con un miscuglio di essenza di lavanda e di petrolio. Le parti corrispondenti alle ombre, che non erano state impressionate dalla luce, si scioglievano e così davano maggior sviluppo all’impronta ottenuta, mentre le parti corrispondenti ai lumi, state alterate profondamente dai raggi luminosi, non erano attaccate dal miscuglio. In tal maniera il disegno che si otteneva era ancora di un effetto naturale; i lumi e le ombre dell’immagine corrispondevano con quelli degli oggetti copiati. I lumi erano formati dal bitume, imbianchito e le ombre dalle parti brunite del metallo, ed i chiari-scuri, le semitinte dalle parti del bitume sopra di cui il dissolvente aveva imperfettamente agito.
Le immagini così prodotte si formavano troppo lentamente ed erano ancora ben lontane dallo avere la voluta perfezione. L’autore di esse tentò varie vie per accrescere la sensibilità dell’asfalto, per rendere i disegni ottenuti più vigorosi ed intensi, di un effetto più artistico, trattando la lamina impressionata con varie sostanze, tra le quali merita di essere specialmente ricordato il iodio, dal quale egli si prometteva i migliori risultati (V. nota 3).
In questo mentre un abile pittore parigino, avendo saputo che si era arrivato a fissare l’immagine della camera oscura, ebbe modo di farsi svelare da Niepce la secreta maniera del suo operare per ottenere un tale risultato. Daguerre, che così ei si chiamava, messo una volta a parte dei proce-